Sulla semiotica

1. Tutto comincia da Giove. Il Giove della semiotica (o semiologia: si toccherà fra un momento anche questa preliminare questione terminologica) è, almeno per chi nutra ciò che Roman Jakobson, linguista principe, chiama “l’egocentrismo dei linguisti”, Ferdinand de Saussure. È nel suo Cours1che si legge la frase forse più citata degli ultimi vent’anni: “Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiameremo semiologia (dal greco semèion “segno”). Essa potrebbe dirci in che consistono i segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora, non possiamo dire che cosa sarà; essa ha tuttavia il diritto ad esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica é solo una parte di questa scienza generale...” Gli anni in cui Saussure parla sono quelli fra il 1906 e il 1911. Circa mezzo secolo dopo, uno studioso – anche di semiotica – geniale come Barthes, riprende la linea di Saussure in qualche modo capovolgendone le conclusioni: constatando che “ogni sistema semiologico ha a che fare con il linguaggio”, conclude che “la semiologia è una parte della linguistica e precisamente quella parte che ha per oggetto le grandi unità significanti del discorso...”.2

Inutile per ora soffermarsi sulle critiche opposte a tale principio di supremazia del linguaggio (Ducrot e Todorov vi leggeranno una sorta
di écrasement della semiologia da parte della linguistica3). Intanto si approfitterà dell’occasione per sistemare la nomenclatura: fra le due denominazioni di “semiologia” e “semiotica”, una di prevalente uso francese, l’altra anglosassone, d’ora in avanti ci si allineerà alla delibera della carta costitutiva dell’Associazione internazionale per gli studi semiotici, che nel 1969 sceglieva il termine “semiotica”. La questione non è forse solo di etichetta, se alcuni studiosi giudicano che le due denominazioni non si ricoprono esattamente: Hjelnslev propone di chiamare “semiologia” una semiotica di livello superiore, la quale parli di una semiotica non scientifica; per Christian Metz, ”le semiotiche starebbero alla semiologia come le singole lingue stanno alla linguistica generale”.4

La semiotica non ha comunque un Giove solo. Jakobson ritiene che il contributo saussuriano alla “scienza dei segni” sia più modesto e ristretto5 di quello attribuibile all’americano Charles Sanders Peirce. Peirce è soprattutto un logico: “Logica, nel suo senso generale, è, come credo di aver dimostrato, solo un altro nome per semiotica: la quasi-necessaria o formale dottrina dei segni”6. Tutta una particolare catena di aperture e sviluppi, d’implicazione logico-filosofica, viene avanti con Peirce e rimanda ad altre fonti: Locke, per esempio, a Lambert, a Bolzano che nello scritto “Lo sviluppo della semiotica”, nel libro citato poco sopra, Jakobson elenca come precursori della semiotica, i primi a proporne l’esigenza se non addirittura il nome. Dove Saussure costruisce secondo un principio binario (significante/significato, langue/parole, diacronia/sincronia, arbitrario/naturale etc). Peirce procede privilegiatamente per triadi, a partire da quella che definisce la semiosi: “Per semiosi intendo un’azione, un’influenza che sia, o coinvolga, una cooperazione di tre soggetti, come per esempio un segno, il suo oggetto e il suo interpretante...”, passando per l’altra ben nota: icona, indice, simbolo, o quella: qualisegno, sinsegno, legisegno etc. Mentre il sistema saussuriano gioca sull’arbitrarietà e sull’opposizione, insomma appare come un sistema stretto, l’edificio peirciano nella sua coerenza e “autoesplicabilità” sfonda in maniera vertiginosa in una sorta di semiosi illimitata, ciascun termine potendosi spiegare solo con un altro, e questo con un terzo, e via via all’infinito.

Non pertiene al discorso qui appena iniziato una vera e propria attraversata della nozione stessa di semiotica e dunque delle sue varie diramazioni, dei contributi innovativi o anche semplicemente integrativi collegabili ai nomi di altri studiosi, da Buyssens a Morris, a Barthes, a Prieto, a Benveniste, a Lotman, a Mukařovský, a Greimas, a Segre, a Eco, tanto per cominciare un elenco. Non gli pertiene, se non per quanto può servire a prendere le misure del tema messo in testa al discorso, che é precisamente la “critica semiotica”, ens amphibium già a cominciare dal sostantivo, non si dice poi dell’attributo. Un’attivazione dell’oggetto di codesta critica, si gioverà almeno di muovere da un terreno sufficientemente solido per quanto riguarda la semiotica, il suo statuto, il suo proprio fine. “La scienza del segno e dei segni” (converrà sottolineare la disgiunzione) “...ha il diritto e il dovere di studiare la struttura di tutti i tipi e i sistemi di segni e di chiarire i loro diversi rapporti gerarchici, la rete delle loro funzioni e le proprietà comuni o divergenti di tutti i sistemi in questione... La semiotica, per il fatto stesso di essere la scienza dei segni, é chiamata a inglobare tutte le varietà del signum”: é il paragrafo conclusivo dell’excursus Jakobsoniano sugli sviluppi della semiotica.

