Contrasto/identificazione*

Come funziona Il giardiniere di Antonio Porta


La poesia, malgrado certe opinioni, è una cosa molto concreta. Conviene trattare con questo criterio anche Il giardiniere contro il becchino di Antonio Porta (Mondadori) – che è appunto un oggetto di poesia (come si direbbe: un oggetto di legno...).

Si può prenderlo nella sua fisicità di libro: un parallelepipedo di cartone e carta, con una densità, un peso. Esso presenta una superficie in certo modo privilegiata, la copertina dove s’inscrive il titolo, prima linea del testo. Il titolo di un libro appartiene alla categoria dei nomi propri: è una sigla che contiene, in fondo, l’essenza, il destino – del libro come dell’essere umano.

Che tale destino si manifesti, per chi sappia leggerlo, in superficie e non nel profondo, non è nemmeno un piccolo paradosso, una volta accettato che “la profondeur, c’est à la surface qu’elle se voit”.

Il titolo del volume di Porta dice molto più della sua letteralità. Vi gioca il contrasto fra due figure, nello stesso tempo simboliche e concrete, il becchino e il giardiniere. Ma si sa che “contrasto” designa poi una forma letteraria poetica dialogata, familiare alla letteratura mediolatina e a quelle romanze, almeno fino al Quattrocento.

Difatti si dà qui un contrasto forte – ma insieme una riconciliazione finale – che fa da supporto e motivazione all’intero libro, e trova la sua realizzazione esemplare nel poemetto iniziale che ricalca, con minima amplificazione (“La lotta e la vittoria ...“) il titolo del volume.

Continuo a lavorare su questo titolo, andando a ripescare in un romanzo famoso, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, un’epigrafe ideale però emigrata significativamente in coda: “Le gusta este jardìn que es suyo? Evite que sus hijos lo destruyan!” – microtesto che non piomba qui con la gratuità di un lapillo celeste. Si tratta dunque non solo di esaltare la bellezza e la forza vitale del giardino, ma anche di contemplarne, con lo stesso gesto, la peribilità, il rischio di distruzione ad opera delle generazioni future (l’autodistruzione, nucleare e no, è l’ombra che si proietta attraverso tutto il libro, non appena nel poemetto liminare: “come se la bomba fosse scoppiata / un minuto fa, per miracolo / un vivo con le mani premute sulle orecchie / grida per comunicarlo ai passanti assassinati”).

 

Che cosa è il giardino? Principio di rinnovamento continuo, di là da ogni decadenza e morte – legato etimologicamente all’idea di “paradiso”, dunque di paradiso terrestre, Eden e, nella sfilata delle associazioni, di “delizia”. Il giardiniere è l’eponimo della delizia, il suo coltivatore, primo membro della coppia oppositiva giardiniere vs becchino, trascrizione di quella, ovvia, persistenza/distruzione, che ricopre la dualità primaria libido/pulsione di morte.

Non è a caso che la poesia di Porta mette in atto, in scena, questi livelli. Senza retrocedere troppo nei libri anteriori, penso intanto a Melusina (1987), “ballata” secondo etichetta ufficiale ma piuttosto, direi, “favola pulsionale”.

Se si comincia a leggere il poemetto d’apertura, si assiste a un movimento di scambio dei significanti e dei valori. Naturalmente giardino fa da pivot, convertendosi, secondo necessità, in paradiso e museo:così il segno verbale della immortalità e della delizia si sdoppia in quello di “archivio della morte”: addirittura una freccia indica, testualmente, Mathausen.

Tuttavia, perfino gli “archivi di morte”, le “fosse comuni” di Mathausen si animano di minimi trasalimenti vitali:

ora brulicano di feti perduti
formicolano di nascite
di spinte nel buio
piccole talpe si fanno luce
tra ventri e mammelle
occhi rovesciati labbra socchiuse
piedi e dita abbandonati,
bucano mille altri principi
non chiedermi perché.

Fra “non chiedermi perché” e un altro ben noto enunciato portiano “quanto ho da dirvi”, è intercorso un lungo giro, ma non c’è opposizione. Nel mezzo del poemetto l’epifania del mimo che crea ex nihilo con il semplice gesto della mano la bicicletta (inesistente), installa un’immagine forte dell’atto poetico, atto di creazione per eccellenza – esser-lì di ciò che esiste, vive al di là, anzi per effetto, di ogni precedente negazione .

