Maurizio Spatola


Etica, rigore, anarchismes nella poetica
di Adriano Spatola

Breve premessa

Il presente tentativo di ricostruire il percorso teorico e critico del poeta Adriano Spatola non si avvale di una ortodossa metodologia analitica o filologica, strumenti di cui il sottoscritto non dispone professionalmente: l’intento è bensì quello di riannodare i fili di un discorso coerente ma frammentato, sia attraverso gli scritti (in qualche caso poco o per nulla conosciuti) sia tramite la connessione con la produzione poetica e le varie fasi dell’esistenza di mio fratello che giocoforza conosco bene, anche se il significato di talune scelte o di certi atteggiamenti mi è apparso chiaro molto a posteriori. Accanto a quello di editore per una quindicina d’anni a fianco di Adriano, il mio mestiere principale è stato quello di cronista della realtà, sotto differenti profili: è sulla base di questa esperienza che mi sono accinto a scrivere queste righe, cercando di tenere a freno l’emozione della memoria e adottando un linguaggio accessibile, evitando i tecnicismi di un lessico troppo specialistico, per addetti ai lavori.

* * *

Pulsioni etiche. Per Adriano Spatola la poesia e il ruolo del poeta costituivano l’asse intorno a cui ruotava tutto il suo mondo, percettivo ed espressivo. Nonostante le apparenze del suo modo di vivere bohémien, dispersivo e trasgressivo, segnato da un vitalismo al limite dell’eccesso, era molto rigoroso nella ricerca e nell’approfondimento delle idee che stavano alla base del suo fare poesia: non a caso la sua poetica affonda le radici nei suoi studi filosofici in particolare in quel ramo della filosofia che si propone come base teoretica della creatività artistica e letteraria, ovvero l’estetica. Docente di Estetica all’Università di Bologna nel 1960 quando Adriano si iscrisse a Filosofia, era il prof. Luciano Anceschi: il loro incontro fu fondamentale, illuminante per il futuro “poeta totale”, ma anche per il fondatore de “Il Verri”, come traspare dagli scritti dedicati da Anceschi ad Adriano nel corso di un trentennio.

In generale si considera come primo importante articolo dedicato a queste tematiche da Adriano quello apparso su “Il Verri” n. 6 nel dicembre 1961, con il titolo Inutilità di Lukács.

Nessun dubbio sulla profondità di questo testo, sul quale tornerò in seguito, ma il primo scritto in cui il diciannovenne Adriano poneva già le basi del suo successivo percorso fu pubblicato nella primavera precedente sul n. 2 del mensile culturale “Il Cenobio”, edito a Lugano.

Intitolato Responsabilità e libertà (con sottotitolo Le categorie etiche dopo Sartre), l’articolo costituiva una disamina del dibattito allora in corso tra filosofi e letterati italiani sul concetto di libertà ed etica tra laicismo e fede, nel tormentato periodo post-fascista. Ai dubbi espressi da Carlo Bo su “L’Europa Letteraria” rispondeva l’hegeliano Ugo Spirito al congresso di filosofia tenutosi a Palermo nel 1960, e questo contrasto rappresentava lo spunto dell’analisi del giovane studente bolognese, probabilmente stimolato da Anceschi. In piena fase esistenzialista, Adriano era interessato soprattutto a porre in evidenza la proprie convinzioni: per portare acqua al suo mulino, non esitava in quell’occasione a citare Heidegger, naturalmente Sartre e, in qualità di razionalista, pur lontano da affermazioni rigidamente assertive, un maître-à-penser quale Nicola Abbagnano1. Per concludere così:

Abbiamo, infine, raggiunto ciò che ci eravamo proposti; indicare che l’esistenzialismo si è evoluto, e proprio costantemente nella direzione dei problemi più attuali: i suoi limiti sono anche la sua garanzia. Se non è una filosofia, l’esistenzialismo è certamente la mi­gliore premessa ad ogni filosofia: la categoria etica della responsabilità impedirà che per un uomo la sua fede si trasformi in dogma insofferente di fedi diverse negli altri”.

In quello stesso 1961 Adriano aveva pubblicato a sue spese con il tipografo-editore Tamari la prima raccolta di versi, Le pietre e gli dei, stilisticamente ancora intrisi di ermetismo e di rimandi eliotiani, e dai contenuti in cui appare evidente l’influenza esistenzialista. Nelle raccolte successive mio fratello escluse sempre queste sue prime poesie (non perché intendesse rinnegarle, credo, ma in quanto estranee all’evoluzione della sua poetica), ma io desidero ugualmente riproporne alcuni significativi versi:

“… Giungeremo a montagne senza vetta; / tu sai, ci spetta solo ciò che vano / tra il nascere e il morire della terra / esce dal nulla o dalla vita intera. / Poiché l’autunno non ha significato / se non come preludio dell’inverno, / ci basta un gesto non perpetuato: / non è per noi la noia dell’eterno. / Giungeremo a montagne senza vetta: / giace al destino che non compiremo / la sorda incompiutezza di ogni passo.” E ancora: “L’ora triste, la pioggia: / specchiarsi dei fanali sull’asfalto, / mormorare nei viali. Il tempo è tutto / in questo cader d’acqua, / in questo crescer d’erba”.

A dimostrazione di quanto il ruolo della poesia e del poeta poggiasse per Adriano su fondamenta etiche solide, anche se libere da dogmi, ecco una riflessione estrapolata da una sua recensione pubblicata sul n. 2 di “Bab Ilu”2 (la piccola rivista di poesia da lui diretta ), nel 1962 :

“... il vero tradimento dell’uomo verso se stesso (o quel che è più grave del poeta verso la poesia e del critico verso la storia) è proprio nella sua disposizione al cristallizzare esperienze vissute a spese delle esperienze da vivere – o da far vivere”.

Poesia e autonomia. Le brillanti doti analitiche del giovanissimo Adriano vengono messe in risalto anche da Francesco Muzzioli nella sua attenta recensione a The Position of Things (la raccolta delle poesie di mio fratello pubblicata l’anno scorso negli Stati Uniti), apparsa sul numero 40 de “Il Verri”, là dove l’autore si riferisce proprio all’articolo su Lukács del dicembre 1961:

“… straordinario, in abbrivio, il suo saggio dove dimostra i residui crociani in Lukács e la sotterranea convergenza del realismo con l’idealismo, in quanto gli elementi rilevati da Lukács sono rilevati anche da Croce e sono i medesimi elementi a rendere per entrambi Balzac un grande artista”.

A mio avviso, il breve saggio del ’61 dimostra anche l’onestà intellettuale dell’autore, le cui simpatie filosofiche andavano senz’altro, per il tramite dell’esistenzialismo e della nascente predilezione per il surrealismo, a una interpretazione di modello marxista. Eppure Adriano non esita a concludere così il suo confronto Croce – Lukács (con Auerbach a fare da sponda3):

“Artificiosa si è definita la vastità d’applicazione della estetica di Lukács in quanto essa non è, come potrebbe sembrare, una prova della sua validità, ma facilmente, si tramuta in prova della sua inutilità, poiché la stacca dai suoi fondamenti ideologici e la riporta sul piano della critica letteraria di tradizione non marxista, con la prospettiva di doverla relegare a un significato pre-crociano, non nel senso che l’estetica crociana sia l’unica valida, ma nel senso che le antinomie che sorgono all’interno della estetica di Lukács sono state già risolte, più o meno validamente, dalla teoria dell’ arte come categoria autonoma”.

Autonomia dell’arte, dunque, implicitamente, della poesia: la parola chiave della futura impalcatura teorica dell’Adriano Spatola poeta è saltata fuori. E comincia ad adattarsi, duttile, alle combinazioni più varie, aprendo casseforti logiche dall’imprevedibile contenuto. Se ne ha la riprova nel quasi ignoto articolo apparso, con il titolo La poesia è inquieta, sul n. 11 (novembre-dicembre 1962) nel mensile di cultura e politica “Il Mulino”, pubblicato dalla omonima casa editrice bolognese. Esaminando l’evoluzione del rapporto fra “critica militante” e poesia fra gli anni dell’ermetismo e quelli della nascente neoavanguardia (ne erano appena state poste le premesse con l’antologia dei Novissimi) – e usando con mano sicura il metodo delle citazioni autorevoli4, anche di segno opposto, a sostegno delle proprie tesi -, Adriano conduce il suo ragionamento alla méta prefissata:

“Gli errori si pagano: e la poesia è molto lenta quando deve riconquistare così importanti posizioni perdute. Una poesia che si seppe adattare a un’idea dell’uomo costretta a basarsi sui quotidiani resoconti giornalistici per aggiornarsi, che non seppe (o non osò) andare mai al di là di questo fragile schermo per provare a cercare il segno di una verità, una poesia che ebbe il terrore del dubbio, là dove il dubbio si veniva configurando come l’unico modo di difendere il proprio essere uomini… e chi ci assicura che l’equivoco abbia termine? La nuova poesia, che ha saputo tentare un atto di liberazione nei confronti sia della forma chiusa che dell’ideologia chiusa, ha dato, bisogna dire fortunatamente, scandalo”.

A questa conclusione l’autore era giunto partendo dalla constatazione che il ruolo della poesia nei confronti della critica, paritario nei decenni precedenti (quando “il silenzio era stato la grande ambigua divinità dell’Ermetismo, il fuoco attorno al quale i versi danzavano sino a esserne lambiti”), nella misura in cui il poeta attingeva dalla critica gli stimoli per la ricerca di nuovi orizzonti, era divenuto subalterno: “si prospettava come accettazione della sconfitta della poesia”. Una “vendetta della storia su una poesia che proprio della storia aveva inteso fare a meno” come aveva scritto Carlo Bo? Si presentava dunque la necessità, per i poeti, di “lavorare sotto la luce dei riflettori, là dove l’Ermetismo aveva ripreso la teorizzazione della necessità morale della torre d’ avorio”.