“Diremo dunque che la semiologia è una disciplina che studia tutti i fenomeni di cultura come sistemi di segni”: l’affermazione si trova quasi come esergo allo scritto di Umberto Eco “La critica semiologica”
(si conserva qui la terminologia usata dal testo citato). “Studia sotto tale luce quelli che sono, per definizione unanime, sistemi di segni, come la lingua e le segnaletiche stradali; e quelli che d’abitudine non vengono ritenuti fenomeni segnici, come i sistemi di parentela, l’architettura, la moda, le liturgie, le forme di etichetta. Se la semiologia adotta questo punto di vista è perché assume l’ipotesi che la cultura sia essenzialmente un fatto di comunicazione; e che quindi ogni fenomeno di cultura possa essere studiato dal punto di vista dei processi comunicativi”7. Qualche anno dopo questa pagina, nel suo Trattato di semiotica generale, Eco si protegge – o meglio protegge la semiotica – contro la prevista accusa di “arrogante imperialismo”: se anche la mela è un segno, allora la semiotica s’occupa pure della cotognata – ma che gioco è? meglio: che valore ha il gioco? La mela, la marmellata di mele, le espressioni linguistiche /mela/ e /marmellata di mele/ non fanno differenza, se come è giusto, la semiotica “ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunta come segno. È segno ogni cosa che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d’altro”, indipendentemente dall’esistenza effettiva di questo “qualcosa d’altro”8.

Dichiarare che tutto è segno, ossia che ogni fenomeno costituisce un fatto segnico, non implica che costituisca un fatto linguistico. La lingua é solo uno dei tanti sistemi di segni possibili. Questo immette in un’aporia fondamentale della semiotica. Se essa resta ancora un progetto, come scriveva Saussure, piuttosto che una scienza pienamente costituita, la ragione sta anche in una qualche incertezza dei suoi concetti basilari (si segue qui la traccia della critica mossa da Ducrot e Todorov nel volume già citato). O partire dai segni non-linguistici per determinare anche la parte che il linguaggio ha nella semiotica, con il rischio che essi si prestino male a una determinazione precisa; o partire dal linguaggio per studiare gli altri sistemi segnici, e finire presto o tardi in bocca all’écrasement linguistico, per cui a fenomeni differenti viene imposto il modello linguistico. Due sistemi semiotici di tipo differente, secondo Benveniste, non possono convertirsi reciprocamente; d’altro canto, il linguaggio é il solo sistema semiotico mediante il quale si può parlare di altri sistemi – e del sistema linguistico stesso. Conclusione del duo Ducrot – Todorov: “Una semiotica costruita a partire dal linguaggio (non se ne conoscono altre, per ora) deve rinunciare allo studio del problema centrale di ogni sistema semiotico, quello della significazione: essa si occuperà solo della significazione linguistica”.

Avere prospettato qui, molto rozzamente, questa difficoltà della semiotica, implica la domanda se essa sia poi tale, se sia cioè una difficoltà anche per l’indagine sulla critica semiotica: la quale, nelle pagine che seguono, verrà considerata pressoché esclusivamente nella sua applicazione a prodotti linguistici, per dir meglio: a testi letterari. Ma è proprio il linguaggio che qui comincia a tendere i primi tranelli e a fare mordere la coda al serpente semiotico. La critica semiotica – o magari: qualunque critica – dei testi letterari si applica ad essi? voglio dire: il verbo adibito indica esattamente una funzione strumentale, quando non ancillare, del “far critica”? Si tratta di un’attrezzeria, di un armamentario “do-it-yourself” dedotto dai principi della semiotica quale scienza dei segni; ovvero di una posizione globale di approccio, di una struttura operante di lavoro (impiego qui “lavoro” nell’accezione che ha per esempio in Freud) che si attualizza nel contatto concreto con il singolo testo, insomma di una produttività dentro la quale si evidenzia la produttività del testo? D’Arco Silvio Avalle, riprendendo un enunciato di Contini: “…il produttore, certo, può essere autocritico, auto-cosciente, ma direi che non pianifichi il proprio prodotto. Il critico, che studia il prodotto, lo tratta alla stregua di un oggetto pianificato. Evidentemente é lui a interpolare la pianificazione: la critica si potrebbe anche definire l’interpolazione della pianificazione nel prodotto...”, crede di dovere intendere quel l’interpolazione come un’identificazione e di dover assegnare di conseguenza alla critica “il compito di portare nei casi di consapevolezza implicita la luce di una consapevolezza esplicitata”.9 Alcune righe in cauda a un paragrafo citato più sopra del Trattato di Eco aprono uno spiraglio da cui converrà, più avanti, cavare profitto: “La semiotica, in principio, é la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire... La definizione di ‘teoria della menzogna’ potrebbe rappresentare un programma soddisfacente per una semiotica generale”.10

 

2. Il centro della semiotica – ma dunque anche della critica che ne deduce il proprio attributo – è il prodursi della funzione segnica. Tale funzione implica l’esistenza di un codice: “quando esso associa gli elementi di un sistema veicolante agli elementi di un sistema veicolato, il primo diventa l’espressione del secondo, il quale a sua volta diventa il contenuto del primo. Si ha funzione segnica quando un’espressione é correlata a un contenuto, ed entrambi gli elementi correlati diventano funtivi della correlazione” (Eco, Op. cit. pag. 73). Il processo di comunicazione e il processo di significazione, che discriminerebbero e opporrebbero una semiotica della comunicazione e una della significazione, sono in realtà, sempre secondo Eco, passibili di mediazione. Il passaggio di un segnale fra macchina e macchina configura un processo di informazione (il segnale non ha alcun potere significante); quando esso abbia invece come destinatario un essere umano, e solleciti una risposta interpretativa nel destinatario, eccoci alla presenza di un processo di significazione. La significazione è definita dall’intervento di un codice, che accoppia entità presenti (qualcosa che sta per) ed entità assenti (qualche cosa d’altro), ossia attua la correlazione cui s’é accennato sopra.

