Claudia Ciardi
Flux et Reflux. Rotte per l’OltreAmerica.
Su Ezra Pound

All’affetto che Mary de Rachewiltz mi ha dimostrato
in questi due anni di corrispondenza.
Alle voci di tutti gli amici al di qua e al di là
dell’oceano.

I due interventi che intendo presentare sviluppano alcuni degli elementi messi a fuoco durante le mie ricerche, cominciate nel 2006, intorno alla poesia anglo-americana, un interesse virato quasi subito con una manovra sciolta quanto decisa verso la lettura dei Cantos, e i Pisan Cantos in particolare. Qui ho trovato un approdo costruito su origini, per così dire, comuni e dunque tra loro comunicanti, essendo Pisa il luogo della mia nascita e anche il “punctum originis”, nel poeta americano, di una profonda “rememoratio” della sua vicenda letteraria e biografica. La forza tragica liberata dall’esperienza di Ezra Pound ha spinto ad attingere oltre che nel verso, anche nello spazio, quel “dettaglio illuminante” per cui scorgere “an era of unmixed motives”, spesso cercato attraverso le molteplici tessiture della sua opera. Ecco dunque così occupati questi miei ultimi tre anni di scrittura. Gli autori che fisicamente o culturalmente condividono un’origine quasi sempre si ritrovano, aprendo rotte che generano ritorni e corrispondenze, il flusso e il riflusso da una vita a un’altra, dunque da un’opera all’altra. In ciò consiste l’essenza dell’Oltre, accesa dall’energia che corre lungo le diverse vie dell’esperienza e degli immaginari, scaldando il limo nuovo della parola. È qualcosa di affine alla Geografía invisible di Laureano Albán, che per ritrovare la sua America latina ha dovuto incontrare la Spagna, la madre a un tempo distruttrice e creatrice. È il continuo riproporsi di quel «movimento d’insorgenza, d’affioro da strati più profondi alla superficie», che Giuliano Gramigna vedeva proprio nella poesia poundiana. Il fluxus che riporta alla tradizione (“Pass on the tradition”), e solo dopo una lunga navigatio nelle sue acque trova un varco per procedere oltre il continente. Perché scrivere è prima di tutto penetrare l’esperienza del modello. Bisogna passare attraverso il corpo di un’opera se si vuole raccogliere l’apparizione del suo “Oltre”, e soltanto poi decidere il moto per superarlo, o trasfigurarlo, come direbbe Babel’. Per lui l’essenza del reale si incontra infatti nella trasfigurazione; l’arte ha il compito, trasfigurando, di rimuovere le pseudo-certezze che ci impediscono di vedere. È quello che Nietzsche indica come “pregiudizio” e che va disarmato dentro ogni parola. La creazione artistica quindi come unico mezzo da opporre alla continua mistificazione del mondo.

Da una simile premessa abbiamo innescato un procedimento che verrebbe da definire di mimesi doppia, ossia identificato un nucleo emotivo e tematico sul quale fosse in grado di saldarsi la materia di un’ulteriore trasfigurazione, abbiamo provato a dare, pure per questa via, una rappresentazione della realtà.

Quanto al concetto di imitazione, attorno al quale, anche se non solo in rapporto ad esso, si è aperto il mio passaggio attraverso i “Pisan Cantos”, vorrei spendere qualche parola, per chiarire come questo si integri nel meccanismo di flusso e riflusso che abbiamo cercato di descrivere. La mímesis della vecchia e polverosa cultura europea è in parte un ingranaggio effettivo che fa muovere l’indagine degli artisti e degli studiosi che abitano al di là dell’oceano, in parte una banalizzante vulgata che, nei termini in cui viene per lo più espressa, ottiene di appiattire molte delle peculiarità allusive o elusive, generate da questo gioco di richiami. Ezra Pound ha fatto di questo argomento e, in diretta contiguità rispetto ad esso, della discussione su come raggiungere una visione culturale d’insieme, articolata nella sua produzione sia poetica che saggistica, uno dei centri radianti della propria arte. Il viaggio poundiano dall’America all’Europa (e poi ancora l’America vissuta soltanto nei territori della letteratura e da qui ricreata in memoria di un passato ideale, della cui perdita definitiva, già sentita da giovane, contribuisce a fargli acquistare violentemente coscienza la lunga detenzione negli ultimi anni di vita), il viaggio, si diceva, tende a quei “propositi incontaminati”, introdotti nelle sue “Indiscretions”, ai quali abbiamo accennato sopra. Da questi “unmixed motives” si avvia il recupero della vera sembianza del luogo e allo stesso tempo si prepara il salto che conduce al di là di esso. Per la mia opera, “Imitazione ai Cantos”, semplificando e derivando dalle considerazioni precedenti, si potrebbe dunque dire che, operando nel senso di una scrittura trasfigurata in altra scrittura, ho cercato l’imitazione dell’ “imitatore americano” per tornare alla cultura europea e, sul piano personale, per dirigermi, assecondando la sua rotta, al rinvenimento di quei nessi utili al racconto della mia esperienza. Poniamo l’accensione di un controfuoco dalle cui ceneri il frutto si leva intero.

Cos’è allora l’OltreAmerica in questa nostra tentata esplorazione? È la scoperta di una terra sconfinante oltre l’America, come dice la parola, un continente collocato “cis” e “ultra” le coordinate dello spazio, ora dal meccanismo della citazione ora dall’inarrestabile impulso di Proteo a uscire continuamente da se stesso.

