La poesia, non tutta*

Debbo spiegare, prima di tutto, il valore del cartiglio sotto cui si pone questa mia chiacchierata: La poesia, virgola, non-tutta, in cui probabilmente avrete già riconosciuto una formula di Jacques Lacan, fatta slittare, spero senza troppo arbitrio, dalla psicoanalisi alla letteratura, e che si appoggia a un’affermazione di Freud.

Avrei anche potuto dire, più speditamente: La poesia, con l’articolo determinativo sbarrato, se il discorso parlato offrisse qualche segnale per indicare la presenza della barra. Anche qui, ravviserete una sorta di algoritmo lacaniano, riferito alla donna.

Esso manifesta che non esiste La donna, come universale, che definisca globalmente, esaurientemente, senza residui una classe – ma soltanto Delle donne ossia una pluralità di individui che non possono esseri ricompresi in un riferimento comune.

Quando Lacan dice che La femme n’est pas-toute, vuol significare che essa non si risolve tutta nella funzione fallica, nel godimento fallico – che una sua parte ne sfugge, non può essere identificata per questa via. Non altrimenti Freud registrava l’impossibilità di rispondere fino in fondo alla domanda: Che cosa vuole una donna ? Ma la poesia ? Dico subito che la barra cui ho fatto cenno che dénega l’articolo determinativo, aiuta a passare al campo della letteratura, se è vero, secondo un’altra affermazione di Lacan, che “la barra è precisamente il punto in cui, in ogni uso del linguaggio, c’è occasione per il prodursi della scrittura.”

Dunque, per omologia credo di potere affermare che anche la poesia è non tutta, intendo: non si risolve senza residui nel sistema dei suoi segni verbali, epperò non è contornabile totalmente da nessun discorso sulla poesia.

Fatemi credito che non intendo riferirmi così al mito ingenuo, e consolatorio, della ineffabilità della poesia, che “si sente nell’animo ma non si può definire”. Neppure parlo della difficoltà eventuale a decrittare un testo, a interpretarlo perfettamente. Sono tutti accidenti che si collocano dalla parte del soggetto leggente e criticante, e riguardano i suoi limiti e le sue lacune.

Che la poesia sia pas-toute, non-tutta lo pongo come ipotesi di lavoro in questo senso: che è inerente alla poesia che una sua parte resti fuori, esorbiti da ogni operazione – appropriativa – di lettura e scrittura; e che è tale parte, la quale come l’ombelico del sogno si annoda di là dal Senso, nell’Unerkannte, nel Non-riconosciuto, a costituire il suo statuto di poesia.

Insomma: c’è un testo fisico, lessicale e sintattico, più o meno leggibile; poi regole metriche, valori prosodici cioè i cosiddetti tratti soprasegmentali (intonazione, durata, picchi divoce etc.) che, insieme con le imbricazioni e sconnessioni sintagmatiche, i “punti distinti”, le grandi unità di senso, i flussi discorsivi, lavorano a costituire ciò che definiamo una poesia.

Allora, in mancanza di meglio chiamerò tratto sopra-soprasegmentale o macrotratto soprasegmentale ciò che segnala il pas-toute della poesia, quella pertinenza caratterizzata dal non essere né quantificabile né sistematizzabile – tuttavia non fuori da ogni forma. Non, intendiamoci, l’ineffabile: attività che argomentiamo dalla sua latenza/presenza, dalla traccia lasciata nelle istituzioni linguistiche messe in atto.

Questa etichetta del non-tutta, rimediata come utensile in una sorta di bricolage robinsoniano – etichetta dico, epperò sommaria, tuttavia non senza stimolo euristico – funziona un poco come la dicitura “Hic sunt leones” che per gli antichi geografi ricopriva una zona non riconosciuta, non quadrigliata, non totalmente articolabile – dunque non la spiegava, ma tuttavia la designava, indicava che era lì.

Vorrei precisare che, richiamandomi al termine freudiano di Unerkannte, sottolineo che si tratta di qualcosa di non-riconosciuto, non di ignoto, sfumatura significativa, la cui mancanza farebbe scivolare tutto il discorso verso un certo grado di misticità letteraria, che mi ripugna.

Si tratta di un lavoro molto preciso, non di un delirio della sensibilità: prestare orecchio, il terzo o il quarto, non so, a ciò che si parla nell’imparlato.

Mi è venuto sottomano poco fa il termine di “traccia”. Adatto la metafora alle mie necessità: il non-tutta della poesia lascia traccia, lascia una scia; scia mi pare ancora meglio, giacché è il segno del passaggio in un liquido di qualcosa che non è più lì, ma che c’e stato e c’è tuttavia attraverso tale effetto di scia.