Sulle nozioni di codice e di messaggio ossia di trasmissione di un segnale significante, si costituisce la base stessa della semiotica. La quale identifica e organizza codici anche là dove non si credeva che fossero, e studia i meccanismi attraverso cui i messaggi vi si adeguano o se ne discostano11. Tutti i messaggi ipotizzabili o costruibili in rapporto a un dato codice si scalano per dir così fra due estremi: di scarto massimo dalle regole del codice stesso (messaggi “ad alta originalità”) o di conformità totale (messaggi “ad alta ridondanza”), naturalmente con un’ampia variazione di sfumature e adeguazioni intermedie.

La critica semiotica trova qui i suoi punti di azione privilegiati? Essa si attua identificando intorno a un ens singulum (libro, autore) il sistema che per dir così lo costituisce, lo rende percepibile e deducendo da una realtà coalescente tutti i punti di adeguazione, di corrispondenza ad esso come altrettanti elementi pertinenti (in accezione linguistica)?; ovvero privilegia il distacco dalla norma, quanto più esso sia articolato o meno in strutture inattese? È un discorso abbastanza vecchio che rientra, non so se dalla finestra o da qualche altra apertura di fortuna, quello centrato su convenzione vs eccezione.

Stando ai fatti, la tendenza di molti studiosi a investire della loro indagine prodotti letterari di solito a basso coefficiente estetico (qualunque cosa ciò sia: preferirei forse dire: a bassa littératurité) o almeno presunti tali: come il romanzo d’appendice, il romanzo rosa o quello poliziesco, con risultati spesso eccellenti; tale tendenza sembrerebbe indicare il prevalere della prima ipotesi. Le cose non sono in realtà così chiare. Anche le devianze della lingua letteraria di un
certo periodo, rispetto alla lingua della comunicazione corrente, possono costituire un sistema: così gli scarti, le serie di scarti dal codice operati da un autore in una data opera configurano alla loro volta un codice. È questo l’oggetto della critica? Secondo l’ipotesi di Avalle, l’opera si commisura a un contesto-codice che non é né la lingua comune né la lingua letteraria di un’epoca ma “il contesto letterario della lingua di questo determinato autore”. Torna in primo piano l’individuum che, come sosteneva Spitzer, non é affatto ineffabile: avendo cura di notare – e non dico poco – che esso non si identica poi affatto a un “individuo”, a una “personalità” romantica (o mitica), a un certo precipitato psicologico, ma a qualche cosa che, per restare coerenti con il lessico fin qui usato, si dirà “messaggio”.

 

3. Come è fatta, come funziona una poesia o un romanzo o insomma un testo letterario: é questa la risposta alla domanda già avanzata sull’oggetto – ossia sulla natura – della critica semiotica? Risposta la cui apparente genericità bonne à tout faire si smentisce in quello specifico che è il come: organizzazione delle modalità attraverso le quali si produce – non: si éprodotto – il testo. Per imprestare una terminologia famosa, il durcharbeiten del critico coincide con (non è altro che) l’arbeiten continuo del testo stesso. Gli elementi di tali modalità debbono presentarsi come significativi o per meglio dire pertinenti, sfuggiti al rischio sempre presente della casualità. La critica semiotica allora é una critica che ipotizza fortemente il fortuito come reale? non nel senso, beninteso, di attribuire a un tratto o a una serie di tratti qualità che non posseggono, ma nel senso di portare alla luce, in una rete di relazioni dei singoli segni fra loro e con il macrosegno che é il testo, quella necessità funzionale che altrimenti resterebbe occultata.

Naturalmente, neppure questa necessità può elevarsi a feticcio. La dose di casualità di un testo fa parte per dir così della sua necessità; e la tuche, la fortuna, è insieme fors e sors, caso e destino. Tale gioco si illumina particolarmente nel parallelismo che Jakobson12 indica come tratto caratteristico dell’artificio, “rimando di un fatto semiotico a un fatto equivalente all’interno del medesimo contesto”. L’appartenenza “infallibile” di due parallele allo stesso contesto permette di completare, dice sempre Jakobson, ”il sistema di tempi di cui Peirce nutrì la sua triade semiotica”: se l’icona ha un essere che
appartiene all’esperienza passata, l’indice l’essere di una esperienza presente, se l’essere di un simbolo é essere in futuro, l’interconnessione delle due parallele è intemporale.

Lo spostamento prodottosi negli studi più recenti, a detta di Ducrot – Todorov13, introduce un rapporto che stringerebbe più da vicino l’oggetto della critica semiotica: il rapporto di simbolizzazione: relazione “seconda” intercorrente fra entità omogenee in modo non arbitrario (come per il segno, teste Saussure) ma motivato – e dunque per ciò stesso rivelatrice dei meccanismi che agiscono dentro una società. L’identificazione o meglio esplicitazione di questo “essere motivato”, sarebbe il punto cruciale e distintivo della critica semiotica.