A Mary de Rachewiltz, Pisa, maggio 2009:

«[...] ciò che ispira in profondo la poesia poundiana: questa sorta di Streben, di tensione fluida e inarrestabile che trascina con sé [...] I gather the limbs of Osiris, anch’io risalendo il fiume».

Da Mary de Rachewiltz, Brunnenburg, agosto 2009:

«Il “Taishan” di Pisa è magico, io qui ho il mio Taishan da contemplare. Inutile dire che sarei felice di incontrarla [...] dovrà essere lei a “risalire” l’Adige».

Rose rampicanti sui muri della poesia. Appunti per un’epica di viaggio in cerca di “propositi incontaminati”.

Questo articolo, prendendo le mosse dall’edizione italiana degli appunti tenuti da Ezra Pound in occasione del tour del 1912 nel sud della Francia, una selezione di prose curata per “Via del Vento” da Francesco Cappellini, ne isola alcuni passaggi che vengono qui commentati, per analizzare una serie di elementi della poetica poundiana e provare a seguirne gli sviluppi nell’opera del maestro americano. In particolare si creano le premesse per uno studio comparativo che mette in contatto la prosa degli appunti con quella di Indiscretions e alcuni dei temi che guidano il percorso dei Cantos. Un confronto che si propone principalmente di determinare e approfondire i motivi ispiratori di queste tre opere. Si osserva che la camminata di Pound ventisettenne tra i castelli della Provenza è molto più di una escursione, una visita alle rovine di una storia lontana, attraverso cui il poeta moderno rende omaggio ai cantori del passato. Si tratta del viaggio volto al recupero delle vere origini della poesia e, ispirato da questo disegno, di un sentimento ormai disperso di innocenza, che saranno tra gli stimoli principali alla composizione di Indiscretions. Il nodo di memorie provenzali alimenterà anche molta parte dei Cantos, a ulteriore riprova che queste immagini vanno ben oltre il semplice dettaglio coloristico. Le voci dei trovatori nei Pisan Cantos rappresentano infatti il punto più alto di quella risalita a certe origini della cultura considerate dal poeta momenti incorrotti del sentire umano, alle quali tende in tutta la sua opera, e il cui raggiungimento, nel dramma della prigionia, diventa improrogabile per poter pensare di avere ancora a una possibilità di salvezza. Ma si tratta, lo vedremo, di percorsi e incontri affatto lineari né di sicura collocazione nello spazio e nel tempo. In mezzo al dolore e al tumulto emotivo delle settimane passate nel campo si spalancano, fluidamente e clamorosamente contigui, i ricordi di una vita, dalla luce iniziatica della Provenza al paganesimo dell’infanzia americana. Un unico viaggio per tornare attraverso la parola all’identità perduta dei luoghi e delle persone.

«Qui la Poesia non è davvero una faccenda artistica, ma parte della vita stessa1 Così comincia uno degli appunti di viaggio tenuti da Ezra Pound durante la sua escursione nel sud della Francia, tra i mesi di maggio e luglio del 1912. Un tour che portò il poeta dell’Idaho a percorrere più di mille chilometri, la metà a piedi. È un viaggio alla ricerca delle origini poetiche, essendo che la lirica provenzale segna la nascita di quella moderna, ma anche il ritorno, nelle intenzioni di questo infaticabile promeneur, a una innocenza del vivere e a una genuinità del sentire.

C’è nel resoconto poundiano una familiare intimità col paesaggio di cui la poesia è un frutto pienamente fisico, iscritto nella luce, nei colori, nei suoni della terra che l’ha concepita. E questo paesaggio di rovine e memorie dimesse, che con tanta facilità farebbe indulgere alla malinconia, rivela al poeta viandante qualcosa in cui ritrovarsi, riempiendo il senso di perdita con un che di altrettanto vitale. Queste note scarne, nelle quali non si riscontra alcun rigore diaristico, dimostrano al lettore come l’occhio e le percezioni da esso registrate compongono un fraseggio interiore, il cui tempo è scandito da una vivida sintesi cromatica e architettonica. Il cromatismo anzi dà forma alla parola, la ricrea in un’unità ritmica e tonale nuova, in uno strumento di rituale invocazione o evocazione in grado di plasmare il mondo, al pari del dionisismo degli antichi o di uno Shiva danzante, con ciò doppiando quella che si potrebbe definire una sorta di ars naturalis praticata dai trovatori.

La versione italiana degli appunti di viaggio a cura di Francesco Cappellini per la casa editrice Via del Vento si compone di una serie di estratti che toccano l’intero pellegrinaggio del poeta da Poitiers a Beaucaire. In questo campionario di frammenti è conservata intatta la densità veloce e a tratti ironica della prosa poundiana, caratterizzata già da quel procedere paratattico che, tenendosi alla larga dai pericoli di una accumulazione statica, tende invece a un effetto di variatio e dunque di movimento, come si vedrà anni dopo in “Indiscretions”, che col diario francese ha diverse affinità a livello compositivo e tematico.