Crisi della poesia addebitata da alcuni all’inadeguatezza dei tempi, da altri semplicisticamente, a logiche di mercato, da altri ancora alla sovrapposizione di valori etici, politici o sociali (la nozione di “impegno” in ambito letterario rimbalzava da alcuni anni sulle riviste più attente al nuovo, dopo i segnali lanciati sulla “Officina” di Pasolini, Leonetti e Fortini). Adriano rispondeva citando in primis Luciano Anceschi (“la storia, se è qualche cosa, è quel che è anche per il particolare senso della realtà che la poesia porta in essa), in secondo luogo la posizione dei Novissimi, che “... invece di rifiutare l’ ideologia, scelgono una ideologia di ricerca” come “vocazione a conoscere”: rivendicando così “… l’ autonomia del tutto peculiare, che non esclude anzi ritiene impliciti i legami del poeta con il mondo morale e sociale, accetta tutte le proposte operative, qualsiasi somma di indicazioni eteronome, ma nello stesso tempo fa propri i limiti dell’occasione particolare dalla quale una determinata composizione prende origine”. E forniva anche un’indicazione per il percorso da seguire in futuro: “… la poesia è chiamata a svolgere il suo compito progressivo (dove progresso è in primo luogo la conoscenza e la conoscenza è soprattutto analisi non pregiudicata ideologicamente della realtà) proprio come poesia, e non come ‘Circe’ o come ‘scrofa’…”

Un anno dopo, in una recensione multipla pubblicata sempre su “Il Mulino”5, Adriano torna a battere su questo tasto, ampliando gli orizzonti della nuova poesia, alla luce anche dell’esperienza appena vissuta partecipando, a Palermo, al Convegno fondativo del Gruppo 63, scrittore più giovane fra gli invitati, tra i quali spiccavano i Novissimi (Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta, Sanguineti), Anceschi, Umberto Eco, Arbasino, Celli, Costa, Angelo Guglielmi, Germano Lombardi, e in qualità di ironico osservatore “rétro” , Alberto Moravia. Protetto dall’ombrello offertogli dall’Opera aperta di Eco, mio fratello rivelava le sue perplessità nei confronti della sistematizzazione per categorie dei testi poetici:

“Dietro la poesia c’è sempre qualcosa di più di ciò che i poeti amano dichiarare del proprio lavoro; il sospetto che ogni ‘sistemazione’ sia, nel peggiore dei casi, un male necessario (o un necessario errore) si fa quasi una certezza. Si tratterà forse qualche volta di non colpire il bersaglio, e poi c’è sempre il rischio che un nuovo volume modifichi entro pochi giorni coordinate e parallele […] Quelle azzardatissime conclusioni anticipate alle quali sembrava che ci si fosse ormai assuefatti sono diventate invece impossibili”.

Appare rilevante il paragrafo finale (“Notizie sugli anarchici”) dedicato a una tendenza emergente della Neoavanguardia italiana, espressa da autori letterariamente anarchici quali Emilio Villa, Mario Diacono e Stelio Maria Martini: rifacendosi al modello del surrealismo post-bellico, che aveva abbandonato gli stretti legami col partito comunista francese per abbracciare l’anarchismo, questi poeti avevano scelto una scrittura di tipo libertario (che Diacono aveva definito “poietica”), con taluni risultati molto vicini alla trasformazione della parola in ideogramma. Il passaggio alla poesia concreta e visiva è aperto.

Un gesto inspiegabile. Mi corre qui l’obbligo di fare una digressione sugli accadimenti nella vita di Adriano, che in parte coinvolsero anche me. In quei primi Anni Sessanta i rapporti fra nostro padre e il suo primogenito si erano fatti difficili, sia per l’insofferenza del genitore nei confronti della scarsa visione pratica della vita da parte del figlio, sia per il carattere indipendente e ribelle di quest’ultimo. Questo non aveva però impedito che la redazione di “Bab Ilu” venisse ospitata nella casa di famiglia, in via Andrea Costa 133, dove i giovani poeti avevano anche modo di gustare l’ottima cucina di nostra madre. Fu in quel periodo che Adriano iniziò a collaborare sia a “Il Verri” sia a “Il Mulino”: questo editore gli offrì anche un lavoro retribuito in qualità di correttore di bozze, attività sovente notturna, nella quale presto lo affiancai anch’io, acquisendo insieme a lui le necessarie doti di precisione e pignoleria, che mi furono molto utili negli anni successivi. Il faticoso equilibrio si spezzò nel ’63 e, dopo un aspro litigio, Adriano andò a vivere da solo in una stanza in affitto, del centro storico, in vicolo Bolognetti: qui presero vita, su una Olivetti 22, ticchettante giorno e notte, le pagine de L’Oblò, il romanzo sperimentale che sarebbe poi stato pubblicato nelle “Comete” Feltrinelli nell’ottobre 64.

A cavallo di due eventi positivi quali la partecipazione al convegno del Gruppo 63 e la pubblicazione del suo romanzo, mio fratello si rese protagonista di un episodio drammatico, le cui motivazioni mi appaiono ancor oggi in gran parte inspiegabili, anche perché in seguito, quasi per una voluta, reciproca rimozione, né lui né io affrontammo mai l’argomento. Il fatto ebbe però pesanti ripercussioni soprattutto per nostro padre, ma anche per il resto della famiglia.

Parzialmente ricostruita, secondo logica, la scena è questa: è la notte dell’epifania, sono le due del mattino del 6 gennaio 1964. Piazza Maggiore viene attraversata da un giovanotto con un giaccone tipo militare che gli aveva dato il padre, con tasche molto profonde. Ha i capelli scarmigliati, l’aria un po’ stravolta e si avvia con passo lento ma deciso verso Palazzo D’Accursio, sede del municipio: a sinistra c’è piazza Galileo, dove si trova la sede della questura. Lì giunto, il giovanotto esita per qualche istante, poi estrae da uno dei tasconi una bottiglia con la quale armeggia per un po’ prima di lanciarla verso una finestra laterale della questura, protetta da grate. La bottiglia va in frantumi, il liquido si sparge per terra, senza fiamme o esplosioni. Immediatamente dall’edificio escono agenti armati, che vedendo il giovane e i resti di quella che appare una bottiglia molotov (anche per il forte odore di benzina), si gettano contro di lui e lo immobilizzano, mentre lui dice “Sono un anarchico individualista, è stato un gesto simbolico”. Il giovane viene perquisito, infine arrestato.

In seguito i giornali cittadini pubblicarono una breve notizia sul “gesto folle di uno studente del quarto anno di Filosofia, Bruno Spatola” (Bruno era all’anagrafe il primo nome di Adriano), il quale aveva dichiarato di aver voluto compiere solo un gesto dimostrativo, non accendendo la miccia prima di lanciare la rudimentale molotov. Nostro padre, dimenticate le divergenze, mise in moto le sue conoscenze per farlo uscire di prigione: Adriano restò a San Giovanni in Monte solo tre giorni. In seguito intervenne un avvocato di Reggio Emilia, guarda caso Corrado Costa, che al processo riuscì a farlo assolvere perché, secondo la sentenza, il fatto non costituiva reato. Alla fine questo mancato “pericolo pubblico” rimase a Bologna, anche se per lui le conseguenze di quel gesto si manifestarono una dozzina di anni più tardi, quando subì a Mulino di Bazzano, in virtù di quel precedente, una perquisizione e un fermo nell’ambito di un’inchiesta del giudice Caselli sulle Brigate rosse: inutile aggiungere che la cosa si risolse in un nulla di fatto. Nostro padre, maresciallo della Guardia di Finanza, venne invece punito con il trasferimento a Torino, insieme con tutta la famiglia, compreso il sottoscritto.Nel capoluogo piemontese l’indirizzo della nostra prima abitazione era via Ettore Fieramosca 9 bis: lo stesso, corsi e ricorsi della storia, delle prime Edizioni Geiger.

Il romanzo. In un suo breve saggio pubblicato nel 2004 su “Il Verri”6, Beppe Cavatorta torna a parlare dell’“iper-romanzo” dimenticato di Adriano, quell’Oblò che 40 anni prima aveva suscitato reazioni contrastanti nella critica, fra calorosi incoraggiamenti e aspre stroncature.
Fra i suoi detrattori si distinsero Geno Pampaloni e soprattutto Giancarlo Vigorelli, che definiva l’autore uno “scrittore svitato” con il quale “il romanzo d’avanguardia ha toccato il fondo”. Consensi vennero da Angelo Guglielmi e da Giuliano Gramigna, che sulle colonne del “Corriere” plaudiva al “tentativo di purificare il romanzo dalla mercificazione cui è stato ed è sottoposto”, tramite l’uso ironico del linguaggio di “giornali, fumetti, televisione, radio, film dell’orrore, strip-tease, varietà, romanzi di fantascienza e neri, discorsi politici fatti sul sagrato o nei salotti per bene.”
In precedenza anche Arbasino e Sanguineti, con loro prove narrative, avevano già dato una spallata allo stile neorealista: qual era dunque la novità nella scrittura di mio fratello? A giudizio di Cavatorta:

“Il romanzo si presenta come una struttura fluida in cui i materiali si muovono ignari di costrizioni di carattere spazio-temporale … La facile assunzione di trovarsi davanti a una mera operazione di collage risulta essere più ipotetica che reale: nonostante l’ idea possa apparire plausibile, viste le sperimentazioni spatoliane nella sfera poetica, ci troviamo davanti a tutt’altro tipo di manipolazione del testo.”

Adriano stesso, in una intervista del 1980, nel differenziare la struttura de L’Oblò da quella di un testo assimilabile (Centuria di Giorgio Manganelli, scrittore da lui stimatissimo) parla di “stratificazione” casuale di cinquanta romanzi intersecantisi, con “cose insensate di tipo rabelaisiano [ …] insomma un pastiche letterario molto più denso e soprattutto non voluto; un pastiche letterario quasi violento”. Aggiunge Beppe Cavatorta: “l’ingrediente, non esplicitamente rilevato nell’ elemento paratestuale, ma che dà vita alle singole parti del romanzo, riportandole a un’unità forte, ma che ancora non consente vita facile al lettore, è quel surrealismo a cui il primo Spatola si richiama continuamente…”.

Al di là delle analisi filologiche e sui tecnicismi linguistici, il romanzo ripropone tematiche profondamente etiche, cui fa evidente riferimento la frase di Robert Musil posta in esergo: “idealità e morale sono i mezzi migliori per colmare il gran buco che si chiama anima”. Non a caso, a mio parere, Ulrich (il protagonista de L’uomo senza qualità) e Kowalski (l’adulto tornato adolescente del Ferdydurke di Witold Gombrovicz) osservano il mondo, lo scorrere degli avvenimenti e delle ideologie con lo stesso occhio a un tempo disincantato e angosciato del Guglielmo protagonista de L’Oblò. E Adriano aveva tratto forte ispirazione anche da questi due scrittori.