L’ingresso del dato della simbolizzazione credo che costituisca, in ogni modo, un piccolo passo avanti; ci si ritornerà, trattando del lavoro della Kristeva e delle sue impostazioni. Eco, nello scritto sui metodi della critica14, ha proceduto a uno sgombero del terreno per spiazzamenti successivi, fino a proporre la domanda retorica: dunque non esiste critica strutturale come non esiste critica semiotica. Se proprio del metodo strutturalistico sia di determinare il meccanismo, il codice che regge i vari livelli dell’opera, da quello fonetico a quello lessicale e grammaticale, a quello dei concetti e degli artifici stilistici etc.; e dunque arrivare alla legge costante e omogenea secondo cui l’opera inventa a tutti i suoi livelli, che si potrà chiamare l’idioletto estetico “caratteristico di ogni singola opera”; se le cose vanno così, che cosa resta alla semiotica?

Uno scritto debitamente famoso di Jan Mukařovský, membro fra i maggiori del circolo linguistico di Praga, che congiunge nel titolo arte e semiologia (“L’arte come fatto semiologico”)15, suggerisce connessioni significative. L’opera d’arte è nello stesso tempo “segno, valore, struttura”: e se la definizione di “segno” rimanda a concetti già illustrati (“una realtà sensibile la cui funzione é di rievocare un’altra realtà cui si riferisce”), proprio nello specificare quale sia la realtà a cui si riferisce l’opera d’arte, Mukařovský propone il concetto di “contesto complessivo dei fenomeni detti sociali”. I due poli saussuriani del significante e del significato si traducono nei poli corrispondenti dell’opera-cosa, simbolo esteriore, e dell’“oggetto estetico” (il significato) “dato da ciò che hanno in comune gli stati di coscienza soggettivi stimolati nei membri di un dato collettivo dall’opera-cosa”. Il rapporto semiotico fra opera d’arte e società/storia è nettamente enunciato.

Condensando: per Mukařovský, l’opera d’arte ha carattere di segno: non può identificarsi né con lo stato di coscienza individuale del suo autore o di uno qualsiasi dei fruitori, né con l’opera-cosa: essa esiste come “oggetto estetico” posto nella coscienza di tutta la collettività; ogni opera è un segno autonomo, che, nelle arti tematiche, ha una seconda funzione semiotica, quella significativa; ciò che distingue l’opera d’arte dai puri segni comunicativi è che il suo rapporto con la cosa significata non ha valore esistenziale, il che vuol dire che non si può porre per il soggetto dell’opera d’arte l’esigenza di autenticità documentaria. È abbastanza evidente che la posizione di Mukařovský ha parecchi punti di contatto con quella, poniamo, di Ju. M. Lotman, e manda riflessi anche negli atteggiamenti articolati di critici e studiosi italiani come Cesare Segre e Maria Corti.

 

4. Questa virata su Mukařovský aggiunge qualche elemento per riacciuffare i montoni della impossibilità della critica semiotica. Non basterà dire che c’è, allineando nomi e opere, particolarmente fitti in questi ultimi anni. Si è accennato, poco sopra, ai vari livelli che la lettura critica può via via isolare nell’opera d’arte (nel caso specifico: in un testo verbale), livelli suscettibili di gerarchizzazione e comunque di connessione e interazione: linguistico, stilistico, simbolico, sociologico, psicologico etc. Solo per approssimazione espressiva ho detto che questi livelli vengono “isolati”: proprio all’opposto, si tratta di attivarli contemporaneamente. La semiotica sarebbe “quel tipo di approccio ai fatti comunicativi che ci ha permesso di individuare il messaggio ai suoi diversi livelli, di individuare per ciascun livello un discorso proprio, e per tutti un metodo unitario onde collegarli fra loro” (Eco). Essa si qualificherebbe come chiamata in causa di differenti tecniche critiche, queste sì specifiche (linguistiche, stilistiche etc), come definizione anteriore, astratta di una loro area di articolazione; come luogo vuoto, possibile in cui bisogna che le critiche – le altre critiche riconosciute – avvengano.

Fra una teoria semiotica che determina i modi dell’accadere dei segni e questo luogo vuoto, sembra mancare la possibilità di una semiotica che si faccia essa stessa strumento critico diretto “senza restare ancorata alla pura descrizione di codici generali che stanno prima del messaggio”. Filando ancora per un momento il filo somministrato da Eco, alla “coscienza semiotica’’- è significativa la sostituzione del termine coscienza a quello convenzionale di critica – perterrà non tanto individuare una tecnica nuova quanto, grazie alla sua totalità di visione, dei livelli che siano finora sfuggiti all’indagine critica.

Qui, accanto alla ipotizzata (e attuata) codificazione di valori ritmico-musicali, di tratti soprasegmentali e così via, l’esempio più flagrante è dato dal reperimento e descrizione dei codici della narratività ossia dei processi che organizzano gli avvenimenti narrativi. La semiotica del racconto o narratologia, partita in Russia con gli studi di Propp sulle fiabe, si è ritagliata uno spazio sempre crescente e stimolante con i lavori di Barthes e Greimas, di Genette e Bremond, in Italia di Segre, Maria Corti, Valesio, Fabbri, Avalle, Agosti, Aldo Rossi, Eco e altri, sino a comparire quasi punta di diamante della critica semiotica, con modi e istituti particolari. Il saggio di Eco, in coda, propone coerentemente di ribattezzare la critica semiotica né più né meno che “semiotica come critica della cultura”.