Sono direzioni di senso abbastanza facilmente reperibili nella discorsività esplicita del testo, i cui organizzatori essenziali lavorano dentro la lettera. “Miracolo” e “sacro” sono due di questi mots-genèse, per imprestare il termine a Roussel, che non a caso compaiono proprio nei primi versi, uncinati reciprocamente dalla sequenza anagrammatica raco/acro (miRACOlo / sACRO), che dirama attraverso tutto il poemetto, a inanellarne i nodi concettuali e figurali: /pARCO/ /CORsA/ /giOCARe/; senza contare gli incrementi della sequenza in /tumuLO CARbonizzato/, che recupera cinque lettere, e l’occorrenza-limite, dove si può tollerare una sostituzione c-g, di /fOLGORAto/…

Sono appena alcuni reperti, che confortano il valore generativo che ho creduto di attribuire a “miracolo” e “sacro”.

Sull’incidenza del primo termine in un certo sviluppo della poesia di Porta, mettiamo da Passi passaggi a Invasioni, tornerò a chiusura di nota. Quanto a “sacro”, basterà intanto ricordare l’ambivalenza originaria di “sacer”: consacrato agli dei e carico di colpa incancellabile, degno di venerazione e pervaso di orrore – insomma, totem e tabù. Procedendo per contiguità, mi sentirei perfino di versare al dossier ermeneutico alcune pagine di Benveniste, dal Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, almeno là dove, nel confronto fra “sanctum” e “sacrum”, propongono l’immagine del “sanctum” come qualcosa che si trova alla periferia del “sacrum”, che serve ad isolarlo da ogni contatto.

Figura che si è tentati di trasferire al modo di operare della poesia in genere – pensandola come quella zona che circonda, isola e insieme notifica l’ombelico del non-dicibile – periferia e centro in continuo interscambio.

La catena anagrammatica che muove da ‘miracolo’-‘sacro’ rileva, come ho detto, gli snodi o i punti critici nella produzione di significato. E se in apertura i due termini sono strettamente connessi con il significante “giardiniere” (altra chiave), il sintagma «tumulo carbonizzato» apre la strofa dove entrano in contatto, attraverso un minimo diaframma (la “vetrata”), il difuori e il didentro, il mucchio di travi e cenere, in qualche modo ancora natura che cova in sé germi di vita, e la stanza del museo, “tomba di se stessa” – per virare subito verso il positivo (“ma il giardiniere tranquillo / comincia a piantare la prima / di 7000 querce in programma ...”). Ma già, con una sorta di coda iperdeterminata (“folgorato”), fa procedere all’apparizione dell’“antico cervo regale” a pezzi sul terreno come il “re dei pastori”, inserzione del mito della fecondazione per smembramento, mito naturale che trapunge il poemetto, ora implicitamente ora esplicitamente.

Così, la figura dell’ “uomo in corsa” (anagramma), poco più avanti, ne allarga i temi con l’innesto fra umano e ferino, che poi riapparirà, in chiusa, nella poesia dell’ “Airone” (“urla come un coyote e stride da falco”).

Un altro scatto del poemetto è marcato dal significante “parco”, cui corrisponde la messa in funzione del principio femminile, che il lettore è destinato a incontrare in più punti del libro:

La montagna tagliata a metà
scioglie il suo liquido femminile
delira nella cascata, trionfa.
Il giardiniere ammira di lontano,
ricrea l’immagine nel parco
la ripete e alimenta
mille specchi, laghi in miniatura.

L’orchestrazione del pezzo arriva al suo climax, e si corona nel trionfo (o si dica più semplicemente: nell’affermazione) del principio di vita, segnato dall’occorrenza dell’ultimo anagramma (“giocare”) – dove il sintagma “per farci / giocare i cuccioli” congiunge ludus e rinnovamento biologico.

Ho indugiato su questo poemetto, ma credo non a torto: vi si coglie difatti l’articolazione non solo formale ma direi ideologica dell’intero libro, che apre al lavoro di Porta una evoluzione suggestiva proprio perché ancora non completamente prevedibile nelle sue linee.

Fin qui è stato usato con una certa genericità nomenclatoria il cartiglio “poemetto”. Di poemetti, il libro ne contiene quattro, integrati da due “poemi per teatro”, secondo la dizione scelta da Porta. Lasciando impregiudicate le questioni che apre il ritorno al poemetto in questi ultimi anni in quanto
segno di un prevalere della tendenza narrativa in poesia (altra etichetta tutta da definire), intendo piuttosto sottolineare ciò che mi pare caratteristico del ricorso a tale forma da parte di Porta. Qui parlerei di una intenzione continua di comunicazione, che peraltro non esclude il salto logico, la giustapposizione abrupta, lo scarto: anzi, proprio da tali procedimenti, moderatamente stocastici, deriva un conforto o un’assicurazione al proprio durare.