I temi etici in questione erano legati anche agli eventi storici politici e sociali dell’epoca, con le loro connessioni alla rapida e apparentemente incontrollata evoluzione scientifica. Adriano aveva già mandato evidenti segnali dei suoi dubbi, non di rado angosciosi, con poesie come Una gita Spoon River e Alamogordo 19457 e anche in seguito insisterà su questo nodo per lui cruciale, in testi come Sterilità in metamorfosi, L’Ebreo Negro e Il boomerang8. Ancora oggi trovo inquietanti queste parole, a pag. 139 de L’Oblò:

“E Fermi svenne due volte. Apocalisse, che strano pensiero in questa giornata di sole. Perché dovremmo avere paura. L’unica mia paura è di essere un profeta veritiero. E un tormento scrivere a macchina: la mac­china da scrivere trema: tremano le mani: tremano i tasti su cui le mani battono con quattro tre due cinque tre quattro dita contemporaneamen­te: trema l’immacolato foglio che il sussultare della lampada copre di ra­pidissime ombre: tremano i vetri della serrata finestra. Perché dovrem­mo avere paura? Nel buio Guglielmo balbettava: ‘In tutto questo c’è una cosa pienamente valida: l’unica mia paura è di essere un profeta ve­ritiero. E se tremo tremo perché la terra mi trasmette il suo tremito’”.

Surrealismo e parasurrealismo. A parte i richiami alla scrittura automatica, tecnica surrealista impiegata nella stesura de L’Oblò al pari di quelle mutuate dalla Pop Art, dalla pubblicità, dalla narrativa d’evasione e così via, cui aggiungerei le suggestioni tratte dal cinema sperimentale americano di quel George Maciunas che diede vita con George Brecht al movimento Fluxus, Adriano aveva già mostrato in più occasioni il suo interesse (ma sarebbe meglio dire passione) per il Surrealismo. Ad esempio nelle recensioni apparse a sua firma su Il Verri, dedicate a I Poeti Surrealisti Spagnoli di Vittorio Bodini e allo Pseudobaudelaire di Corrado Costa9: in quest’ultima è intrigante l’identificazione delle radici dell’opera

“…nel surrealismo storico, anche se, a volte, si ha l’impressione che si tratti di un surrealismo già importato e magari importato, perché no?, da un Delfini…”.

Così come nella prima colpisce questa breve considerazione:

“Come una scintilla improvvisa, ecco l’urgenza di cominciare a insistere sull’esistenza di una koiné surrealista, di un’area ramificata coinvolgente le querelles culturali di varie nazioni”.

Mentre già maturava in lui, con il sostegno del prof. Anceschi, l’idea di impostare la sua tesi di laurea sul surrealismo (che per una serie di vicissitudini finì per discutere una ventina di anni dopo), Adriano impegnò molte delle sue energie nell’approfondire la conoscenza di questo movimento e la sua rielaborazione da parte della Neoavanguardia letteraria italiana, quella che lui e alcuni suoi sodali emiliani definirono “parasurrealismo”.

I segnali di questa rielaborazione sono già visibili nell’articolo apparso sul primo numero di “Malebolge”10 del giugno 1964, dall’eloquente titolo Surrealismo sì e no: di fronte alle affermazioni ricorrenti nella critica letteraria sulla “morte del surrealismo”, il giovane redattore constatava che il “rischio di dispersione” era stato affrontato perlopiù volontariamente, per una questione di principio, dai più consapevoli esponenti del movimento. C’erano stati, sì, dei vuoti, di idee e di azione, ma

“i vuoti, gli spazi bianchi, invece di essere indizi di non adesione ai problemi del proprio tempo (quindi di disimpegno) possono ben apparire come le scorie marginali di un furore (sovente aggressivo, violento, disperato) che nasceva dall’ostinazione di chi voleva che la letteratura fosse anche, direttamente, non un’idea dell’uomo, ma un’idea della libertà dell’uomo”.

Di qui la necessità di un “recupero critico” del surrealismo: ma per quali vie e con quali obbiettivi?

Dopo aver tastato il terreno, spingendosi a suggerire “l’ipotesi paradossale ma eccitante di un innesto del monologo interiore sul tronco dell’automatismo psichico”, Adriano indica il cammino nell’articolo apparso sul numero speciale di “Malebolge” pubblicato come inserto del numero di “Marcatrè”11 nel 1966 e dedicato al parasurrealismo:

“Evidentemente, dunque, il surrealismo non si pone oggi come problema scontato, già risolto, accantonabile. E questo perché non sono né accantonabili né già risolti né scontati i problemi che il surrealismo ha posto.
Nonostante le voci interessate, il surrealismo non è morto, né moribondo, non è un luogo comune, non è un’utopia invecchiata troppo in fretta. Come in un gioco di scatole cinesi, invece, la parola surrealismo apre una serie di prospettive, evoca subito una rete con la quale si è tentato di imprigionare il mondo e di liberarlo nello stesso tempo”.

La prospettiva cui pensavano Adriano e gli altri redattori di Malebolge coinvolti (anzitutto Giorgio Celli, Corrado Costa e Claudio Parmiggiani) era appunto il parasurrealismo. Giorgio Celli ne ha dato una famosa definizione nel suo intervento al convegno di Celle Ligure12 dedicato nel 1991 alla memoria di mio fratello.

“…il punto cruciale era come proporre alla nostra comunità letteraria una rivisitazione accelerata del surrealismo che non risultasse una esibizione di fossili, o una operazione da epigoni degli epigoni. Nell’impossibilità di essere surrealisti, avevamo optato per il parasurrealismo… Detto in soldoni: decretammo che il parasurrealismo sarebbe stato una sorta di manierismo del surrealismo, un surrealismo freddo, alla seconda potenza, rivisitato soprattutto nelle sue tecniche, con un uso intenzionale e retorico della scrittura automatica, e della psicoanalisi. Trattando insomma l’inconscio come metafora, in accordo, lo capimmo più tardi, con un certo Lacan e con la sua scuola. Ma di Lacan, allora, nessuno di noi sapeva nulla”.

Il puzzle può completarsi con questa citazione di Jean Louis Bédouin riportata da Adriano nell’articolo di cui sopra:

“Il surrealismo non impone all’artista nessuna estetica particolare. Gli chiede al contrario di essere il creatore di forme nuove, l’esploratore del mai visto”.

L’affermazione conclusiva del futuro “poeta totale” riferita ai puzzle poems e alla loro capacità di trasformare il fruitore in un apprendista stregone, costituirà il leit-motiv del suo successivo agire letterario e umano: “Il gioco è l’ultima speranza della poesia…”

In questi e in successivi interventi Adriano ritorna più volte sul sentiero percorso da Breton (alla cui Scrittura come collaborazione dedicherà un breve e intenso saggio pubblicato nel 1971 nell’antologia André Breton un uomo attento, a cura di Ferdinando Albertazzi13) vissuto come deus ex machina anche del surrealismo rivisitato dagli inquieti redattori di “Malebolge”. Nel secondo numero della rivista, uscito nel dicembre 1964, ecco infatti il riferimento (in Poesia a tutti i costi) a “…una poesia come anarchia sistematica e come utopia escatologica, nell’ambito di una progressiva identificazione di sogno e realtà”. Poco prima Adriano aveva scoperto le carte con questa lapidaria affermazione: “Il grottesco, come ironia del patetico e categoria del tragico, è la dimensione entro al quale deve lavorare oggi il poeta”.

E in un altro articolo, Gruppo 70 apocalittico e integrato, dedicato alla poesia tecnologica proposta dal neonato movimento fiorentino (Miccini, Ori, Pignotti, gli esponenti più noti), si riaffaccia di scorcio uno dei capisaldi del primo Manifesto del Surrealismo:

“Da Rimbaud (…) attraverso tutto l’arco del surrealismo (che l’ha naturalmente ironizzata), la funzione sciamanica del poeta (dell’artista) riaffiora, con i crismi amati-odiati dell’industrializzazione, nella postavanguardia”.

Il suggello viene posto nel contributo del ‘71 da questa dichiarazione condita da citazioni bretoniane:

“…i surrealisti hanno cercato di ‘reinventare il fuoco’ di ridare cioè alla poesia la sua funzione tribale, la sua efficacia sociale, senza rinunciare tuttavia alla propria indipendenza critica nei riguardi del mondo: ‘Cara immaginazione, quello che soprattutto mi piace di te è che non perdoni’…”.

L’ipotesi di lavoro parasurrealista in arte e letteratura coinvolse in svariate discussioni i redattori della rivista modenese, che intervennero più volte sull’argomento, proponendo idee e avanzando dubbi che lo spazio non consente di riassumere. Sono in grado però di riportare una stimolante risposta di Adriano, ancora da Poesia a tutti i costi:

“Che senso avrebbe […] un recupero non controllato di certe istanze valide quasi quarant’anni fa? Quando invece bisogna che sia sempre più chiaro che il riferimento a una interpolazione parasurrealista prevede una revisione critica non soltanto dei modelli tecnico-formali, ma anche di quelli ideologici.”