Poche pagine più in là16 Cesare Segre, nel ricapitolare il volume citato, apre un passaggio suggerendo che la semiotica contribuisca a descrivere, oltre che i rapporti fra opera e codice, il procedimento dell’invenzione poetica. “In questo procedimento sono individuabili due punti estremi, di partenza e di arrivo. In partenza ci sono delle intuizioni, delle ossessioni, dei fantasmi ancora sfuggenti; all’arrivo c’è l’opera nella sua definitiva struttura di parole, frasi, sequenze, capitoli, canti. Ora la semiologia, se non mi illude la novità di questa prospettiva, potrebbe appunto seguire il concretarsi delle intuizioni, delle ossessioni, dei fantasmi sopra accennati in segni. E segni sono sia le grandi linee dei temi, sia le articolazioni del cosiddetto mondo poetico, sia, a un livello di maggior specificazione, i simboli e le metafore che trapuntano il procedere del narrato o del diagramma lirico, sia infine le parole stesse, con la loro pregnanza di semanticità e di potenzialità suggestiva”. L’oggetto della ricerca é “il sistema dei sistemi”; vi si unificano i diversi metodi indagativi come “momenti diversi e successivi della semiosi operata dallo scrittore”.

Il discorso si sospende qui per un momento. Penso che si potrà riprenderlo, più avanti, puntando sul ”processo di simbolizzazione”, sul passaggio dal valore di significazione a quello di significanza; e ipotizzando sul modello della pulsione scopica, orale eccetera, una pulsione semiotica, munita di una sua tecnicità.

 

5. Una sosta sul nome di Roland Barthes, oltre che omaggio doveroso al talento di un saggista, è un’esemplificazione degli spostamenti e delle trasformazioni che avvengono all’interno stesso dell’idea di semiotica. Per questo si può capovolgere il processo normale e cominciare dal fondo, dalla Leçon che Barthes tenne nel gennaio del ’77 al Collège de France, dove veniva intronato alla cattedra di semiologia letteraria (nelle citazioni si rispetterà l’uso dell’autore del termine “semiologia”). Barthes vi compendia le proprie vicissitudini di studioso: “La semiologia, per quanto mi riguarda, ha preso le mosse da un movimento sostanzialmente passionale: intorno al ’54 mi pareva che una scienza dei segni potesse attivare la critica sociale, e che Sartre, Brecht e Saussure potessero confluire in questo progetto; si trattava insomma di comprendere (o descrivere) come una società produca degli stereotipi, ossia un massimo d’artificio, che poi consuma come sensi innati, vale a dire un massimo di natura. La semiologia (almeno, la mia semiologia) é nata dall’ intolleranza per questa fusione fra malafede e buona coscienza, che caratterizza la morale generale, e che Brecht ha chiamato, prendendola di mira, l’Uso Comune...”.17 Possiamo chiosare che questa sia la “prima semiologia“ barthesiana, simboleggiabile negli Essais critiques.

“La semiologia si è quindi spostata... conservando sempre lo stesso oggetto, politico – perché non può averne uno diverso... È tornata al Testo... che le é apparso come l’indice stesso del non-potere, del rifiuto del potere...”. Tutta la Leçon è fondata sulla refutazione totale del “potere”, del “discorso di potere” come discorso che “provoca in chi lo riceve la mancanza e dunque il senso di colpevolezza”. È nella lingua che “servilità e potere si confondono ineluttabilmente“ e la lingua è “fascista” giacché “obbliga a dire”. Dentro un moltiplicarsi di discorsi di potere, non resta come scampo che tricher, barare con la lingua, farsene gioco. Questa tricherie salutaire, che “permette di ascoltare finalmente la lingua fuori da ogni potere... é la letteratura “grafo complesso delle tracce di una pratica: la pratica di scrivere”.

La serie di déplacements arriva fino alla semiotica: cui viene demandata la funzione di “decostruire” una linguistica arrivata a un eccesso di dilatazione. La semiotica sarebbe pertanto quel “lavoro che raccoglie l’impuro della lingua, il relitto della linguistica, la corruzione immediata del messaggio: niente di meno che i desideri, i timori, le intimidazioni, gli approcci, le tenerezze, le proteste, le scuse, le aggressioni, le musiche di cui è fatta la lingua attiva”.

Si fa presto a capire a che territori viene esteso il dominio, almeno la competence della semiotica, a un tempo negativa e attiva. Negativa, o, per dirla con Barthes, apofatica, non in quanto neghi il segno ma in quanto nega la possibilità di attribuirgli caratteri positivi, fissi, fuori dalla storia e dal corpo, in una parola: scientifici; positiva, in quanto più che semiotica semiotropia: volta al segno, ne è catturata, lo riceve, lo tratta e al caso l’imita, come uno spettacolo immaginario. “La semiologia... non è un’ermeneutica: dipinge più che non analizzi, via di porre piuttosto che via di levare. I suoi oggetti prediletti sono i testi dell’Immaginario...”19. Per dirla tutta: ecco sopravvenire due indici inevitabili secondo una certa prospettiva: finzione e godimento del segno immaginario. La semiotica diventa qualcosa di fantasmatico.