La paratassi qui sembra anche essere funzionale ad accompagnare la lunga camminata in solitario del poeta e ad accrescere il bisogno di quel corpo a corpo coi luoghi, costantemente indicato da Pound come unica via per assimilarne pienamente il carattere: «Si può giacere a terra & possederla & sentire il mondo sotto di sé».2

Si tratta di una regressione a uno stato selvatico, l’impulso a sentir rinascere in sé la naïveté attraverso il recupero di un’unione verginale col paesaggio “dove sta memora” , come nell’alba di zafferano che accende le nubi all’inizio del Canto 76, estasi che approda a una sospensione in una primavera senza tempo suscitata dal verso di Cavalcanti, la cui voce non casualmente nei Cantos intreccia, verrebbe da dire per mantica, quelle dei trovatori. E si pensi al Canto 20, aperto dalla “quasi tinnula” elegia vegetale del Can par la Flors di Bernard de Ventadorn, dove «Between the two almond trees flowering, / The viel held close to his side» e dove il poeta rievoca il viaggio a Friburgo, per avere da Emil Lévy, esperto in filologia romanza, un’interpretazione di Arnaut. Anche qui una peregrinatio in nome dell’arte dei trovatori che la lirica provenzale e Cavalcanti fissano in un quadro visionario e sinestetico di rigoglio della natura, cui segue il richiamo ai temi della poesia epica e cavalleresca. Il dato biografico è quindi ‘nobilitato’ dal proponimento di raggiungere il corretto significato dei versi di Arnaut e, per effetto della ricerca di questa ulteriore meta poetica, diviene qualcosa di svincolato dalla contingenza. Questa rappresentazione della memoria che esce da se stessa e smuove le radici dell’esperienza su cui è fondata, elevandosi a elemento chiave che accentra e organizza la materia verbale e concettuale, toccherà nei Pisan Cantos il punto più alto. Tale connubio tra sensazioni incorporate agli spazi visitati dal poeta, che cerca di rimettere insieme i cocci in cui si è dispersa l’humanitas del pensiero e della cultura, e sublimate mémoires letterarie, nel diario del ‘12 si struttura sotto forma di un nucleo primitivo, e la cronaca familiare di Indiscretions, con le sue fulminee e inaspettate risalite alle origini ‘elette’, ne diviene una la più articolata espressione che troverà nuovi sviluppi, lo si è detto, nei “pisani”.

Quel che unisce queste tre opere che segnano altrettanti momenti generativi dell’arte poundiana, il compiersi dell’iniziazione alla poesia nel resoconto provenzale, la ripresa della tradizione, interrotta dopo The Middle Years di Henry James, del romanzo come testimone e al contempo artefice dell’epica americana, nel libello storico-biografico che, attraverso le vicende dei Pound-Weston, racconta il mythos e il logos di una giovane nazione, il ripensamento, nei Pisan Cantos, delle esperienze di scrittura e di vita, l’elemento comune, si diceva, a questi tre percorsi letterari è una vibrante ritualità di natura, una corrente dionisiaca che, nello specifico del rito poetico, come se ne trovano molti esempi nei Cantos, coincide con la chiarezza della visione (cf. la chiusa del Canto 77: «bringest to focus / ch’êng-ch’êng / Zagreus / Zagreus»). Negli appunti l’entusiasmo bacchico è continuamente sotteso al racconto, e si direbbe l’elemento di trapasso da un quadro all’altro, più che il procedere fisico del viaggio stesso. In generale, si tratta di un’atmosfera pagana in cui risulta immersa la ricerca delle origini della poesia moderna; come infatti dice lo stesso Pound «la poesia provenzale non è mai interamente disgiunta dai riti pagani del calendimaggio3 Così la fête che lo accoglie a Périguex dove si arriva «avvolti da una meravigliosa musica pagana, attraverso una strada che scorre fra stendardi, a sinistra i tamburi di un artista ambulante, a destra il vortice della danza»,4 così la vita sensuale nell’assolato passeo di Arles.

Viene da pensare a questo proposito alla danza mattutina di fauni e ninfe che apre il Canto 4, paragolabile proprio ai riti di Calendimaggio, secondo Massimo Bacigalupo:5 «Dawn, to our walking, drifts in the green cool light; / Dew-haze blurs, in the grass, pale ankles moving. / Beat, beat, whirr, thud, in the soft turf / under the apple trees, / Choros nympharum». Si noti la serie fonosimbolica che dà il tempo ai corpi in movimento sul tappeto erboso, caviglie, piedi e zampe animati dal battito ronzante, immagine ritmica su cui si regge tutta la strofa. E pure qui il “Choros nympharum” richiama un tema provenzale, anche se a tinte fosche, lontano dalla gioia vivace delle descrizioni del diario che abbiamo riportato sopra; è infatti evocato un dramma d’amore, il suicidio di Seremonda, amante del trovatore Cabestan, alla quale il marito diede da mangiare il cuore di lui.