Verso la poesia totale. Nella prima metà degli anni ’50, quasi contemporaneamente ma all’insaputa l’uno dell’altro, alcuni poeti brasiliani, uno svizzero-tedesco e un italiano sperimentavano una nuova forma di poesia, basata sull’uso dei frammenti linguistici, ridotti anche a puro fonema, che venne definita “poesia concreta” anche per distinguerla dalle precedenti esperienze dadaiste e futuriste: gli autori di queste “architetture verbali” erano il gruppo dei cosiddetti Noigandres (Decio Pignatari e i fratelli Augusto e Haroldo De Campos), Eugen Gomringer, e Carlo Belloli, cui già lo stesso Marinetti aveva fornito una sorta di imprimatur intravedendo nei suoi Testi-Poemi Murali il “futuro del futurismo”. In realtà essi riprendevano in mano il filo di un discorso antichissimo, comprendente in un’accezione più ampia varie forme di “poesia visuale” che partiva da Simia di Rodi e, attraverso i carmina figurata, i versus intexti e i polimorfismi medievali, la dive bouteille rabelaisiana, i calligrammi greci, secenteschi (e poi di Lewis Carroll e Apollinaire), il Coup de dés di Mallarmé, arrivava fino al paroliberismo futurista e al cut up dadaista. Questo risveglio di sperimentalismo poetico-linguistico contagiò in breve molti autori in tutto il mondo, finendo nel frullatore del movimento Fluxus, che lo portò all’attenzione generale.
In Italia il primo, dopo Belloli, a intuire la valenza della poesia concreta e a darne una collocazione organica fu il torinese Arrigo Lora Totino, con la rivista “Antipiugiù” e l’antologia di poesia concreta Modulo14 . Il secondo, in pratica, fu Adriano, a partire dal 1964.
Trattandosi di un fenomeno internazionale per definizione, mio fratello ebbe modo di allargare rapidamente i suoi contatti e orizzonti. Fra l’altro, questo tipo di poesia si adattava perfettamente alle proposte parasurrealiste esplicitate in teoria su “Malebolge” e messe in pratica, ad esempio, con i puzzle poems: le schede che compongono il suo libretto Poesia da montare, pubblicato nel 1965 con l’editore bolognese Enrico Riccardo Sampietro ne costituiscono la prima conseguenza di rilievo. Con Sampietro, per il quale fra il 65 e il 67 fu anche una sorta di direttore editoriale15 , Adriano pubblicò nel ‘66, sempre in schede riunite in una busta-contenitore, la raccolta di poemi concreti che ne avrebbero connotato a lungo l’operare su questa via, Zeroglifico. Le schede erano accompagnate da un testo esplicativo, ripreso in un intervento sul catalogo della mostra “Segni nello spazio”16 , allestita a Trieste nel ’67. Adriano vi fornisce la chiave di lettura:

“I testi di Zeroglifico sono stati ottenuti mediante la frantumazione programmatica di un materiale linguistico preesistente scelto e utilizzato per una sua latente e funzionale tendenza a farsi (con le sue sole forze), poesia concreta. Se è infatti accettabile […] l’assunto di Max Bense, secondo il quale i testi concreti si avvicinano spesso a testi pubblicitari, deve essere verificabile anche il suo contrario: i testi pubblicitari sono cioè già, almeno tipograficamente, progetti di poesia concreta. Il materiale linguistico preesistente […] è per così dire il risultato (sociologicamente garantito) di un metalinguaggio dotato di sue proprie regole grafiche […] dopo Pound, e attraverso Pound, un’assolutizzazione in senso spaziale (l’altro punto di riferimento allora non può che essere Mallarmè) dell’aspetto percettivo delle parole”.

Così come Luciano Anceschi era stato ed era il mentore di Adriano per quanto riguarda l’indirizzo filosofico e la poesia cosiddetta lineare, il filosofo e semiologo tedesco Max Bense fu il suo punto di riferimento nel campo della poesia concreta e delle sue conseguenze o sviluppi sul piano espressivo e sociale, sulla via del “razionalismo esistenziale” (riecco Lukàcs!) propugnato dallo studioso di Stoccarda (dove pubblicava in quegli anni, con Elisabeth Walters, la piccola, preziosa, rivista “Rot”17).

Quanto il pensiero di Bense contasse nella poetica di Adriano lo si evince da questa sua considerazione nelle prime pagine del saggio Verso la poesia totale18, punto di approdo e allo stesso tempo di partenza della sua incessante ricerca:

“‘Verso la poesia totale’ vuol essere in primo luogo una formula in grado di stabilire la necessità di vedere nel campo della poesia sperimentale non tanto una confusa e frammentaria area in dispersione, quanto la coesistenza di varie direttrici di marcia legate da una fitta rete di rapporti e di scambi: ‘La poesia concreta non divide le lingue – scrive Max Bense – ma le unisce e le fonde’.”

Estendendo questo concetto a quello del superamento dei confini fra i codici espressivi delle diverse discipline artistiche, già introdotto da Dick Higgings con l’idea totalizzante di “inter/media”19, Adriano si dedicò proprio in quel ’67 alle prime esperienze performative mescolando i linguaggi di poesia, musica, teatro, pittura, ecc. Ne furono palcoscenico prima l’esposizione di Trieste, poi alla grande il paese di Fiumalbo, dove si svolse in agosto Parole sui muri20, la kermesse collettiva (organizzata da Adriano Spatola con Corrado Costa e Claudio Parmiggiani) trasformata da rassegna di manifesti in happening internazionale di artisti e poeti, che occuparono gioiosamente, ma anche con risvolti polemici, il piccolo centro sull’Appennino modenese. Polemiche e scontri, non solo verbali, che provocarono l’intervento in forze, da Modena, di polizia e carabinieri, che dopo aver identificato gli artisti si limitarono a fare da pacieri: “Tutta pubblicità” fu l’ironico commento di Adriano.

Il poeta francese Julien Blaine, amico fraterno e alter ego di Adriano con la sua art total, ricorda così quel lontano, storico episodio:

“Fiumalbo fut une expérience fondatrice pour beaucoup d’entres nous: il s’agissait rien de moins que de la mise en évidence, collectivement, de tout ce que nous prônions individuellement, de tout ce que nous affirmions dans nos pratiques artistiques, dans nos revues, dans nos èchanges. Pendant plusieurs jours, nous avons occupé un village. Et pendant tout ce temps, un village entier a vécu au rythme de nos actions; les murs, les rues, les fenêtres, les arbres étaient devenus les pages sans limite d’une revue éphèmère. Les habitants de ce village étaient nos interlocuteurs privilegiés, lecteurs enfin actifs qui réagissaient, questionnaient, râlaient parfois, souvent aidaient, intrigués mais intéressés...Il y avait là, mélés sans distinction d’aucune sorte, des connus et des inconnus, toutes pratiques artistiques confondues...Ce qui importait, c’était que cette démarche poétique que nous défendions soit totalement partagée, sans aucune bride, sans aucune retenue...L’utopie (ce mot dont je me suis toujours méfié, tant il inclut l’idée de l’impossible) devenait réalité.”

Questi eventi, uniti alla realizzazione, con il contributo dei fratelli minori (oltre a me l’allora quindicenne Tiziano), della prima antologia sperimentale “Geiger”21, costituirono il trampolino di lancio per quella poesia totale che sarebbe divenuta per Adriano una forma mentis, che ne avrebbe contrassegnato non solo il lavoro poetico, ma il comportamento stesso, fino nei minimi gesti quotidiani.

Nei primi mesi del ’68 demmo vita, fra Bologna e Torino, alla piccola casa editrice che avrebbe operato per tutto il decennio successivo all’insegna dello sperimentalismo poetico e artistico: mantenemmo il nome scelto per l’antologia, mutuato dal contatore utilizzato per rilevare la radioattività, che ci era parso consono a quella idea di “contaminazione” tra i diversi linguaggi espressivi costituente il nocciolo della ricerca in atto in quegli anni. Il successivo trasferimento di Adriano a Roma per lavorare alla redazione di “Quindici”, dove conobbe Giulia Niccolai, accelerò la formazione definitiva della sua poetica e anche delle sue scelte di vita. Ne sono testimonianza gli articoli scritti per il periodico romano, la stesura del saggio Verso la poesia totale, la frenetica attività editoriale, in parte demandata al sottoscritto (a Torino), in parte esercitata a Roma, dove furono stampati i primi libretti della collana “poesia”. Sul piano personale, la crisi già in corso del suo matrimonio22 si concluse con la separazione mentre nasceva il sodalizio sentimentale e letterario con la Niccolai: nel 1970 con la scelta di vivere nell’ “isolamento attivo” del Mulino di Bazzano, nella campagna parmense, Adriano e Giulia dettero inizio a un decennio passato alla storia e narrato recentemente da Eugenio Gazzola nel volume Al miglior mugnaio (Diabasis, Reggio Emilia, 2008), i cui protagonisti sono anche i tanti poeti e artisti, giovani e no, che si aggregarono attorno alla rivista “Tam Tam” e alle edizioni Geiger23.

Un suo intervento pubblicato sul numero 13 di “Quindici” del novembre ’68, ironicamente intitolato Va’ pensiero (coro), riecheggia i toni amari delle poesie pubblicate ne L’ebreo negro, le suggestioni anarchistes dell’ultimo Breton e le idee del filosofo Herbert Marcuse24, padre putativo delle rivolte studentesche americane del ’64, nonché di quel Sessantotto europeo che sognava di cambiare il mondo: miscelando il tutto, Adriano vi proponeva “un pensiero che si deve fare clandestino” , in quanto “il pensiero che circola liberamente è un pensiero venduto”. Conseguentemente occorre “abolire la proprietà privata del pensiero” che “dovrebbe poter diventare un bene collettivo, ed esistere, un giorno, come creazione collettiva pura”. Ragionamento non privo di un sottofondo marxista, come si vede.

 Ma in un articolo successivo, apparso sul numero 16 del marzo ’69, con il titolo Poesia, apoesia e poesia totale, eccolo introdurre un primo mutamento di rotta, con l’ obiettivo basato su raffiche di domande (non sempre retoriche), di ridefinire il ruolo del poeta, della poesia e del critico letterario:

“Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre di meno. È stanco di ondeggiare quotidianamente tra la figura rossa dello sciamano, e quella nera del funzionario […] la poesia è stanca di riflettere se stessa come uno specchio. Il poeta e il critico di poesia sono la stessa persona, ma proclamano il proprio diritto ad avere una posizione asociale proprio perché la società vuole fare dell’uno il parassita dell’altro. È il momento della liberazione della poesia da se stessa, e quindi il momento dello sganciamento del poeta e del critico dal cerimoniale culturale”.

Dopo un lungo percorso logico, costellato di dubbi, a volte artificiosi, ma pour cause, ecco la conclusione:

“La dimensione mentale nella quale il poeta può oggi tentare di lavorare è quella dell’invenzione assoluta. Il passaggio dalla poesia come poesia a una forma di poesia totale è l’unica maniera di usare positivamente e concretamente, nella direzione di una utopia anarchicamente garantita, quell’ esperienza del linguaggio che il poeta è finora abituato a fare come fine a se stessa”.

