Due romanzi di Paolo Di Stefano

I

Quale “storia” ossia vicenda umana presentata in questo libro (Baci da non ripetere, Feltrinelli 1994)?* È la devastazione portata nell’esistenza di una giovane coppia dalla morte per leucemia del figlio di cinque anni. Ma ciò che vorrei analizzare è come questa vicenda, questa storia, apparentemente semplice, venga raccontata dal testo: quali motivi, quali correnti e controcorrenti la percorrano, s’incrocino, si richiamino, alla fine determinando appunto ciò che chiamiamo testo. Non si tratterà di andare molto nel profondo. Queste vene, appunto come le vene di una mano, s’intravedono anche in trasparenza. Alla fine, potremo anche convincerci che è qui, quasi in superficie, il senso profondo del libro di Di Stefano.

 

La prima linea di movimento va dall’alto verso il basso, all’ingiù, pressappoco, se l’immaginiamo proiettato su un foglio. Rappresenta il viaggio in auto che il padre, innominato (per comodità referenziale lo chiamerò Nemo), compie in macchina da una città straniera del Nord verso il paese nativo, in Sicilia, portando seco la bara del figlioletto, da inumare nel cimitero siciliano.

Si può anche dire che sia questa la vera dorsale simbolica del libro: un ritorno al punto d’origine, con l’insopportabile e dolcissimo gravame di un pegno di morte (il bambino, nell’economia ultima del romanzo, credo che assuma proprio il valore del pegno per due vite altrimenti “non vissute”).

Durante questo viaggio in auto, il narratore, ossia Nemo, che come si vedrà è poi un narratore parziale, parla con il figlio morto, canta con lui le canzoni predilette dal piccolo, ricorda. Il viaggio avviene dunque nella realtà, nella dimensione dello spazio: ma ha anche un significato più forte a livello del simbolo. Lo possiamo indicare con una formula tecnica dell’analisi: non solo raffigura, ma è in atto, una elaborazione del lutto. Freud dà una definizione di questo processo, attraverso il quale il soggetto, lacerato dalla perdita dell’oggetto amato, evoca individualmente “tutti i ricordi e le aspettative in cui la libido era legata all’oggetto”… che così “subiscono un’ipercarica, perché si compie il distacco della libido rispetto ad esso (oggetto)…”.

 

Su questo punto che è capitale per la mia piccola relazione, dovrò ritornare.

Ora mi preme di dire che parallelo a questo movimento “all’ingiù” (reale) c’è, come ho detto, un movimento all’insù, se così si possa dire, che si sforza di ricostruire la storia che si è conclusa con la perdita, risalendo su su alle origini: ai giorni in cui i genitori s’incontrarono, ai momenti diversi del loro amore, alla nascita del figlio, alla sua malattia etc. Tale percorso o movimento à rebours è ovviamente un percorso che non avviene più nello spazio, un percorso memoriale.

Come tale, nel libro, non ha un tracciato rettilineo, anzi si spezzetta in segmenti, cui corrispondono paragrafi o capitoletti più o meno lunghi. Non solo: ma se ne infischia dell’ordine cronologico, facendo ora avanzare ora retrocedere il lettore nel tempo, sovrapponendo o invertendo gli episodi.

Questo processo è macroscopicamente evidenziato dal fatto che il racconto inizia dalla fine: Nemo è a letto, ormai prossimo alla morte, ormai solo capace di pensare; e al suo fianco la moglie, che lo aveva abbandonato poco dopo la morte del figlio, sfoglia, con “un mormorio docile ma tenace”, le lettere conservate dal marito in un vecchio comò.

Ma appunto, le lettere… Di lettere, scambiate fra il protagonista e la sua famiglia in Sicilia, è lardellata la narrazione, e non senza effetto. Queste lettere assumono lo status di citazione, che passando da un testo a un altro, trasforma (o deforma) il proprio senso d’origine. Sono, se vogliamo, altre voci. Ma del resto anche l’”io” del racconto cambia ogni tanto di supporto: ora va assegnato al marito, ora alla moglie, spesso senza che nulla nel testo avverta dello spostamento. Alla ambiguità cronologica corrispondono dunque, nel racconto, le ambiguità del locutore.