Vi appare – tratto distintivo – una forte intenzione illocutoria per cui la parola agisce verso qualcuno o qualcosa (e quand’anche si osservasse che ciò è predicabile di qualsiasi poesia, si dovrebbe ammettere la energica deliberazione dell’atteggiamento nelle pagine del Giardiniere contro il becchi-
no)
. Si costituisce in tal modo una struttura solida, compatta, un po’ come l’esoscheletro di certi animali, che sovrasta, avvolge e finalmente dirige significanti e significati.

Un effetto è il prevalere, proprio anche grammaticalmente, della forma dell’apostrofe – che il lettore reperisce privilegiatamente nel poemetto conclusivo “Airone”, quale forma duplice di distinzione e di fusione fra poeta e uccello.
Del resto, tanto “Airone” quanto “Salomé” sono testi di identificazione, anzi di assorbimento, di cannibalismo arriverei a dire: motivo niente affatto nuovo in Porta (si vada a leggere in Invasioni), connesso a quello dell’uovo, della gestazione, del parto: “verso un passaggio strettissimo / (il sesso di una strelizia?) / che mi succhia, mi digerisce / poi mi partorisce / in una forma che non conosco ancora / e già anticipo nel desiderio”).

Ecco dunque già qualche punto per mettere a fuoco il libro: continuità comunicatoria di fondo; illocutorietà, giacché il discorso sul contrasto libido/pulsione di morte si dirige a qualcuno, è altro che un lamento o certificazione desolata di sé a sé; incrocio fra lirismo e drammaticità; libertà crescente acquistata nella frantumazione/ricomposizione del testo.

Il nuovo della poesia di Porta si può anche dedurlo, spostando il punto d’attacco dell’esame, dai modi delle produzioni di senso. Apro, proprio a caso, I rapporti (1966), leggo l’inizio di una composizione che mi è sempre piaciuta:

La caccia alla balena ha inizio
sul mare innestato di vele
che l’incavo di vento carica di mare.
Stiamo vigili al comando, i ghiacci
mandano bagliori circondando la rotta.
Scoppia la bufera e la nave capriola
la vista indebolisce, la gola
si torce, rigagnoli scendono sulle gambe
la schiena del cetaceo splende
all’improvviso, incalziamo con gli arpioni
e primi si bucano i seni, seconde
le cosce lucide e rovescia
il ventre, le braccia
allunga all’indietro: «Issiamola
a bordo, divoriamo!»

Condensando rozzamente, direi che qui – come in generale in tutta la poesia portiana anteriore a Passi passaggi – il senso si presenta come un affetto distaccato dalla rappresentazione verbale dietro la superficie, di rigorosa chiarezza impenetrabile, della lettera – basti notare l’irrelatezza, epperò significativa appunto, del “divoriamo!”; che non dispone neppure di oggetto (peraltro un anticipo di quel tema di introiezione, che è pure tipico di Porta, come si è già detto).


Ma se il lettore si sposti sui testi più recenti (in particolare su Il Giardiniere contro il becchino) non può a meno di constatare che il senso (o l’affetto, in valenza psicoanalitica) ha subito una trasformazione e, se si preferisce, s’inscrive in un rapporto diverso. Quella specie d’intervallo cui accennavo, simile allo spazio minimo che cade fra l’immagine nello specchio e la superficie speculare, è venuto meno: il senso è adesso un’energia che aderisce in ogni punto alla scrittura, la percorre come una corrente inseparabile dal reticolo che la produce; non può più disperdersi per ricoagularsi in un luogo altro.

Tutto questo accade senza che l’energia legata (o affetto o significato) si risolva in mera comunicazione discorsiva, in forme di esplicitazione diretta.
“Anatra zoppa a Pechino” si presenta come una relazione di viaggio – dunque una “comunicazione” per eccellenza? Il suo vero nocciolo si condensa intorno a un’idea di “felicità”, interrogata, guardata da fuori. “ Infine mi chiedono tutti: è stato / bello? Non so, veramente, che cosa rispondere, anatra zoppa / turista balbettante come molti ...”. L’ “anatra zoppa” fa nodo come identificazione non tanto dello scrivente quanto della poesia – del suo décalage, scarto inseparabile dall’atto stesso di venire avanti. La poesia di Porta o la poesia in generale? in ogni caso tale claudicazione – che manchi l’ultimo piede d’appoggio, insomma – ne garantisce l’autenticità.