Parole che testimoniano, ancora una volta, le profonde radici etiche del “ragionar” di Adriano sia nell’assumere posizioni filosofiche, o politiche sia nel delineare il ruolo del poeta, ovvero il proprio stesso ruolo, all’interno delle complesse dinamiche culturali e sociali della sua epoca. È ovvio che il mio giudizio in merito possa apparire condizionato, se non manifestamente di parte. Perciò ritengo opportuno citare in proposito l’opinione di due persone che, pur essendo state molto vicine a mio fratello, hanno vissuto con lui anche momenti di aperto contrasto: Giulia Niccolai e Carlo Alberto Sitta, entrambi coinvolti a pieno titolo nella redazione di “Tam Tam”. Ha scritto la prima, nel suo libro Esoterico Biliardo (Archinto, Milano, 2001):

 “La poesia per Adriano era uno smagliante vessillo che lo faceva sentire condottiero […] La poesia è stata per Adriano il solo ruolo possibile, il suo tormento va attribuito all’incapacità di scalfire la convinzione granitica di questa sua scelta, di capire dove e quale errore avesse commesso. Adriano produceva, lavorava indefessamente, rimandando sempre a dopo il compito di interrogarsi in questo senso. La sua poesia può essere letta come una sfida al limite dello svuotamento del significato di poesia stessa, e la sua diciamo battaglia contro i ‘monumenti’ della poesia, va comunque sempre considerata alla luce del suo sforzo di penetrare nell’insondabilità della comunicazione. Questo, il filo del rasoio sul quale egli scelse di portare avanti la sua ambiziosa provocazione. E se la giustizia letteraria passa attraverso le intenzioni, quel molto di sforzo pagato da ogni poeta, Adriano l’ha pagato con la vita.”

Quanto a Sitta, dopo un’intensa collaborazione con Adriano e Giulia, verso la fine degli Anni 70 lasciò il gruppo di “Tam Tam” per fondare una sua rivista di poesia, “Steve”.
Sul n. 34 di questa (Modena, ottobre 2008), dedicato ad Adriano nel ventennale della morte, ha scritto in un articolo intitolato L’onesta profezia:

“[…] era sempre la poesia a dare un senso al sapere e non viceversa. Ma poesia era ciò che ti cambia la vita, una scelta senza deroghe che esigeva strategie e maschere, dissacrazioni e ricostruzioni, beffe allegrissime e drammi senza soluzione […] Da grande giocatore Adriano credeva nello spirituale dell’ arte come nelle ludiche metamorfosi dell’ amatissimo Queneau. In definitiva il poeta che ha scelto di essere coincideva con la persona che era, la figura e la maschera si sovrapponevano.” E ancora, più avanti: “[…] A sua volta mettere la vita come posta, scommettere su se stesso come irregolare, alla maniera di Rimbaud e di quel Lautreamont riportato in auge dai Surrealisti, era un modo d’essere che implicava una condizione criptata e sacrale. Era ciò di cui non si poteva parlare, per pudore o per un autentico senso del tragico”. “Prima che anarchico – conclude Sitta – Spatola era un eretico,che non poteva schivare le questioni metafisiche, le ragioni stesse dell’ esistere”.


Questa “condizione sacrale” del poeta, questo “furore tragico” del suo esistere, libero sì ma dentro i confini di una gabbia, Adriano cercò di razionalizzarli, codificandone l’ operatività, nel già citato saggio Verso la poesia totale. Ne riporto qui alcuni frammenti dalla prima parte, più teoretica rispetto alla seconda più storica ed esegetica.

“[…] la poesia totale si presenta come un’ area vastissima di ricerca creativa che vive e si sviluppa mediante una fitta e complessa trama di rapporti fra tutti i suoi punti di riferimenti – scrive all’inizio del secondo capitolo, Poesia sperimentale ed esperimenti di poesia – se l’impulso a uscire dai confini del proprio territorio è un carattere accertato delle varie arti, l’arte della parola ne rimane forse coinvolta a un livello più profondo e definitivo, in quanto tenta una metamorfosi così radicale che è la natura stessa dell’ immaginazione a essere messa in discussione […] La nuova poesia prende l’avvio, nel suo processo di formazione, dai linguaggi tipici di altre arti, in particolare delle arti plastiche, per farsi ‘oggetto’ che rifiuta la lettura”.

Dopo aver attribuito a Rimbaud il primo tentativo di “trasformazione in direzione visiva della composizione poetica” in particolare nel famoso sonetto Voyelles, Adriano precisa il quadro composito delle nuove strade imboccate dalla poesia: “dopo la grande ondata delle avanguardie storiche abbiamo la poesia concreta che lavora sulla struttura del testo, la poesia visuale che è una formulazione grafica del significante, la poesia fonetica che è una formulazione sonora dello stesso significante. Pop art, happening, arte concettuale, arte comportamentale, accompagnano queste trasfigurazioni della poesia” .

Le considerazioni che seguono sembrano preludere a quello che sarà, negli anni successivi fino alla morte di Adriano, il grande lavoro imperniato sulla rivista “Tam Tam”.

“La poesia totale sembra offrire oggi al lettore non un prodotto definitivo, da accettare o subire nella sua chiusa perfezione, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, nella loro strutturale rimaneggiabilità […] Il gesto totalizzante della nuova poesia è insomma sempre, in qualche modo, un tentativo di coinvolgere il lettore a tutti i livelli, per farne oggi un corresponsabile e un complice, e domani un coautore”.

“Tam Tam” e “Baobab”. Alla fine dell’estate1969, la chiusura di“Quindici”, con il suo strascico di polemiche fra i protagonisti del Gruppo 63 in dissolvimento, rese invivibile per Adriano e Giulia l’ambiente letterario romano : di qui la decisione di trasferirsi, l’anno dopo, nel casale di Mulino di Bazzano, alle falde dell’Appennino tra le province di Parma e Reggio Emilia, complice l’amico Corrado Costa che ne era proprietario e richiese un affitto abbordabile. Nella quiete di quella campagna, che sarebbe presto divenuta punto di riferimento per centinaia di giovani artisti e poeti in cerca di un spazio libero dove discutere e mettersi in discussione, Adriano individuò il punto focale della sua poetica, che esplicitò nei versi della raccolta Majakovskiiiiiiij25 (nelle poesie La composizione del testo, La prossima malattia e Il poema Stalin, oltre a quella del titolo) e riassunse nell’editoriale del primo numero di “Tam Tam” 26 pubblicato nel marzo 1972.

 Una dichiarazione d’intenti che annunciava una scelta di campo, netta e provocatoria, alla luce dei precedenti e dell’ambiguità in cui stagnava la cultura italiana:

“La poesia sta diventando di nuovo il problema della poesia. Le formule ben congegnate sui rapporti tra il poeta e la realtà si rivelano prive di senso: ma è sperabile che questa crisi non abbia niente a che fare con le lamentazioni abituali sulla ‘inefficacia’ della ricerca poetica. Dovrebbe essere piuttosto una scelta consapevole, un distacco nato dalla volontà di progettare un’ alternativa. Non per colpa ma per merito della poesia le formule dovrebbero perdere significato rivelandoci la loro equivocità. La poesia non si deve più accettare come componente di una cultura che proclama che i propri giochi e i propri esercizi acrobatici sono di volta in volta una soluzione di fatto. In questa situazione la poesia ha il diritto di rimandare l’ intervento immediato sulla realtà a tempi più propizi e di progettarsi intanto come ricerca autonoma sulle proprie ragioni”.

I libri pubblicati dalla piccola casa editrice e la rivista realizzati artigianalmente, avevano per Adriano e per i suoi più stretti collaboratori un significato che andava oltre l’ indipendenza dall’ industria culturale, offrendo uno spazio estremamente libero e aperto a ogni tipo di sperimentazione artistica e letteraria. “Tam Tam” costituì sin dall’ inizio un focolaio di dibattito interno ed esterno (con l’attiva partecipazione di poeti quali Corrado Costa, Mario Ramous, Franco Beltrametti, C.A. Sitta, Marie-Louise Lentengre, Giorgio Celli, Giovanni Anceschi, Milli Graffi, Gerald Bisinger, Antonio Porta, Raffaele Perrotta), presentando anche in ogni numero un panorama delle più varie ricerche in campo internazionale, dalla poesia concreta a quella visiva, dalla poesia “elementare” a quella tecnologica, con attenzione anche, naturalmente, alla poesia lineare e agli eredi americani della Beat Generation, come Gary Snyder, Cid Corman, James Koller, Philip Whalen e altri. L’interesse di Adriano per le espressioni sonore e corporee della poesia, nato dall’incontro con i lettristi francesi (in particolare Henri Chopin e Bernard Heidsieck), nonché Arrigo Lora Totino e Julien Blaine aveva già trovato collocazione all’interno del suo progetto di poesia totale. Negli anni settanta si tradusse nella famosa serie di performance che avevano nel gioco verbale tra due sostantivi analoghi, come Aviation/Aviateur, Seduction/seducteur, o Variation/Variateur non solo la loro specificità teatrale, ma anche una chiave di lettura basata sulla poesia concreta, tipologicamente simile allo spartito musicale: nel libretto Algoritmo (Geiger 1973), stampato in ciclostile e rilegato a mano, Adriano ne fornirà una efficace rappresentazione grafica.

Nel corso degli anni queste esibizioni divennero per mio fratello un vero e proprio lavoro remunerato, anche se non sempre in modo soddisfacente, che lo portò in giro per l’Italia e per l’Europa, ma anche negli Stati Uniti e Canada.

Vedendolo sulla scena a volte mi esaltavo o commuovevo, in altre occasioni mi arrabbiavo e spiego perché. Durante le sue performance Adriano assumeva un atteggiamento nei confronti del pubblico che a me appariva eccessivamente provocatorio: camminava avanti e indietro sul palco come se non sapesse bene cosa fare, fermandosi ogni tanto a bere dall’immancabile lattina di birra posta sul tavolino, per poi dare inizio allo show dopo numerose false partenze. Io digrignavo i denti per la rabbia perché mi sembrava troppo evidente la sua ubriachezza, e quasi mi stupiva, alla fine, sentire lo scroscio degli applausi: allora pensavo di essermi accorto solo io, che lo conoscevo bene, delle sue condizioni. Soltanto in seguito ho capito che era invece tutto calcolato, tempi e ritmi dei movimenti e delle sonorità vocali e che Adriano, lungi dall’essere un attore dilettante, aveva acquisito un’invidiabile professionalità fra i poeti sonori di tutto il mondo. Ai miei rimproveri per questa manifesta ebbrezza rispondeva mellifluo: “Devo pur adeguarmi al mio personaggio.”