 

Rilevare tali aspetti del libro è importante, io credo. Non si tratta di meri artifici che l’abilità retorica di Di Stefano abbia messo in atto. Le peculiarità che ho elencato: scardinamento della successione temporale, moltiplicazione delle fonti che emettono il racconto etc. significano tanto sul piano psicologico, o metapsicologico, quanto su quello formale.

Trovo molto difficile – e per me è un pregio del libro – separare questi due effetti con il coltello della distinzione. La difficoltà o disperazione del narrante (ma diciamo pure: del lettore) nel rimettere insieme i tasselli di una esperienza di vita, in cui il vedere chiaro e il rifiuto di vedere chiaro sono due forze ugualmente operanti, è omologa a quella che incontra lo stesso processo di elaborazione del lutto. Omologia, non mimesi.
Ma appunto, l’elaborazione del lutto da parte di colui che ho chiamato per comodità Nemo, qui fallisce o, per essere più esatti, non termina mai, neppure nell’ultima pagina. È questo, credo, il significato profondo del libro, e la sua originalità.

Ma che cosa impedisce che il lutto, segno principe di Baci da non ripetere arrivi alla propria consumazione? Sotto il suo tragitto simbolico (il viaggio) c’è un’altra forma a premere, non più simbolica, ma viscerale, miticamente viscerale: riportare il figlio morto nel grembo della tribù, della gens – forza che si esprime nella costruzione della tomba per il piccolo e di una casa, che dovrebbe essere il rifugio della coppia in Sicilia, casa anch’essa mai compiuta.

Se l’elaborazione del lutto doveva condurre a sciogliere via va la stretta della perdita, a farvi ostacolo è, alla fine, l’assolutezza del comando tribale cui non si può disobbedire. È l’ordine emesso dalla propria gente, e fatalmente introiettato, di conservare immutato il dolore della perdita.

A questa legge familiare si debbono le pagine, materiate insieme d’amore, di odio e di rifiuto, che raccontano i soggiorni in Sicilia e mettono in scena le figure della madre e del padre di Nemo, divinità amorose e feroci. C’è un segno che connette le due storie: della perdita dl figlio e del legame infrangibile dell’altro figlio: il sintagma “baci da non ripetere”, deferito una volta al piccolo ma un’altra volta ai cerimoniali familiari del Sud: “Il giro dei parenti ogni anno sempre più vecchi e malati, i baci bagnati da non ripetere, i denti più rari e le gengive bianche…”.

 

In quanto assunta dal personaggio, l’ho detto, l’elaborazione del lutto fallisce; ma non fallisce in quanto assunta da colui che scrive: difatti non è niente altro che il romanzo che abbiamo tra le mani, Baci da non ripetere. Il racconto chiude il circolo, e ridiventa libero dopo tutto il suo carico di dolore e di inibizione. Baci da non ripetere non è un’opera tenera e come si suol dire “commovente” – è un libro aspro, perfino crudo, senza requie. Anche per ciò il lettore deve essergli grato, salutandovi un risultato notevole della stagione letteraria.

 