Ma c’è un altro elemento su cui vale la pena spendere qualche riflessione, la cornice vegetale che spesso adorna la materia poundiana, germogliando su tutto con grazia spontanea, tanto che negli appunti, e forse qui ancor più che altrove, prende a vivere un vero e proprio linguaggio delle piante: i gigli d’acqua che riempiono la Dronne, e quelli rosso sangue di Ribérac, «e questo giardino che non era nessun giardino in particolare, solo più appartato, cinto da un muro & nascosto da una doppia barriera di alberi, & con un gran cespuglio di rose gialle che lo riempiva di cuore & odore».6 In questa breve dissertazione su “vergier & ort” sembra essere evocato lo spazio ideale dell’hortus conclusus, allegoria dell’arte poetica condivisa tra pochi, giardino alchemico schiuso ai soli iniziati. Pound veste il suo monumento di delicatezza floreale la quale anziché smorzare, semmai rafforza il vigore aere perennius del racconto delle origini, non a caso rendendo omaggio al métier di Flaccus, che viene a benedire i versi liberi usciti dai notturni fantastici di Narbonne e Béziers; la natura infatti si pone come una presenza caparbia e irriducibile al tempo e alla sensibilità umani, e solo i cantori provenzali, e i lirici greci prima di loro, hanno saputo unirla alla loro arte: «Ciò che per “noi” è arte, maestria, “monumentum perennis” & rivolto verso l’eternità e roba del genere, qui non ha bisogno di essere rivolto verso oggetti così elusivi. No! L’oggetto giusto è la sera prossima, o se non essa, l’arco di un mese o di un anno – ma quest’ultimo già come atto d’eroismo o di demoniaca pazienza»7. Inoltre il tono bucolico e georgico della cronaca poundiana accresce un’intimità che vale anche come ammonimento di stile, che avvicina le rose di Aquitania e Provenza alle humilesque myricae virgiliane. Torniamo dunque all’assunto dell’inizio, la poesia come moto interiore che nasce da una consuetudine diretta col paesaggio.

Quanto alla fioritura vegetale nella poesia poundiana, non possiamo fare a meno di notare la frequenza con cui questo tipo di immagini si incontra nei Cantos, dove le piante, oltre a inserirsi naturaliter in una tradizione letteraria che ne fa delle metafore mitologiche ed erotiche, hanno una funzione rituale, propiziatoria si potrebbe dire, di quell’epica di viaggio, fisico e metafisico, coltivata da Pound nell’opera di una vita. Perché la poesia è per E. P. performance rituale e, come ogni cerimonia, si compone di una serie di quadri e oggetti attraverso cui viene officiata.

Abbiamo visto, nel Canto 4, la danza dei fauni e delle ninfe aver luogo sull’erba lieve e sotto i meli, e il Canto 20 aprirsi con le immagini di una natura in fiore, in cui proprio gli alberi e le piante, ricreando un giardino ideale, introducono a un misticismo che comporta una visione di bellezza, che si accompagna all’inventio di una nobiltà del pensiero ispirata da Bernard de Ventadorn e Arnaut: «Wind over the olive trees, ranunculae ordered, / By the clear edge of the rocks / The water runs, and the wind scented with pine / And with hay-fields under sun-swath»8. Né manca il dato olfattivo, altra caratteristica comune agli appunti francesi: «You would be happy for the smell of that place», sembra doppiare l’essenza del giardino di Ribérac che ha cuore e odore (vd. supra); come più avanti nel canto il fumo dell’olibano unitamente al nome delle spezie aggiunge compiutezza al rito: «As hay in the sun, the olibanum, saffron, / As myrrh without styrax».

Si pensi infine all’avvio alla conoscenza nella ‘primavera notturna’ del Canto 39, discesa iniziatica ed erotica presieduta da Circe: «Under the portico Kirke» [...] «To Flora’s night, with hyacinthus, / With the crocus (spring / sharp in the grass)»; ancora dunque viaggio ed esplorazione letteraria in una cornice di Natura, ritualmente la rappresentazione delle «due ricerche [...] in quanto entrambe conducono – l’una nello spazio della navigazione, l’altra in quello della meditazione – alla Core, secondo le istruzioni di Circe riportate in greco nel c. 39 (e 97) e in inglese nel c. 47 (i due canti della dea “dai bei capelli”, cfr. hair)».9

A questa sacralità delle piante che, lo si è detto, nell’opera poundiana ha un valore profondamente evocativo, i Pisan Cantos attingono ampiamente. Vale peraltro la pena sottolineare come nei pisani si crei un fortissimo sincretismo tra cultura greca e provenzale che, nei passi dove più esplicitamente ci si riferisce alla ritualità pagana, dà vita a un amalgama mitico e cromatico dei due immaginari da esse veicolati. E per ciò che riguarda la poesia provenzale, che nel ciclo pisano assume il ruolo di una risalita nostalgica verso il passato, costituendo allo stesso tempo una sorta di catalizzatore per riordinare le esperienze vissute e quella presente della prigionia, nell’ambito di un esorcismo della memoria cui abbiamo già accennato, è ancora più interessante osservare che diversi sono i contatti con gli appunti del 1912, a partire dai colori e dai giochi di luce sulla campagna e i monti pisani; negli undici canti della prigionia assistiamo dunque al tentativo da parte dell’artista di creare, al chiuso della tenda, la sintesi di una visione poetica tra quelle che sono da lui considerate le due più importanti tradizioni liriche prodotte dall’umanità: «The two great lyric traditions which most concern us are that of the Melic Poets and that of Provence. From the first arose practically all the poetry of the “ancient world,” from the second practically all that of the modern». 10 Si pensi all’Elysium di alberi e serenità dal quale sorgono la necropoli di Aliscans, memoria dantesca affiorante da Inf. IX, 112, ma anche dal passaggio giovanile ad Arles, e il Mt Segur sul quale si trova il castello assediato durante la crociata contro gli Albigesi, entrambi collocati nell’escatologia del Canto 80 (quasi calco dell’appunto sul passeo dove poco sopra “gli Aliscamps” è evocato il grigio di Parigi, mentre nella citata “sezione pisana” si parla dell’Ile St Luis). Una memoria preceduta nello stesso canto da un dettagliato ritratto della Francia dei trovatori che va da Périgueux “si com’ ad Arli” (sempre Dante del IX canto infernale), fino a raggiungere Ventadour e Aubeterre, passando per Avignone e Altaforte, ossia il castello di Bertran de Born, personalità irrequieta e scomoda con cui il poeta si identifica volentieri, qui tratteggiato in modo simile all’appunto di viaggio su Hautefort, la cui presenza aleggia anche nella chiusa attraverso il Lamento per la morte del giovane Enrico, «for the leopards and broom plants» mentre le rose rilucono al tramonto. Tra l’altro la sezione finale dell’80 introdotta dal provenzale «Si tuit li dolh ehl planh el marrimen», sfumando nel rosso e nel bianco della rosa, evoca in due strofe lo scontro tra Lancaster e York: «Nor seeks the carmine petal to infer; / Nor is the white bud Time’s inquisitor / Probing to know if its new-gnarled root / Twists from York’s head or belly of Lancaster.»