Il rovesciamento esibisce i suoi vantaggi. Se si fa reagire questo testo quasi terminale, sul lavoro antecedente di Barthes, esso ne esce con una illuminazione supplementare. Dalla mostruosa esibizione di “scientificità” (ma con ironia implicita) del Sistema della moda costruito secondo modelli di Hjelmslev; a S/Z; a Sade Fourier Loyola; a Le plaisir du texte. S/Z, découpement “ragionato” di un racconto balzacchiano, è probabilmente l’esempio più temerario e affascinante di gestione della critica semiotica, a quel momento del percorso barthesiano (1970). In questa “copia” di un testo anteriore alla modernità, si cumulano le funzioni dello scriptor, del compilator, del commentator, dell’auctor, secondo quanto avverte Barthes stesso; e dentro il turbine di una frammentazione parossistica, il rapporto basico codice/messaggio si allucina e si trasforma, giacché la serie dei modelli cui riferire il testo si autoproduce e insieme si riassorbe per un gioco di specchi praticamente infinito, all’interno del testo medesimo. La “traversata dei codici” è un fantasma: il fantasma del “testo plurale”. Qualcosa si sta avvicinando dunque alla Leçon. Ma è anche vero che il testo più, ”semiotico” di Barthes è Barthes par Roland Barthes, dove egli è insieme la critica e il suo soggetto. Certe invenzioni che parevano nate solo da una genialità etichettatoria eccentrica (penso al “lubrificato”, all’”atopia”, alla “treccia”, alla “doxa”, all’“acoluthia” etc) e che negli ultimi testi avevano toccato un regime estremamente accelerato20, a rifletterci sembrano qualcosa di più di risvolti brillanti di un talento; se non parole-chiave, parole che indicano un passaggio.

 

6. I contributi di Barthes, saltuari ma non per questo meno stimolanti, alla narratologia si trovano oltre che nei testi citati, nei Nouveaux essais critiques, in coda alla ristampa del Degré zéro de l’écriture (Points, Paris, 1972), e specificamente nel lungo saggio, “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti”, che apre il volume collettivo L’analisi del racconto (Bompiani, Milano, 1969), e introduce fra l’altro le classi dei nuclei e delle catalisi, degli indizi e degli informanti. Un’acuta perlustrazione critica delle varie posizioni in materia è stata fatta da Cesare Segre, nel capitolo iniziale del suo libro Le strutture e il tempo (Einaudi, Torino, 1974), dove, dopo l’inevitabile Propp, Sklovskij, Vesevoloskij, Tomacevskij vengono situati gli studi di A. G. Greimas, rielaboratore di Propp e Lévi-Strauss, articolatore delle funzioni e degli “attanti” come “elementi costitutivi della grammatica narrativa”, poi degli enunciati narrativi, “forme sintattiche elementari”, infine delle unità narrative; quelli di Claude Bremond diretti alla costruzione di un modello generale della narratività, che Segre per suo conto giudica “impossibile”; di Tzvetan Todorov; di Gérard Genette, di cui bisogna almeno ricordare gli intelligenti esercizi di segmentazione del testo, che nel caso è quello magno della Recherche du temps perdu (vedi il volume terzo di Figures, Seuil Paris,1972).

 Segre è un’intelligenza critica, filologicamente munitissima (lo mostra il suo libro più recente, intitolato significativamente Semiotica filologica (Einaudi, Torino, 1979), per cui l’abbandono all’impressionismo o all’intuizione rappresenta un estremo oltraggio. La decostruzione e la ricostruzione del testo “secondo categorie, formule, tabelle”, in cui si attua l’atto di lettura, implicano poi un riassorbimento degli elementi “fuori dal tempo” dentro una continuità temporale: “se si prescinde dal suo funzionamento (nel tempo), la macchina è solo un assieme di pezzi”21. Segre ricollega il testo letterario da una parte al tempo, dall’altra alla storia; questa posizione particolare nell’ambito della semiotica si trova esplicitata e ribadita negli scritti di Semiotica, storia e cultura (Liviana, Padova, 1977). Segre vi indica anche qualche cosa di più, di particolarmente interessante per le intenzioni di questa nota: “...Se ci contentiamo di studiare tutto ciò che é codificato in qualche modo nell’opera d’arte, noi perdiamo gli aspetti creativi, cioè possiamo al massimo valutare le deviazioni o le innovazioni, ma non possiamo cogliere le novità di significazione, le novità di messaggio dell’opera d’arte. Perciò io parlavo... di semiotica della creazione, che sarebbe appunto una semiotica tesa a spiegare come si arrivi a dare una significazione a gruppi di segni capaci di esprimerla.”22. Tale semiotica sarebbe una riformulazione che consente un “discorso sullo stile” finalmente omogeneo, non più debitore dei linguaggi tradizionali della metrica, della stilistica, della retorica antica e moderna, e cosà via.

La citazione degli studiosi e critici dell’area, in particolare italiani, per necessità dell’economia di questo scritto si fa erratica e frettolosa. Ma sarebbe difficile trascurare il lavoro di D’Arco Silvio Avalle, a partire dal famoso esercizio sugli “Orecchini” di Montale; dei già nominati Paolo Fabbri e Aldo Rossi; di Paolo Valesio; di Marcello Pagini; di Gian Luigi Beccaria; di Giorgio Orelli; di Gian Paolo Caprettini; e in domini non strettamente verbali, di Emilio Garroni e Gianfranco Bettetini. In un riferimento molto intelligente e autonomo a quella “tipologia della cultura” di cui si sono fatti portatori Lotman e Uspenskij (cfr. il volume omonimo, Bompiani, Milano 1975), e con una particolare qualità di interrogazione dei testi specifici, lavora Maria Corti che ha investito, con Principi della comunicazione letteraria (Bompiani, Milano, 1976), il sistema stesso della letteratura “come condizione e luogo della comunicazione letteraria che lega emittenti e destinatari nelle varie epoche”. Al centro dell’indagine della Corti sta il testo come “ipersegno o messaggio polisemico”. Nel suo libro più recente (Il viaggio testuale, Einaudi,Torino, 1978), c’è, fra molte altre cose interessanti, la proposta del concetto di campo di tensioni, come rapporto fra una ideologia che nasce e le strutture semiotiche ad essa preesistenti nella società, e dunque nella letteratura; tenendo sempre fermo che “ogni genere letterario ha funzione selettiva, quando non addirittura provocatoria, e i suoi codici non sono mai neutrali”.