Almeno in un’occasione si cimentò davvero come attore, interpretando il ruolo di Pére Ubu, o Ubu, Roi in una rielaborazione del testo di Alfred Jarry, il padre della Patafisica, allestita in un teatro di Correggio. Per quella recita Adriano si era fatto stampare sulla sua solita maglietta bianca, solcata dalle bretelle, il simbolo della patafisica: la famosa spirale sulla ventripotenza di Ubu. Chi meglio di lui poteva calarsi in quel ruolo?

La passione per la poesia sonora, o fonetica (come veniva ancora definita), condivisa con numerosi altri, condusse prima alla nascita di un movimento chiamato “Dolce Stil Suono”, poi alla fondazione della rivista in audiocassette, “Baobab”27, da lui diretta, pubblicata e distribuita a Reggio Emilia dalle Edizioni Elytra di Ivano Burani: i principali collaboratori erano Giovanni Fontana, Arrigo Lora Totino, Giulia Niccolai, Corrado Costa e nostro fratello Tiziano. Ne uscirono 20 numeri, il ventesimo dopo la scomparsa di Adriano e a lui dedicato: vi è riportata anche la registrazione della sua ultima apparizione in pubblico, il nove novembre ’88 in una piazza romana, durante la quale recitò la “Morte del poeta”, facendo risuonare il microfono sul proprio corpo, chiamato a testimoniarla: espediente scenico o presentimento?

Diversi accorgimenti: Un po’ di rigore. Come accennato in precedenza, alcune poesie di Adriano di quel periodo possono essere lette come vere e proprie dichiarazioni di poetica. Nei versi degli Anni Sessanta, da Alamogordo 1945 a L’ebreo negro, da Sterilità in metamorfosi a Il booomerang, era evidente la carica fortemente emotiva, dal tono drammaticamente profetico, che li aveva ispirati e che trasudava anche dalle pagine del romanzo L’Oblò. Poemi successivi, come La composizione del testo e La prossima malattia, manifestano invece la volontà di un rigore stilistico, oltre che un’attenzione spasmodica al significato, quindi al “messaggio” (anche se criptato), che testimoniano la maturità del poeta: giunto a lavorare con accanimento non più sulla parola o intorno alla parola, ma dentro la parola. Ma è con la raccolta Diversi accorgimenti (Geiger 1975), dal sottotitolo ideale per l’abolizione della realtà, che Adriano offre, e non solo a mio avviso, la prova più alta della sua consapevolezza creativa e teoretica: non a caso una della sezioni che compongono il libro si intitola Un po’ di rigore e la nota critica che accompagna il testo porta la firma del suo maestro, Luciano Anceschi.

Nell’editoriale del n. 2 di Tam Tam Adriano aveva sostenuto la necessità di “... una poesia che si costruisce come metamorfosi oggettiva , non come parafrasi metaforica della realtà”, anticipando quello che sarebbe stato il filo conduttore della sua futura poesia. Sul n.12 di “Testuale”28 del maggio 1991, dedicato agli scomparsi Antonio Porta e Adriano Spatola, Enzo Minarelli ha compiuto un’accurata disamina filologica e strutturale proprio dei Diversi accorgimenti, iniziando col citare Anceschi, per sottolineare la “forza emergente” e la “pregnanza semantica”, di un autore, “in grado di teorizzare la propria opera”. Sostiene Minarelli:

Non si può non dire che il verso di Spatola non sia esatto, ma il concetto non si lascia afferrare, e in questa sua devianza rispetto alle normali attese compare la Grande Madre dell’Ambiguità, per cui, costeggiare, lambire, sfiorare, mai approdare. Certo una ‘fertilissima estraniazione’ il termine di brechtiana memoria, potrebbe non spiegare perché la sua poesia invece esige una immediata partecipazione […] Esige attenzione proprio perché il suo verso è una sorta di continuo collage”.

Vale la pena ricordare che la raccolta si articola in diverse sezioni contraddistinte da titoli che i lettori di Adriano conoscono bene:

Il quaderno bianco, Un po’ di rigore, Una leggera metempsicosi, L’abolizione della realtà, Che giorno è oggi, L’esistenza della descrizione, Le forbici sulla tavola, L’astensione dal vuoto.

Il poema Che giorno è oggi, cadenzato nelle cinque strofe dall’incipit “democrazia, una parola”, assunse negli anni un valore particolare per l’autore, al pari del suo amatissimo Poema Stalin: nelle rare occasioni in cui leggeva, per una ristretta cerchia di amici, questi versi, non poteva fare a meno di commuoversi. è importante notare come l’abolizione della realtà consista nella traduzione sensoriale, in parole, delle immagini di opere di cinque famosi pittori: Seurat, Villon, Petrus Christus, Carrà, Morandi. Conclude ancora Minarelli:

“Il mestiere di poeta va fatto con la consapevolezza del peso specifico della parola, con lo studio delle tecniche del verso, con il rovello della struttura. Altrimenti detto, interrogarsi sul perché di una parola e sul perché no di un’altra. Certo, problemi sottili, problemi necessari, forse troppo ingombranti, perché esigono tempo, preparazione, dedizione e un po’ di umiltà, in fondo niente di troppo importante”.

Il percorso teoretico di Adriano si era concluso, la sua poetica aveva trovato gli esatti contorni e la sua sistemazione definitiva: ne condensò i punti principali nella lunga intervista con Peter Carravetta pubblicata nel 1979 sulla rivista “Invisibile City” edita a Los Angeles a cura di Paul Vangelisti e John McBride. Gli anni che seguirono furono un esercizio pratico, con aggiustamenti e variazioni, anche giocosi, di un pensiero ormai collaudato. Pubblicò un’altra raccolta di poesie, La piegatura del foglio (Guida, Napoli 1983),con la prefazione di Guido Guglielmi e un’antologia di scritti critici, Impaginazioni (Tam Tam, San Polo d’Enza 1984), oltre a diversi libri-oggetto o in edizioni limitate con l’intervento di amici pittori, come lo splendido Cacciatore di mosche (Telai del Bernini, Modena 1980), acquerellato a mano da Giuliano Della Casa. Postuma uscì la raccolta di poesie già da lui preparata, La definizione del prezzo (Tam Tam/Martello 1992), con i disegni al tratto dello stesso Della Casa. Per quanto concerne la sua produzione visuale, sempre collegata alla poesia concreta, passò dagli “Zeroglifici” ai collage e infine alle “Iconoscritture”: cambiava la forma, non il concetto.

Nel 1983 lasciò il Mulino di Bazzano per un appartamento di tre stanze a San Polo d’Enza troppo piccolo per le sue esigenze, per poi approdare due anni dopo, in un’altra grande casa di campagna (la Cà Bianca) a Sant’Ilario d’Enza, dove morì.

Negli anni immediatamente successivi, molti, artisti e poeti, critici e storici, hanno scritto di lui29, anche se sporadicamente: in seguito un incredibile silenzio è calato sulla sua figura di poeta e di maieuta (Tam Tam e il Mulino erano divenuti una vera e propria “scuola” letteraria, frequentata da centinaia di giovani), complici soprattutto il “riflusso”, il clima di restaurazione, che avevano messo in soffitta la Neoavanguardia degli Anni 60 e 70, con il ritorno a una poesia di tipo intimista e a una narrativa d’effetto, di mercato e del tutto lontana da tentazioni sperimentali. Solo recentemente, Adriano e altri protagonisti di quella stagione, quali Corrado Costa, Antonio Porta e Patrizia Vicinelli anch’ essi precocemente scomparsi, fra il 1989 e il 1991, sono tornati al centro dell’attenzione.

Vorrei concludere con le intense, commosse parole di Luciano Anceschi, che aprivano il numero 4 de Il Verri30 pubblicato nel dicembre 1991 come Omaggio a Spatola:

“Adriano fu soprattutto poeta; ma anche at­tore di poesia; e contribuì vivacemente alla discussione sulla poesia, fu una importante e influente figura di faber […] ha toccato giochi rarissimi tra la magia e l’ umore, in quello che è stato detto ‘uso sobrio del surrealismo’ […] non manca uno Spatola capace di ritrovare con una sua ironia, i toni di una rinnovata misura, che dà altro fiato a strumenti delicati che sembravano ormai destina­ti a tacere [...] fu un poeta che andrebbe studiato a fondo nei movimenti infiniti di una sintassi sorprendente e senza paragoni; ma fu anche un attore di poesia le cui inven­zioni nell’ordine dell’oralità restano indimenticabili per noi […] Fu, in fine, un teorico delle nuove tendenze, e con il suo libro Verso la poesia totale attraversò un secolo di ricerche con una sapienza delle poetiche che gli deve es­sere ancora riconosciuta […] Fu uno dei codificatori della nuova poesia; ma un codificatore che sapeva di non poter imporre codici [...]. Da ‘Bab Ilu’ a ‘Malebolge’ a ‘ Tam Tam’ egli promosse o contribuì a promuovere, e fece vivere riviste che andrebbero stu­diate, che sono un momento di una vita recente della poe­sia, che sono accompagnate da iniziative stimolanti tan­to quanto assurde della poesia: progetti impossibili, e pu­re progetti che agirono […]. C’è un ritmo profon­do e segreto in tutto il lavoro di Spatola: la poesia-gioia, la poesia-farsa nascondono una profonda disperazione, una rinuncia continua a se stessi, quasi una meditata distru­zione”.   
   