Questo canto lungo e complesso, denso di allusioni misteriche e di memorie storiche e letterarie, quasi caleidoscopica sovrapposizione alla Finnegans, restituisce, come fa notare Mary de Rachewiltz nel suo commento, «le varie «ere» della vita del poeta»11. E tuttavia va ben oltre questa stessa dimensione personale, cronologicamente delimitata. Nel turbinante caotico corso e ricorso della storia si fa strada ancora una volta l’evocazione geografica e musicale della cultura dei trovatori, «per cantare quanto passa e quanto rimane, le due rose inglesi e quella maggiore, di polvere d’acciaio...».12 È come se soltanto nella cultura provenzale potesse risolversi e trovare ragione il faticoso andare della mente nel tempo, del quale continua a sfuggire il senso. Ma c’è anche il tentativo di riavvicinare l’Inghilterra, seconda patria poundiana, vissuta dal poeta tra consapevole e dolente conflittualità e incomprensione, al sud dell’Europa nel quadro di lacerata e dispersa identità che il mondo ha sperimentato con la seconda guerra mondiale: «Nel tramonto le rose rossa e bianca gridano sangue, non solo per la guerra cui hanno dato nome [... ] ma anche per la guerra che si va concludendo cruentemente nel presente (sono i giorni di Hiroshima), e della quale come sappiamo il poeta ritiene l’Inghilterra corresponsabile. Ma le strofe successive negano che il «bianco bocciolo» (della pace?) sappia dove affondano le sue radici, ed indicano al di là dell’«estremo spasimo della contrizione» (da P. appena provato) la via non del perdono “razionale” ma dell’oblio: nella deferenza ai processi della natura l’In ghilterra si riconcilia con la Francia, simbolo (ne è indice la maiuscola) del mondo latino e forse dell’Italia (che nella guerra appena terminata ha il ruolo che fu della Francia in quella dei Cento anni)».13

La catarsi della memoria che dalla sofferenza porta al passaggio del Lete organizza la materia finale del canto nella contrapposizione, e aggiungerei contraddizione, almeno apparente, «di assenza nel tempo e presenza nella traccia (mentale, poetica)».14 Lo si vede chiaramente nella strofa che evoca «l’alto parapetto» di Excideuil, paese nei pressi di Périgeux, il cui ricordo emerge poco dopo la lunga “tappa” che da Arli porta ad Aubeterre (vd. supra).

E. P. visitò Excideuil nel ’12 e nel ’19, questa seconda volta insieme ad Eliot. La rocca, cui si allude anche nel 48 e nel 107, incarna la stratificazione temporale e spaziale del poema15 e diviene perciò un luogo ideale e
simbolico che, insieme al Mt Segur, altro spazio della memoria, sorge qui accanto alla città di Dioce, centro cosmico in grado di rivelare la perfetta visione. E, ancora, «il motivo d’onda» impresso nella pietra è insieme elemento fisico di un’architettura e ipotesi (o segnacolo) di un «culto fondato sulle onde»16: «Whither go all the vair and the cisclatons / and the wave pattern runs in the stone / on the high parapet (Excideuil) / Mt Segur and the city of Dioce».

Dal cosmo di Venere brododáktulos, “dalle dita di rosa”, fiorita nel cielo della sofferenza causata dalla guerra, tornando alla Provenza, terra poetica elusiva del tempo, come E. P. ci suggerisce fin dal suo primo viaggio, tutto si chiude, le onde del verso, l’identità e la differenza finalmente si appianano. Il dolore disorienta e disfa l’«anima razionale» che è nello stelo, negazione, secondo Bacigalupo, di una delle idee considerate rilevanti nei Cantos, »quella dell’anima delle piante».17 Nessun inquisitore, dunque, né perdono ormai, piuttosto l’oblio.