Se fra strutturalismo e semiotica corrono rapporti dirò così strumentali, di metodologia capace di unificare una molteplicità di fenomeni (lo studio dei segni applicato a un’opera d’arte non può prescindere dalla coscienza che essa è “una struttura funzionale“ i cui elementi non sono comprensibili al di fuori della connessione con l’insieme), un incrocio della critica semiotica con la psicoanalisi, come avviene in modo suggestivo epperò discreto nei procedimenti di Stefano Agosti, contribuisce con qualche altro dato a una possibile definizione. Labilità dei confini: Agosti, per esempio, è etichettato quale critico strutturalista nel citato volume miscellaneo sui Metodi della critica in Italia; le indicazioni d’autore, almeno per la prima parte teorica del volume Il testo poetico (Rizzoli, Milano, I972) tendono a precisare che lo studio delle modalità di costituzione di un testo poetico, per ciò che riguarda il tessuto fonico, impiega rilevamenti “linguistici ma non strutturali”.

Peraltro Agosti nel suo lavoro risulta uno dei critici lato sensu semiotici più minuziosi e insieme liberi da superstizioni categoriali. Una “postilla” nel volume citato23, già conteneva in nuce la posizione che sta al centro della sua attività degli ultimi anni: per cui il luogo dell’inconscio è la struttura di superficie di un testo: sistemi allitterativi, intrecci ritmico-timbrici etc. L’incontro con la psicoanalisi avviene nel nome, meglio: nella formula, di Fònagy: la forma sta al contenuto come l’inconscio sta alla coscienza. Un enunciato come questo: “forse il ritmo… ha avuto, in poesia, la stessa funzione che ha, in psicoanalisi, l’oggetto del desiderio (quello, aggiungo io, che Lacan designa come objet petit a...): di mascherare cioè la béance, il vuoto, sottesi alla pulsione..”, imprime alla qualificazione del possibile oggetto (e fine) della critica semiotica un bello scarto. E più ancora il passaggio che segue, da “Discorso, parola analitica, linguaggio poetico”, comunicazione presentata da Agosti a un Convegno internazionale, ottobre-novembre I976, alI’Università di Milano: “Nel poetico, al pari di quanto si verifica nell’ analitico si affrontano due dimensioni ‘concettuali’ antitetiche: la dimensione del Testo e la dimensione del Discorso... Il Testo può manifestarsi solo dentro la dimensione del Discorso... Come si qualifica, più precisamente, il lavoro del Testo? ...Si tratta del lavoro di un linguaggio sul linguaggio... il quale si esplica secondo due modalità...: la modalità omonimica e la modalità sinonimica. La prima concerne il ripiegarsi del significante sui propri costituenti fonici e scritturali... La seconda... il ripiegarsi del significante sui propri costituenti semici, il che comporta l’attivazione di fasce potenti di equivalenze e di identità a livello profondo, le quali compromettono le articolazioni differenziali e oppositive delle strutture semiche di superficie…”

 

7. Fin qui il discorso è andato avanti riferendosi sempre, in modo esplicito o implicito, a una nozione di segno piuttosto stabile, comune, per dire, a Saussure e a Peirce. Ma se il punto di riferimento viene spostato, che capita alla semiotica? Secondo Julia Kristeva, già nel lavoro di Saussure sugli anagrammi si traccia “una logica testuale distinta da quella retta dal segno... La semiotica può istituirsi solo obbedendo totalmente alla legge che la fonda, cioè dipanando e ripercorrendo tutti i processi significanti, e questo implica che riconsideri senza soste i propri fondamenti, li pensi e li trasformi...”24. Per bocca della Kristeva, tale scienza “materialista” si costituisce più che come semiologia o semiotica, come critica del senso, dei suoi elementi e delle sue leggi – come semanalisi.

Con essa la semiotica, in quanto scienza della significazione, si apre alla significanza come lavoro specifico della lingua e dentro la lingua, anteriore a qualsiasi enunciazione strutturata: “lavorodi differenziazione, stratificazione, confronto che avviene nella lingua e che depone sulla linea del soggetto parlante una catena significante comunicativa e strutturata secondo grammatica..” (Kristeva). Si tratta “a partire dal testo... e di là dalla lingua comunicativa (che sta in superficie) di esplorare il volume della lingua come produzione e trasformazione di significazione…” (Ducrot-Todorov, op. cit.). La semanalisi deve attraversare l’enunciato, la sua organizzazione, la sua grammatica e la sua scienza, per arrivare finalmente a quella zona dove stanno i germi di ciò che “avrà significato” nella presenza sensibile della lingua. La semanalisi “formalise pour déconstruire25.