“Airone”, il poemetto di chiusa del libro, fornisce anche il clic proverbiale. Si può iniziare dalla lettura della funzione di questa persona – non meno persona del famigerato corvo di Poe: che subito richiamerebbe un’aria di famiglia, d’animali-stemmi, anzi, per la precisione, uccelli, connessi a una doppia figura di liberazione e d’inibizione, prototipo celeberrimo il Cigne mallarmeano dalle piume sequestrate nel ghiaccio; cui fanno corteo, nella memoria, gli albatros di Baudelaire e di Coleridge.
Importa però rilevare subito che l’airone non risulta affattoprovenire dalla pur gloriosa attrezzeria simbolista: ne rintraccerei piuttosto qualche traccia nelle pagine del Ramo d’oro di Frazer, e dunque secondo una dimensione d’antropologia culturale.

È come figura o momento decisamente materiale, anzi fisiologico, che l’airone si mette in rapporto con l’autore, nel corso del poemetto – figura perfino sessuale, nel senso di raccogliere qualcosa che ha a che fare con il coito, la generazione, come in questa apparizione:

Ho scoperto, airone, ti ho denudato
i tuoi occhi glauchi
(erano rosso brace)
ho incrinato il cristallo opalescente
dei tuoi occhi e stai lì nudo
verminoso con una cintura rossa
a ridere con un becco verde
la lingua gialla di traverso
no, tu non sei un dio
pennuto senza più penne
con un sesso implume pendulo bargiglio
cul di gallina senza più ovetti
sei questo, ora, odioso airone …

dove l’insegna del sesso, degradata e ironizzata, costituisce il passaggio e se si vuole il tratto d’identificazione fra l’animale (segno) e l’uomo (autore).

Come l’uomo ha frugato nel sesso dell’airone, così sarà l’uccello, nel finale della poesia, a penetrargli con il becco nel ventre, per trovarvi “umida sabbia / e piccole uova di rettile ...”: invasione reciproca che conferma un tema fondamentale di Porta.

Ma airone è essenzialmente nome: in quel nome, assunto in proprio, indossato come l’albatros che pende dal collo dell’Ancient Mariner, il poeta vede sorgere il significante dell’Altro.

Con l’enunciato “Ti saluto, ti canto airone ... / canto la mia liberazione”, non si chiude un processo, s’inaugura piuttosto un movimento ciclico, insieme biologico e mentale, che è appunto quello che in varia forma anima tutto il libro: per cui lo smembramento si risarcisce nell’integrità, il gelo nella primavera delle gemme, la tomba nell’uovo fecondato – ciò che possiamo anche chiamare, riprendendo uno dei mots-genèse indicati, miracolo, sia pure in una dimensione tutta laica.

Dalla figura di genitalità connessa all’airone, un canale o traccia conduce a un altro nodo della poesia di Porta, che dirò speditivamente, e certo rozzamente, il femminile, il materno.

Se ne moltiplicano i segnali nelle due sequenze che chiudono il poemetto – e il libro: le acque, che nascondono “la placenta che tutto contiene” e conserva “gli invisibili geni per la madre e la madre / risucchia tutto e tutto restituisce” (il verbo risucchiare è comparso già poco più in su nel testo, in sequenza con digerire e partorire, a significare l’operazione quasi continua e anch’essa ciclica, di introiezione, assorbimento, nascita) – l’enunciato “e non vi è traccia di maschio sulla terra”. Tramite la grammatica (“lingua”, “penna”: “la mia penna si mette a scrivere da sola”), il femminile connette alla fine, e identifica, l’atto di vita e l’atto scrittorio, natura e simbolo (“il poema finisce in punta di lingua”).

Passando oltre il principio paterno, dominante in tutto un suo periodo precedente – principio che distingue, seleziona, cataloga, stabilizza e s’informa prevalentemente al doppio ordine dell’astrazione e della metafora – la poesia di Porta sembra inscriversi oggi nel principio materno: indistinzione, movimento continuo, conciliazione, visceralità, metonimia.

Non dico che riproponga un nuovo contrasto, perché piuttosto dà segno di aprirsi a una fase di opzioni ancora fluide epperò più seducenti. Vedo il Porta attuale come messo di fronte a un grande spazio da riempire, o meglio a un mare in cui non resta che buttarsi e nuotare, seguendo un’attenzione «rivolta a tutte le parti». Non per questo Il giardiniere contro il becchino manca di essere un risultato: credo che il migliore elogio da rendere a un poeta sia riconoscere che lavora per diventare il poeta che è.

 

* (Estratto dalla rivista “Autografo”, n. 17/1989). torna su