II

Un uomo ancora giovane, Rizzo, fuggito dal suo paese del Sud a Milano, vi conduce una vita murata nel silenzio e nella monotonia: i lunghi giri per la citta’ in auto, ascoltando le canzoni predilette sul mangianastri; gli spettacoli televisivi, specialmente quelli pornografici, le cui voci l’ inseguono continuamente, ormai senza senso; l’ incontro occasionale con una ragazza, Roberta, che però presto scomparirà . Questa vita esplode una notte nella strage di cinque persone, compiuta a colpi di Kalashnikov. Non c’è nemmeno un vero motivo per il massacro: “È successo e basta”. Tre giorni dopo Rizzo si uccide, infilando la testa in un sacchetto di plastica. Ridurre il nuovo (il secondo) romanzo di Paolo Di Stefano, Azzurro, troppo azzurro (Feltrinelli, 1996)** a un nudo enunciato di cronaca nera metropolitana, sarebbe inescusabilmente ingiusto oltre che deviante. Bisogna che il lettore sappia subito leggerlo nel modo adeguato - partendo dalla distinzione, fatta da Sklovskij e altri formalisti, fra soggetto (o aneddoto e storia) di un romanzo, e trama, ossia la maniera in cui il romanzo lo racconta, ricorrendo ad anticipi, ritardi, inversioni; a tutte le gherminelle della struttura. Non dico nulla di nuovo, solo preciso un criterio di lettura che serve a cogliere i meriti reali di questo libro. Significativa è la gestione del tempo fatta da Di Stefano. Nell’ insieme, Azzurro, troppo azzurro offre una applicazione massiccia dell’ analessi (spostando il termine dal campo della frase a quello della narrazione, come ha suggerito Gerard Genette) per cui un evento cronologicamente anteriore nella vicenda viene raccontato dopo. Così il massacro compiuto da Rizzo è già avvenuto ad apertura di libro, ma l’ autore ne dà’ appena indizi criptici, per narrarlo esplicitamente solo a due terzi del libro. Dentro tale anacronismo di base, si collocano anacronismi minori. L’ andamento lineare del tempo si spezzetta in segmenti che si invertono, si dislocano, si giustappongono: per esempio le fasi della relazione con Roberta, i ricordi d’ infanzia di Rizzo, etc. In questo modo, oltre al ritardo, entra nella polpa del racconto la ripetizione. Il luogo privilegiato di tale ripetizione coatta è lo schermo televisivo, dalla cui luminescenza procedono sempre le stesse figure erotiche, gli stessi inviti osceni e meccanici. “Ripetono sempre tutto”. Anche il racconto si ripete, sdoppiandosi nella storia di Roberta II, la prostituta che Rizzo terrà con sé dopo il delitto, ribattezzandola come la ragazza scomparsa. Il lettore si chiederà: questa complessa ristrutturazione della vicenda era poi necessaria? Non e’ solo un alto virtuosismo dello scrittore? Io penso invece che sia rigorosamente funzionale, e dunque necessaria e faccia di Azzurro, troppo azzurro quel libro rilevante che è. La coerenza in cio’ che ho chiamato la gestione del tempo si proietta sull’ uso dei tempi verbali, che qui sono prevalentemente il presente e il passato prossimo. Il passato remoto, si sa, è la marca per eccellenza del romanzo: “Ciò che racconto è’ stato davvero così , irrevocabilmente”.

Ma il narratore contemporaneo, davanti a tanta certezza, è colto da una specie di capogiro: “Quello che racconto è davvero accaduto, ed è accaduto così ?”. Nei casi più sofisticati, come nel caso di Di Stefano, il dubbio va a insinuarsi nella grammatica: il passato prossimo è la spia di un tremito davanti alle sicurezze narrative istituzionali. La verità è che il nocciolo duro di Azzurro, troppo azzurro è la non - interpretabilita’ del reale. Rizzo, con il suo mutismo, la mania di raccogliere ritagli di casi delittuosi, con la sua strage e il suicidio, non è interpretabile - voglio dire non significa qualcosa come la solitudine cittadina o l’ incubo di violenza epocale, o simili. Di Stefano se l’è trovato fra le mani come refrattario, irriducibile. E ha accumulato nella narrazione i segni di tale impervieta’, insieme con qualche spia di una possibile / impossibile coincidenza interpretativa: saranno i ritmi delle canzoni, il chiacchiericcio della Tv, certi cromatismi?

Fin dalle prime righe il racconto è ritmato da indicazioni temporali precise, cifre che lampeggiano da un orologio elettronico - in tempo reale, come si dice, la storia del romanzo occupa una notte e la mattinata successiva: dalle 22.21 alle 14.05. Ma questo è solo il chronos, tempo “che passa” e non tornerà mai più - tempo falso, o almeno ingannevole, del racconto: cui si contrappone il kairos, ossia il tempo del compimento, il tempo “che ha un senso”. Io penso che con lo scompaginare e il ricomporre le serie temporali, Di Stefano abbia inseguito anche questo scopo: cogliere il kairos della sua storia. Penso pure che un emblema ce ne abbia offerto fin dal principio, in una cosa apparentemente vile e incongrua, il sacchetto di plastica attraverso il quale apparirà il viso morto di Rizzo. Fra i tanti romanzi degli ultimi anni, Azzurro, troppo azzurro spicca per autenticità e forza non comuni – dopo quella prima prova romanzesca del 1994, Baci da non ripetere, già bene accolta. Ma qui, piace dirlo, ci si troverà davanti a una crescita netta dello scrittore Di Stefano.

 

 * (Presentazione di Giuliano Gramigna alla Biblioteca Cantonale di Lugano nel giugno 1994).torna su
** (“Corriere della Sera” Terza pagina, 28/11/1996). torna su