Non è possibile produrre qui più particolari sulla teoria tanto seducente quanto complessa svolta dalla Kristeva dal citato volume Semeiotiké a La révolution du langage poétique (1974), a Polylogue (1977), con tutti gli evidenti richiami al marxismo e alla psicoanalisi (non fosse altro che per la ripresa del dualismo freudiano di base proiettato per esempio nell’opposizione simbolico/semiotico...). Teoricamente, per dirla con Ducrot-Todorov, la semanalisi sfora attraverso i concetti classici di segno e struttura, per toccare lo spazio “altro” della infinità significante. Per conto mio farei cadere l’accento sull’attività decostruttrice assegnata alla semiotica – ma tenendo presente questo carattere capitale: che tale attività si riferisce continuamente da un lato alla materialità delle lingue nelle loro operazioni, piuttosto che a un sistema o edificio completo, metalinguaggio “superlogico”; dall’altro, a un “vacillamento” fondamentale del soggetto.

Esiste un ascolto semiotico, voglio dire una disposizione specifica all’ascolto semiotico? Costruire una passione destrutturante, anzi una pulsione destrutturante – omologa in certo senso alla pulsione di morte? – sembra alquanto arbitrario, o peggio inutile, perché non si vede a che sbocco condurrebbe. Però qualche simmetria pulsionale può servire. La pulsione scopica, dinanzi a un dipinto, detta l’imperativo informulato: “Fammi vedere!“ Il lettore semiotico, confrontato a un testo, intima: “Connetti!” ossia: “Mostrami la legge!“ La risposta non è un “sistema di rapporti”, ma l’attraversamento destrutturante di un volume, di un‘organizzazione illimitata di strati operanti. La critica semiotica, diventata semanalisi, costituisce il riconoscimento – nella materia di un testo concreto – del lavoro che il testo fa su se stesso.

 

8. In un capitolo dell’Antropologia strutturale, l’undicesimo, Lévi-Strauss esibisce un grafico che illustra la sua proposta di definire ogni mito in base all’insieme di tutte le sue versioni. Nel grafico, i quadri bidimensionali come carte da gioco, dedicati ciascuno a una versione del mito, nella loro giustapposizione in piani paralleli determinano un “insieme tridimensionale” leggibile da sinistra a destra, dall’alto in basso, dall’avanti all’indietro. Omologamente, la lettura semiotica costruisce il testo come un oggetto plurale nel concorso di strati o falde di tecniche e di approcci diversi. La destrutturazione di cui si diceva qualche riga più sopra, chiude l’anello con una ristrutturazione. È facile notare subito che questo movimento circolare di “comprensione” é vecchio come il mondo; altrettanto facile ribattere che ciò che conta é attraverso quali passaggi esso si sia definito. Il critico semiotico non è un semplice direttore d’orchestra, anche se c’é sempre il rischio di farne un demiurgo. “Tutte le versioni appartengono al mito“ scrive Lévi-Strauss. La lettura semiotica percorre un testo al quale, contemporaneamente, essa stessa si aggiunge come un elemento in più, come un (+1) indispensabile a “tutte le versioni” del testo.

 

 

 

 

 

NOTE

1 Ferdinand de Saussure. Corso di linguistica generale. Laterza. Bari 1967. Pag. 26.torna su
2 Roland Barthes. Elementi di semiologia. Einaudi. Torino 1966. Pag. 15. torna su
3 Oswald Ducrot -Tzvetan Todorov. Dictionnaire encyclopédique des sciences du langage. Seuil. Paris 1972.torna su
4 Omar Clabrese ed Egidio Mucci. Guida alla semiotica. Sansoni. Firenze 1975. Pag. 4.torna su
5 Roman Jakobson. Lo sviluppo della semiotica. Bompiani. Milano 1978. Pag. 46.torna su
6 Charles Sanders Peirce. Semiotica. Einaudi. Torino 1980. Pag. 131. torna su
7 AA. VV. I metodi attuali della critica in Italia. A cura di C. Segre e M. Corti. ERI. Torino 1970. Pagg. 371 e seguenti. torna su
8 Umberto Eco. Trattato di semiotica generale. Bompiani. Milano 1975. Pag. 17. torna su
9 D’arco Silvio Avalle. L’analisi letteraria in Italia. Ricciardi. Milano-Napoli 1970. Pag. 90. torna su
10 U. Eco. Op. cit. Pag. 17.torna su
11 U. Eco. Ne: I metodi attuali della critica in Italia. Pag. 372. torna su
12 R. Jakobson. Op. cit. Pag. 57. torna su
13 Op. cit. Pag. 121. torna su
14 Op. cit. torna su
15 Jan Mukařovský. Il significato dell’estetica. Einaudi. Torino 1973. Pagg. 141-148. torna su
16 Op. cit. Pag. 415. torna su
17 R. Barthes. Leçon. Seuil. Paris 1978. Pag. 33. torna su
18 Op. cit. Pag. 16.
19 Op, cit. Pag. 39. torna su
20 Cfr. in AA.VV. Prétexte: Roland Barthes. Colloque de Cerisy. UGE.I0/I. Paris 1979, l’intervento di Barthes stesso (“L’image”), pagg. 298-308.torna su
21 Cesare Segre. Le strutture e il tempo. Einaudi. Torino 1974. Pag. VIII. torna su
22 Op. cit. Pagg. 93-95.torna su
23 Stefano Agosti. Op. cit. Pag. 43. torna su
24 Julia Kristeva. Semeiotiké. Recherches pour une sémanalyse. Seuil. Paris 1969. Pagg. 18-19 e seguenti.torna su
25 J. Kristeva. Op. cit. Pag. 22. torna su