E proseguendo ancora nella rassegna delle memorie di Provenza e delle immagini vegetali nei Pisan Cantos, non si può restare indifferenti all’erba che cresce sulle chiuse nel fluire dei ricordi del Canto 83, accompagnato dalla voce di Arnaut e dalla massima eraclitea che sembra fargli eco: «as the grass grows by the weirs / thought Uncle William consiros», che richiama l’inizio del 74 e dunque la densità delle sue memorie provenzali da Villon, al “Near Périgord”, ad Arnaut e poi ancora i luoghi, Ventadour e
Limoges; l’inizio di un viaggio poetico ne riporta alla mente un altro.

Guidati, dunque, dalla grazia floreale da cui l’arte poundiana trae il suo dimesso ornato, torniamo di nuovo all’immagine della rosa, da sempre nella tradizione letteraria metafora di amore, in senso filosofico ed emotivo, e di bellezza, concetti che in E. P. vengono peraltro ad opporsi, come risorse uniche ed irrinunciabili per l’uomo, all’Usura. Le rose, ricoprendo le rovine dei castelli del sud della Francia, con una similitudine tra il cantare dei trovatori e il loro crescere spontaneo, innescano il recupero di memorie e idee (nel senso plastico del greco) letterarie e individuali, quel che verrà definito come il realizzarsi della forma per magnetismo nell’attraversare il Lete dei Pisan Cantos: «Hast ’ou seen the rose in the steel dust / (or swansdown ever?) / so light is the urging, so ordered the dark petals of iron / we who have passed over Lethe» (chiusa del Canto 74). Riteniamo interessante citare a riguardo un passo del commento di Mary de Rachewiltz: «L’elemento fluido e cristallino libera «la rosa nella polvere d’acciaio»: « “La forma”, l’immortale “concetto”, il concetto, la forma dinamica che è come la figura della rosa imposta alla morta polvere di ferro del magnete [... ]. Così la “forma”, il concetto risuscita dalla morte...» GK, 152.”18

Anche in questo caso non si può fare a meno di rilevare lo sfondo rituale che accompagna la rappresentazione poetica della rosa, come fosse alla base di un’operazione alchemica in grado di ‘trasmutare’ la vita in arte (o viceversa). Lo stesso concetto che aveva ispirato la sua Rosa alchemica (1913) a Yeats, il quale, liberando l’essenza dalla pesantezza, cercava di raggiungere l’elevamento della mente, e dunque dell’arte.

Si pensi ancora alla danza di Meliadi, Bassaridi ed Eliadi nell’Inno a Lince (o Inno alla Terra) del Canto 79, dove i corpi delle ninfe, restando impigliati tra rose selvatiche, assimilano, nella mescolanza, l’essenza delle piante e degli animali: «We have lain here amid kalicanthus and swordflower / The heliads are caught in wild rose vine / The smell of pine mingles with rose leaves / O lynx, be many / of spotted fur and sharp ears. / O lynx, have your eyes gone yellow, / with spotted fur and sharp ears?».

Non si dimentichi che la tradizione mitologica fa nascere le rose da una metamorfosi. Secondo Bione, Afrodite, a causa del ferimento di Adone versò altrettante lacrime quante gocce di sangue uscirono dal corpo dell’amante, e da ogni lacrima sbocciò un anemone, da ogni goccia di sangue una rosa (Epitaphius Adonidis, 64-66).19

In questo intrecciarsi di paganesimo di natura e poesia, da cui scaturiscono quadri sincretici di profonda vitalità, si legge fin dagli appunti una pulsione del corpo a ritrovare quel panismo whitmaniano delle origini che fa sentire parte di un tutto, e anche a stabilire nuovamente un legame con una cultura di nobili princípi e ancora incorrotta, che nella storia americana, come E. P. avrà modo di dire nella autobiografia del 1920, coincide col
periodo precedente la guerra civile.

Pound è in questo viaggio attraverso le terre dei trovatori il bambino che si rotolava nel fango dell’Idaho. Si pensi alla chiusa del c. 10 di Indiscretions, ispirata a Rebelais, che descrive l’infanzia del piccolo Gargantua nella terra di confine: «egli passò quel tempo come gli altri bambini del paese, vale a dire: nel bere, mangiare e dormire...si avvoltolava sempre nel fango, si sporcava il naso...se lo puliva coi gomiti...e pasticciava dappertutto... beveva mentre trangugiava la zuppa; mangiava il companatico senza pane, pisciava contro sole, si sedeva fra due sgabelli col culo per terra, etc., e proteggeva la luna dai lupi»20

Viene in mente il bambino «verde di erba nuova», l’infante sceso verso Tellus dal fango che occupa la sommità della tenda nel Canto 83, mentre va tra fili d’erba salutando coloro che vivono nel giardino di Kore. Questa gioia del corpo che si rinnova al pari dell’erba e attraversa il mondo nel pieno possesso delle proprie facoltà sensibili, cercando di attingere la linfa con cui nutrirsi, è uno dei motivi chiave del viaggio poundiano che alimenta la comparazione qui sviluppata tra la prosa degli appunti e di Indiscretions e i Cantos, in particolare la sezione “pisana”.