 

 

Note

1 Le citazioni sono tratte da L’existentialisme est un humanisme di Jean-Paul Sartre e Possibilità e libertà di Nicola Abbagnano.up
2 Recensione al libro di Antonio Banfi: I problemi di una Estetica filosofica (Parenti, Novara 1961), contenuta in: “Bab Ilu” n. 2, Bologna 1962. Fu questa la prima rivista di poesia diretta da Adriano, di cui videro la luce due soli numeri, nel 1962. La redazione era composta da: Aurelio Ceccarelli, Miro Bini, Claudio Altarocca e Carlo Conti Marcello. Tra gli autori pubblicati figuravano anche gli allora giovanissimi Patrizia Vicinelli e Giorgio Celli. Il primo numero, con in copertina la riproduzione di un carboncino di Sebastian Matta, si apriva con il poema I sassi di Tot di Emilio Villa, l’eclettico e “clandestino” poeta romano, amatissimo da mio fratello: sul numero 2/4 del 1975 di “Uomini e Idee” (la rivista napoletana diretta da Corrado Piancastelli) gli dedicò uno splendido articolo intitolato Cosmogonia pubblica e privata in Villa.up
3 I testi cui l’autore fa riferimento sono: Poesia e non poesia, di Benedetto Croce, Il marxismo e la critica letteraria e Saggi sul realismo di György Lukács, Mimesis di Erich Auerbach.up
4 Le numerose citazioni sono tratte da scritti di Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, Francesco Leonetti, Enzo Paci, Geno Pampaloni, Gianni Scalia, Giorgio Caproni, Giacomo Devoto, Eugenio Montale, Elio Pagliarani, Lamberto Pignotti, Vittorio Sereni, Elio Vittorini, Roberto Guiducci, Carlo Bo, Edoardo Sanguineti, Luciano Anceschi, Charles Olson. up
5 Sul n. 135 del gennaio 1964 in un articolo intitolato Un anno di poesia italiana. I libri recensiti erano: Allergia, di Massimo Ferretti (Garzanti); L’Appennino e nuove poesie, di Gaetano Arcangeli (Mondadori); IX Ecloghe, Andrea Zanzotto (Mondadori); Come si agisce, di Nanni Balestrini (Feltrinelli); l’antologia di Raffaele Crovi, costituente il n. 6 de “Il Menabò”. In chiusura, cenni sui fermenti che vedevano protagonisti Emilio Villa, Mario Diacono, S.M. Martini, con le riviste “Ex” e “Quaderno”.up
6 Sul n. 25 del maggio 2004. L’articolo si intitola: Rinnegato tra i rinnegati: l’iper-romanzo di Adriano Spatola. Nello stesso fascicolo compare in appendice una mia testimonianza sull’attività editoriale di mio fratello così intitolata Geiger, sperimentazione permanente.up
7 Pubblicate rispettivamente sul n. 2 di “Bab Ilu”, 1962 e sul n. 1 de “Il Verri” del febbraio 1962.up
8 Tutte comprese nella raccolta L’ebreo negro pubblicata da Scheiwiller nel 1966 ora riedita, con quasi tutte le poesie di Adriano, nel volume The Position of Things, a cura di Paul Vangelisti, con postfazione di Beppe Cavatorta (Green Integer, Los Angeles 2008). up
9 La prima apparve, con il titolo Surrealismo in Spagna, sul numero 13 dell’aprile del 1964, la seconda, intitolata Corrado Costa: pseudobaudelaire, sul numero 18 del dicembre dello stesso anno.up
10 La rivista nacque a Reggio Emilia come voce alternativa del Gruppo 63 per iniziativa di un manipolo di giovani poeti e di artisti emiliani e lombardi con l’appoggio dichiarato di Nanni Balestrini e di Antonio Porta e quello meno esplicito di Edoardo Sanguineti ovvero tre dei Novissimi. La redazione era composta da: Ennio Scolari, Vincenzo Accame, Giovanni Anceschi, Paolo Carta, Giorgio Celli, Corrado Costa, Alberto Gozzi, Luigi Gozzi, Antonio Porta, Adriano Spatola. Direttore responsabile Paolo Rosati. Del periodico uscirono tra il 64 e il 67 quattro numeri, di cui uno doppio, il 3/4.
Sin dal primo numero venne avanzata, in particolare da A. Spatola, la proposta di lanciare un movimento “parasurrealista”.
Nei primi due numeri apparvero per la prima volta due tra le poesie più cariche di significato di Adriano: Sterilità in metamorfosi e Reattivo / per la vedova nera. Sul terzo comparve l’abbozzo del secondo romanzo, Achille, mai completato (ripubblicato sul numero 42/43 del 1967 di “Nuova Corrente”, la rivista fondata a Genova da Mario Boselli di cui Adriano fu stretto collaboratore).up
11 Oltre all’articolo di Adriano, il fascicolo, suddiviso come al solito in “Testi” e “Pretesti”, comprendeva esempi di poesia e narrativa parasurrealista e nella seconda interventi critici e teorici, sia dei redattori di Malebolge, sia degli autori ospiti. Testi di: Arrabal, Barbé, Bedouin, Dhainaut, Fanjeaud, Ivsic, Mansour, Schuster, Silbermann, Zimbacca, Albertazzi, Bodini, Carta, Celli, Costa, Pignotti, Scabia, Torricelli. Pretesti di: Accame, Albertazzi, Bodini, Carta, Celli, Costa, Leonetti, S.M. Martini, Dorfles, Pignotti, Pontiggia, Novelli, Pedio, Scabia, Spatola, Tola, Torricelli, C. Villa, Ziveri. up
12 Pubblicato come prefazione negli Atti del convegno, a cura di Pier Luigi Ferro, con il titolo: Adriano Spatola poeta totale, Edizioni Costa & Nolan, Genova 1992. Il volume comprende una poesia di Edoardo Sanguineti e gli interventi di: Maurizio Spatola, Luigi Fontanella, Pier Luigi Ferro, Mario Lunetta, Giorgio Terrone, Mario Ramous, Giovanni Fontana, Stefano Verdino, Gilberto Finzi, Ciro Vitiello, Gio Ferri, Marzio Pieri, Raffaele Manica. Con una conversazione con Adriano Spatola di Luigi Fontanella.up
13 André Breton un uomo attento, a cura di Ferdinando Albertazzi: pubblicato dall’editore Longo di Ravenna, il volume, dedicato al padre del surrealismo, raccoglie interventi suddivisi in tre parti a mo’ di inchiesta in Indagini, Deposizioni, Atti. Nella prima parte interventi di: G. Celli, C. Costa, R. Margonari, Carla Menis, G. Scalia, I. Simonis, Adriano Spatola; nella seconda parte testi di: J.L. Bedouin, M. Borselli, S. Dangelo, J. Fremon, A.P. de Mandiargues, G. Raga, P. Soupault, L. Tola; nella terza parte brani di Breton tratti da Nadja, L’union Libre, Les vases communicants, L’amour fou. up
14 Della rivista, diretta da Lora Totino con la collaborazione di Sergio Acutis, Alfredo De Palchi e Armando Novero, uscirono 4 numeri fra il 1959 e il 1966, a carattere internazionale. L’antologia “Modulo”, fra le prime in Italia a proporre autori di poesia concreta di tutto il mondo, venne pubblicata nel 1966.up
15 Le due plaquettes di Adriano uscirono nella collana “Il dissenso”, da lui stesso ideata, in cui comparvero testi di altri protagonisti della neoavanguardia. Con il vulcanico editore, precocemente scomparso in un incidente stradale, mio fratello promosse altre collane “sperimentali”, come Proposte (in cui comparvero Botanybotanybotanybay del parasurrealista Ferdinando Albertazzi e i versi allucinati, alla Lautrèamont, del Dunque Cavallo di Giampio Torricelli), I nòveri in cui fu pubblicata la raccolta di poemi concreti di Julien Blaine, Paragenesi, o la Piccola collana 70 dedicata al recupero critico di autori rinascimentali, quali Pietro Aretino e Anton Francesco Grazzini, detto Il lasca, settecenteschi quali il Domenico Batacchi del Re Bischerone; fino al provocatorio de Sade de I Crimini dell’Amore e Le disgrazie della virtù, curati e tradotti rispettivamente da Giorgio Celli e da Adriano. Per questa traduzione mio fratello fu processato e condannato in primo grado (poi assolto in appello) per “oscenità” (!) la grafica e i disegni in copertina di questi libri erano opera del giovane pittore bolognese Maurizio Osti. Un discorso a parte va fatto per l’Aretino: Sampietro ne ripubblicò la prosa de I ragionamenti (di cui Adriano descrive L’iperspazio linguistico in una memorabile postfazione), le opere teatrali (La cortigiana, la pinzochera e la gelosia) e le maliziose poesie dei Dubbi Amorosi.up
16 Preceduta da quella allestita a Castelfranco Veneto nel maggio di quell’anno, l’esposizione triestina, tenuta nel luglio 67 al Castello di San Giusto, costituì una delle prime iniziative atte a far conoscere in Italia la poesia concreta e visuale, presentando opere di 57 autori da tutto il mondo. Curatori di Segni nello Spazio furono Adriano Spatola e il recentemente scomparso Franco Verdi. I contributi critici erano di: Carlo Belloli, Kitasono Katuè, Emilio Isgrò, Franz Mon, Martino e Anna Oberto. up
17 La rivista, di formato quadrato, era caratterizzata da numeri monografici, dedicati a poeti concreti e visuali, le cui opere erano sovente accompagnate da testi critici. Hansjorg Mayer, Renhald Dohl, Timm Ulrichs, Charles Sanders Peirce, Klaus Burkhardt, Haroldo de Campos, alcuni degli autori pubblicati, nel n. 38 del 1969 era pubblicato il saggio di Max Bense Kleine Abstrakte asthetik, “piccola estetica astratta”.up
18 La prima edizione del saggio venne pubblicato dall’editore Rumma di Salerno nel novembre 1969. Una seconda edizione, ampliata e corredata da una più nutrita bibliografia, comparve nel 1978 nella collana “la tradizione del nuovo” diretta da Luciano Anceschi, in collaborazione con Mario Artioli, per l’editore torinese Paravia. Pochi anni dopo la morte dell’autore ne fu pubblicata una versione francese (Vers la poesie totale, a cura di Philippe Castellin, Marseille 1993) e più recentemente la traduzione inglese ( Toward total poetry, a cura di Brendan W.Hennessey e Guy Bennett, Los Angeles 2008).up
19 In proposito nell’antologia GEIGER 5 (1972) Adriano ed io firmavamo un testo in cui si legge, fra l’altro: “Il concetto stesso d’intermedia – introdotto da Dick Higgings recentemente (foow&ombwhw”, Something else press, 1969) – non è più soltanto una definizione tecnica, come mixed media, ma sviluppa un atteggiamento mentale per il quale è essenziale che scompaia ogni distinzione tra le varie forme culturali e che all’idea di “categoria” venga sostituita quella di “continuità”. “Siamo vicini all’alba di una società senza classi nella quale la suddivisione rigida in categorie non avrà più senso”, dice Higgings.
Come si vede, nell’essere spinto da pulsioni etiche e nel coltivare utopie, Adriano non era solo.up
20 La rassegna si svolse dall’8 al 18 agosto nel 1967, con la partecipazione di un centinaio fra poeti e artisti, ben oltre le previsioni. I più “anziani” tra loro erano prossimi alla quarantina: Henri Chopin, Arrigo Lora Totino, Eugenio Miccini, Martino Oberto ad esempio. Ma in maggior parte non avevano ancora trent’anni e alcuni non raggiungevano i venti. Alcuni nomi: Julien Blaine, Giuliano della Casa, Carlo Cremaschi, Adriano Malavasi, Patrizia Vicinelli, Franco Vaccari, William Xerra, Jean-Claude Moineau, Ketty la Rocca, Sarenco, Biljana Tomic´, Udo Welter, Gian Pio Torricelli, Maurizio Osti, oltre naturalmente al sottoscritto e nostro fratello Tiziano Spatola, all’epoca quindicenne. Una completa documentazione relativa a Parole sui muri, comprensiva anche dei manifesti e degli articoli della stampa locale aspramente critici nei confronti di quella “orda di capelloni anarcoidi” che avevano “invaso” Fiumalbo, venne pubblicata un anno dopo dalle edizioni Geiger. Nel 2004 l’editore Diabasis di Reggio Emilia ha pubblicato con lo stesso titolo una ricostruzione storica dell’evento a cura di Eugenio Gazzola. up
21 Ideata nell’estate del 1966 l’antologia fu realizzata assemblando manualmente i lavori di una cinquantina di artisti e poeti di varie nazionalità, inviatici su richiesta in trecento copie nel formato A4 (all’epoca UNI). Le pagine di supporto erano state da noi stampate con il ciclostile: anche la copertina era dono dell’autore, il pittore reggiano Marco Gerra. Da questo curioso progetto editoriale, il primo in Italia, presero l’avvio a partire dal febbraio 1968 le edizioni Geiger, nel cui ambito fu poi pubblicata la più nota fra le riviste di poesia dirette da Adriano, “Tam Tam”. In seguito realizzammo altre otto antologie sperimentali GEIGER (la nona nel 1982). Un decimo numero, dedicato a mio fratello, ha visto la luce nel 1996 a cura mia, di Arrigo Lora Totino e Franco Beltrametti.up
22 Adriano si era sposato a Bologna con Anna Neri nel giugno 1965, nel maggio 1966 era diventato padre di Riccardo. Nell’alloggio della giovane coppia, in via Martinelli, era avvenuto il primo incontro fra Adriano Spatola e Julien Blaine, foriero di una lunga amicizia e collaborazione.
In una casa di campagna vicino a Parma, a San Donato di San Prospero, dove Adriano e Anna si erano sistemati temporaneamente con il neonato, progettammo nell’agosto del 1966 l’antologia GEIGER. La relazione di Adriano con Giulia Niccolai, iniziata a Roma nel 1968, si esaurì nell’autunno 1979. Nel 1981 mio fratello conobbe Biancamaria Bonazzi, di vent’ anni più giovane, che fu sua compagna fino alla morte, avvenuta il 23 novembre 1988: pochi mesi prima, in giugno, la coppia si era unita in matrimonio.up
23 Su questo periodo si vedano anche i seguenti miei articoli: Geiger, sperimentazione permanente (inIl Verri” n. 25, Milano 2005); Il gioco della poesia (inAvanguardia” n. 30, Edizione Pagine, Roma 2006); Il “Tam Tam” dei poeti del Mulino (inZetan. 86/87, edizione Campanotto, Udine 2009).up
24 Autore di due saggi fondamentali, alla luce degli avvenimenti di quel periodo: Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione entrambi pubblicati in Italia da Einaudi. In Marcuse era evidente l’influenza di filosofi importanti nella formazione intellettuale di Adriano, quali Heidegger e Husserl (vedi in proposito l’intervista con Peter Carravetta, pubblicata su “Invisibile City” n. 23/25, Los Angeles, 1979), ma anche dei contemporanei Adorno e Horkheimer, tutti provenienti dalla Scuola di Francoforte e critici nei confronti dei valori-cardine della civiltà occidentale, liberismo e consumismo.up
25 Pubblicata nell’ottobre 1971 dalle Edizioni Geiger nella collana Poesia, caratterizzata dallo stesso piccolo formato (cm 10,5 x 15,5) che avrebbe contraddistinto “Tam Tam”. La composizione del testo diede poi il titolo alla raccolta pubblicata a Roma dalla Cooperativa Scrittori nel 1978, iniziando la serie significativamente dedicata allo stretto rapporto dell’ autore con la tipografia (ambiente, materiali, tecniche): seguirono infatti La piegatura del foglio, Impaginazioni e La definizione del prezzo, quest’ultima postuma. Il primo verso di ogni strofa de La prossima malattia (“Considera prima di tutto la posizione delle cose”) ha dato lo spunto per il titolo della citata edizione americana delle poesie di Adriano, The Position of Things (2008).up
26 Registrai io stesso la testata presso il Tribunale di Torino il 22 marzo 1971, come “periodico di poesia” delle Edizioni Geiger: i direttori editoriali Adriano Spatola e Giulia Niccolai furono affiancati nel tempo da vari collaboratori; direttore responsabile era Valerio Miroglio, poeta, scultore e giornalista astigiano; il primo numero uscì un anno dopo dalla redazione installata nella grande cucina di Mulino di Bazzano, dopo un lungo dibattito interno sull’ impostazione e persino sul formato, assolutamente tascabile. In sedici anni ne uscirono 56 numeri (parecchi dei quali raggruppati in fascicoli doppi, tripli e anche quadrupli): la prima serie arrivò al n. 24, pubblicato nel ’79; la seconda, di formato più grande uscì a partire dal 1981, con i libri delle Edizioni Geiger trasformati in supplementi della rivista. L’ultimo fascicolo il 53/56 venne stampato a cura della vedova dopo la morte di Adriano, che aveva fatto in tempo a terminarne l’ impaginazione.up
27 Sull’avventura di “Baobab” e l’attività di Adriano come poeta sonoro e gestuale si veda l’ampio intervento di Giovanni Fontana in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia Romagna 1968-2007 Clueb, Bologna 2007. Sulla poesia sonora in generale si può consultare il ponderoso saggio dello stesso Fontana La voce in movimento Harta Performing & Momo, Monza 2003, oppure ascoltare l’antologia Futura a cura di Arrigo Lora Totino, che raccoglie in 5 CD registrazioni audio dai futuristi italiani e russi fino ai poeti sonori di Baobab, passando per gli autori lettristi francesi (pubblicata dalla Cramps Records e praticamente introvabile). Si veda anche il libro di Enzo Minarelli La voce della poesia, Campanotto, Udine 2008up
28 Gli altri interventi erano di: Gilberto Finzi, Gio Ferri, Milli Graffi, Alberto Cappi, Niva Lorenzini, Vincenzo Accame, Sandro Sproccati, Pasquale Verdicchio, Pier Luigi Ferro, Spartaco Gamberini, Charles Matz, Giovanni Fontana, Franco Cavalloup
29 Buona parte di loro sono già citati nel testo o in nota, ma ve ne sono altri che vorrei aggiungere qui, scusandomi se dimentico qualcuno: nel 1989 la rivista francese Doc(k)s, diretta da Julien Blaine, gli ha dedicato un intero numero, con omaggi poetici di numerosi artisti internazionali; la rivista napoletana “Risvolti”, diretta da Giorgio Moio, ha dedicato ad Adriano il n. 3 del 1999, con interventi di Pier Luigi Ferro, Pasquale Della Ragione, Giulia Niccolai, Gian Paolo Roffi; nel 2005 la rivista romana “Avanguardia” gli ha dedicato quasi interamente i numeri 29 e 30, a cura di Aldo Mastropasqua, pubblicando testi critici testimonianze e omaggi raccolti 15 anni prima da Giovanni Fontana per un numero monografico de “La Taverna di Auerbach” rimasto inedito; al già citato n. 34 di Steve (Modena, 2008) hanno collaborato anche: Giacomo Scotti, Elio Grasso, Tomaso Kemeny, Lamberto Pignotti, Mario Moroni, Maurizio Osti, Renzo Margonari, Luigi Fontanella, Paolo Valesio, Alberto Cappi. Nel n.11 di Tracce a cura di Marianna Montaruli e Beniamino Vizzini (Ruvo di Puglia, 2009) appare un ricordo di Renzo Margonari. Renato Barilli gli ha dedicato numerose pagine nel suo saggio La neoavanguardia italiana,(il Mulino, Bologna 1995). Lo stesso hanno fatto Gio Ferri, nel suo La ragione poetica, (Mursia, Milano 1997) Massimo Mori in Il circuito della poesia (Piero Manni, Lecce 1997) e Lucio Vetri in Letteratura e caos, (Mursia, Milano 1992).up
30 Il fascicolo comprendeva: intervento di Gianfranco Baruchello, Sulla posizione dell’isola di Tristan e il domicilio del sergente Loess; testimonianze di: Luciano Anceschi, Per Adriano; Giulia Niccolai, Una testimonianza; Antonio Porta, Dalla minaccia del silenzio; composizioni per Adriano di: Nanni Balestrini, Luigi Ballerini, Franco Beltrametti, Gerald Bisinger, Julien Blaine, Bernard Heidsieck, Tom Raworth, Edoardo Sanguineti, Toti Scialoja, Paul Vangelisti, William Xerra; saggi di: Guido Guglielmi, Il foglio piegato di Spatola; Aldo Tagliaferri, Intorno a un’idea di totalità; Renato Barilli, Un operaio della poesia; Niva Lorenzini, Adriano e la luna; Gio Ferri, Adriano Spatola e le figure grafico-retoriche della poesia; Milli Graffi, L’oggetto totale nella poesia di Adriano Spatola; Vincenzo Accame, Gli zeroglifici di Spatola come modello di poesia concreta.up