La Revue de deux mondes, resoconto storico geografico di asciuttezza quasi tacitiana, mette al confronto le due Americhe, quella più civilizzata dell’est e l’altra occupata dal mondo ancora incontaminato dei boschi e delle montagne dell’ovest, che convivono in eguale conflittualità e irrisolvibile dissomiglianza nella personalità del poeta. Questo bisogno di un contatto vivo con la terra, attraverso cui ricostruire i legami perduti con ciò che ad essa ci ha unito, viene fuori già dagli appunti del viaggio nel sud della Francia. In entrambi i casi si tratta di risalire a una «incorruttibile innocenza».21 Che vi sia un legame tra l’elaborazione degli appunti e la stesura qualche anno più tardi di Indiscretions, e in generale tra ciò che la Provenza rappresenta nel processo poundiano di recupero delle origini e la descrizione dell’America, lo attestano alcuni espliciti riferimenti nella biografia alla cultura provenzale e in generale all’atmosfera registrata durante quel pellegrinaggio.

Quasi che l’esperienza della prima camminata nella terra dei trovatori abbia fatto risuonare nell’immaginario di E. P. le note di un’infanzia viandante in un paese che alla sua nascita conservava ancora tracce di una “cultura vergine”, che in lui sarebbero sempre riaffiorate e inevitabilmente lo avrebbero fatto tornare con la mente anche al suo passaggio nel sud della Francia, in un rimando continuo tra le due sponde.

Così nella rievocazione del “viaggio sentimentale”, che non si astiene peraltro da una certa dose di ironia, il fulmineo accostamento di Venezia a Crawfordsville nell’Indiana, a Londra e ai vecchi giardini della Rue Jacob a Parigi, si conclude coi ricordi di San Bertrand de Comminges, nell’Alta Garonna, e della provenzale Rocafixada, «più freschi nella mente di altre incolte vicinanze».22 Questa memoria si riaffaccia quasi dieci anni dopo nella quinta decade dei Cantos, con la strada per il Mt Segur e le due miglia di tetti da Val Cabrere a San Bertrand (Canto 48). E, lo abbiamo visto, torna anche nel Canto 80 dove ritroviamo pure «i vecchi alberi vicini alla Rue Jacob» e dove il poeta salda in maniera esplicita la sua America ai paesaggi di Provenza: «Ma quel genere newyorkese lo ritrovai a Périgueux».23

Né può passare inosservata una certa somiglianza nelle gradazioni cromatiche e in generale nel colpo d’occhio tra Venezia e la Francia: «o il possibile “pittoresco” di tegole e tetti, di tonalità di cielo, afflusso verde-fango di marea, gatti appollaiati sui balconi come leoni di pietra in miniatura»,24 si tratta di scorci e tonalità affatto dissimili dalle atmosfere francesi. Una contiguità già formulata negli appunti di viaggio (si veda ad esempio un’impressione raccolta a Périguex): «una giostra [... ] appariscente, con cristalli, cristalli rossi e bianchi, [...] e dietro di essa, che cattedrale! Stai in guardia San Marco, qui ci son cupole degne delle tue cupole, & una torre degna della tua torre, & chi nel buio ricorderà l’oro che ti ricopre e il suo incanto nella tua fortezza?».25

Concludiamo infine questa carrellata di contatti con la menzione del Flamenca, un poema provenzale del XIII secolo, ricordato al c. 5 di Indiscretions nell’ambito di un discorso dottrinale sulla virtus e la nobiltà d’animo, che Pound inserisce a sua volta all’interno della descrizione degli inizi della storia coloniale americana, trovandosi ispirato dalle dissertazioni medievali e da Dante del Paradiso, secondo cui l’essere gentiluomini non è dato da qualità ereditarie.

Ma mentre negli appunti di viaggio la malinconia e la sensazione di disfacimento non prendono mai il sopravvento, anzi sono superate a favore della possibilità di recuperare una bellezza che, pur frammentaria e in decomposizione, ha comunque resistito, in Indiscretions il senso di perdita si fa più marcato. Il romanzo, che l’autore concepisce come una prefazione a un ciclo di ‘cronache’ dell’America, testimonia qualcosa che non c’è più, mettendo chi scrive di fronte a una irrecuperabilità che non riguarda solo la propria vita ma la condizione originale di un paese intero. I moeurs contemporaines, cui si riferisce E. P., rappresentano una caduta morale che ha fatto mancare all’America la retta ispirazione politica e arrestato il processo di costruzione della società civile: la guerra di secessione ha impoverito irrimediabilmente il paese e, se si guarda al di là delle vulgate retoriche che ne accompagnano la narrazione, ha peggiorato il problema e fatto diventare le soluzioni più urgenti.

Così, i fiori che a sprazzi rivestono le rovine dei castelli in cui sono risuonati i versi dei primi poeti moderni sono alcune delle tracce della sopravvivenza di uno spirito delle origini che il poeta trova ancora radicato nei luoghi dov’è sbocciata una parte importante della cultura occidentale; l’innocenza dell’America invece è ovunque smarrita e sembra poter avere ancora uno spazio solo nella letteratura. Sono forse proprio le terre dei trovatori, ripetutamente attraversate negli anni della formazione, che lo spingono ad affidare le origini del proprio paese, e dunque la confessione della propria identità, al ricordo letterario. Pound è animato dalla convinzione che un giorno attraverso la letteratura si sarebbe potuti ‘tornare’ all’America. Il vagare di Ezra, destino di poeta viandante il suo, è affine alla vita dei trovatori; è lo spirito di anangke a dominarlo, che in Indiscretions dice di sentire attaccato alla sua personalità e a quella della madre.26

La prigionia e l’esilio subiti sono le amare conseguenze di quello smarrimento del proprio paese che si affaccia precocemente nell’opera poundiana e che nei Pisan Cantos, il poema della lacerazione arrivata all’estremo ma anche del riscatto, raggiunge la sua espressione più compiuta. E non a caso, proprio nei “pisani”, riemergono momenti della biografia americana e si recuperano le voci dalla terra dei trovatori; peraltro i mesi della detenzione a Pisa sono gli stessi in cui si è svolto il tour giovanile in Provenza, una cabala che può in qualche modo aver favorito il sovrapporsi delle mémoires. Nell’attimo in cui la perdita dell’innocenza è deflagrata con esiti drammatici nella vita del poeta, quando questa consapevolezza presente fin dagli anni della gioventù ha determinato la massima rottura tra i popoli, la guerra mondiale, e messo ai ferri chi ha rivelato la grande menzogna, il verso torna con slancio ancora più deciso e commosso a quel punctum originis di cui, nonostante gli eventi, si crede ancora recuperabile l’essenza, gridando anzi la necessità di coglierla nuovamente. È il gelo che stringe la tenda alla fine del Canto 84 ma proprio da lì, finita la notte, si saluta l’alba
nella convinzione che il dolore e l’attesa non sono stati vani.

Quel panismo di natura, come forma di religio che unisce l’interiorità dell’individuo al respiro del cosmo, non viene mai meno nella scrittura poundiana. Sentire con immediatezza il mondo, sentirsi parte di un tutto, tornare a percepire l’affinità che tiene insieme i frammenti dell’esperienza e le espressioni culturali, essere spinti ancora da una leva dell’ispirazione che permetta di raggiungere un grado più profondo e unitario di comprensione. Ecco ciò che fin dal principio appartiene a E. P., dall’educazione ‘selvatica’ nello sconosciuto west alla riflessione di Beaucaire sulla personalità musicale, ecco la vera meta di un’epica delle origini, cantata nella cadenza estatica di un mantra e mai sconfessata per un’intera vita.

Solo la parola che ha attraversato gli uomini e il mondo in uno stato di innocenza o che ha saputo conservarsi innocente può riportare a «un’era di propositi incontaminati».27


1 Ezra Pound, “Rose rampicanti”, a cura di Francesco Cappellini, Via del Vento, 2008, p. 18. Il testo integrale in lingua inglese degli appunti di viaggio è pubblicato col titolo A walking tour in southern France - Ezra Pound among the Troubadours, a cura di Richard Sieburth, New Directions, 1992.
2 “Rose rampicanti”, ed. cit., p. 12.
3 Ezra Pound, Lo spirito romanzo, Vallecchi, 1959, pp.141-142, citato da Francesco Cappellini nella Nota al testo a “Rose rampicanti”, p. 29.
4 “Rose rampicanti”, ed. cit., p. 6.
5 Massimo Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1981, p. 25.
6 “Rose rampicanti”, ed. cit., p. 5.
7 “Rose rampicanti”, ed. cit., p. 19.
8 Per un’analisi di questi elementi nel Canto 20 si veda Stephen W. Gilbert, Pound and Cavalcanti, Sincronía, Summer 2008, Universidad de Guadalajara.
9 Così Massimo Bacigalupo, op. cit., p. 492.
10 Literary Essays, p. 91, citato da Stephen W. Gilbert (vd. supra).
11 Mary De Rachewiltz, I Cantos, I Meridiani, Mondadori, 1996 (1985), p. 1583.
12 Massimo Bacigalupo, op. cit., p. 166; sul rimando all’immagine della «rosa nella polvere d’acciaio» al Canto 74 si veda più avanti.
13 Massimo Bacigalupo, o. c., p. 167.
14 Massimo Bacigalupo, o. c., p. 157.
15 Sul “senhal d’Excideuil” si veda la nota 27 di Bacigalupo, o. c., p. 157.
16 Massimo Bacigalupo, o. c., pp. 157-158.
17 o. c., p. 167.
18 P. 1575 del citato commento ai Cantos.
19 Si veda, come edizione critica di riferimento, Bion of Smyrna, Epitaph on Adonis, in The fragments and the Adonis, edited with introduction and commentary
by J. D. Reed, Cambridge University Press, 1997.
20 Per la traduzione e il commento a quest’opera si veda Caterina Ricciardi, Indiscrezioni o Une revue de deux mondes, Raffaelli Editore, 2004. Una delle edizioni‘storiche’ dell’opera è Pavannes & Divagations, New Directions, 1974 (1958).
21 Nota 118 di Indiscretions, ed. cit.
22 Indiscretions, c. 1, si tratta della più recente escursione del 1919.
23 Per alcune comparazioni relative alle notizie biografiche di Indiscretions e dei Pisan Cantos si veda la mia opera, Imitazione ai Cantos, 2008/2010, al momento consultabile sul sito di Gian Paolo Guerini, http://www.gianpaologuerini.it/b_aboutyou/ 2_guests/pdf/ciardi.pdf
24 Indiscretions, c. 1.
25 “Rose rampicanti”, p. 6; simile peraltro allo “scorcio” veneziano del Canto 76: «are all the gold domes of San Marco».
26 Indiscretions, c. 11.
27 Indiscretions, c. 2.