Vi verrà alla memoria magari l’ungarettiano “si scopriva a seguire / come una scia / una scomparsa navigazione”, e mi torna benissimo.

È proprio alla ricerca, e alla rilevazione, di questo effetto di scia in testi poetici concreti, che mi propongo di andare adesso, sia pure brevemente. Questi testi sono, per cominciare, due sonetti di Stéphane Mallarmé: quello che si intitola Salut, e che inizia “Rien, cette écume vierge vers” e l’altro che si apre con “Surgi de la croupe et du bond..:”.

Perché, particolarmente, questi due testi? Mallarmé offre il caso più lampante non solo di ciò che viene detto “poesia della poesia” (che sarebbe peraltro definizione della poesia tout court…) ma di quel processo particolare per cui creazione poetica ed elaborazione critica non sono disgiungibili ossia si danno il rimando l’una con l’altra dirò così nello stessoluogo, e dunque esibiscono paradigmi preziosi.

Nel nostro caso, le due brevi composizioni adempiono a due funzioni opposte e complementari: Salut designa, anzi disegna nel testo poetico, come uno schizzo su un foglio, ciò che ho chiamato effetto di scia. “Surgi de la croupe et du bond”, che è sonetto intermedio di una trilogia pubblicata nel gennaio del 1887, fa molto di più: lascia intendere, in atto, il non-tutta della poesia – paradossalmente rappresentato, ossia rende presente, quella parte che sfugge alla scrittura e alla lettura eppure le costituisce entrambe. Per usare una formula mallarméana è un testo allégorique de lui-même.

Salut è un brindisi in versi pronunciato, come avverte lo stesso Mallarmé, alzando il bicchiere a un banchetto della rivista «La plume», “con l’onoredi presiedervi”: dato referenziale indispensabile per organizzare uno dei piani di lettura. Si danno qui almeno tre piani, tre isotopie sememiche, vale a dire sistemi di coerenze di senso che governano un testo e ne consentono la decodifica unitaria – insomma, codici interni; essi scorrono come lucidi l’uno sopra l’ altro e si interpenetrano in una serie di punti.

La prima isotopia ha a che fare con l’occasione che ha prodotto il testo: occasione sociale (banchetto letterario) fornita dei suoi propri riti verbali e comportamentali. Così in apertura l’écume indica la leggera schiumosità del vino che disegna la forma della coppa alzata nel brindisi; il pétillement (lo scoppiettio) delle bollicine costruisce la figura delle sirene che si tuffano a capo riverso, sollevando schizzi. Così, di seguito, la “poppa” sarà l’alto della tavola, posto d’onore occupato dal presidente; il “tangage” la lieve oscillazione che importa l’entusiasmo del convito e magari un po’ di ebbrezza alcoolica. Naturalmente, secondo le buone regole, il brindisi si porta in piedi, debout; e le blanc souci de notre toile alluderà alla tovaglia candida etc.

A questa isotopia se ne allaccia, con nodi metaforici, un’altra: quella della navigazione. Salut non è più l’augurio del brindisi ma significa la salvezza dalle tempeste marine; l’écume è ovviamente quella del mare, come il “tangage” è il beccheggio; la “poupe”, appunto la poppa di una nave; e il candore schiumoso, in questo quadro, designa la “coupe” ossia il “taglio” che la chiglia produce nell’acqua solcandola – segno di un passaggio, traccia che rimane indietro...

Compare qui, in senso letterale o direi meglio figurale, l’effetto scia.

La prima quartina di Salut è, globalmente, la scena di una sparizione, di qualcosa che ha agito e di cui rimane tuttavia un indizio: il nulla della riga di schiuma, “vergine verso”, là dove sono scomparse con un improvviso inabissamento le sirene e non si dimentichi che tale disapparire è legato a un “capovolgimento”.

Traccia, scia sarà anche il “si blanc cheveu qui traîne”, dove annega un’altra sirena, nel sonetto “A’ la nue accablante tu”, per accennare solo ad uno dei molteplici rac­cordi che provano come l’effetto in questione non sia occasionale.

Ma è l’applicazione di una terza isotopia, che abbraccia le prime due, a legittimare, credo, l’uso che faccio di questo testo mallarmeano, secondo certe premesse del mio discorso.

È l’isotopia etichettabile come “scrittura” o se si preferisce come ”atto letterario”. Non starò ad elencare tutti i lessemi del testo che la costituiscono. Salut è la parola che un poeta indirizza ad altri poeti: e se ricorrono termini inequivocabili come “verso”, “ebbrezza”, “solitudine”, “stella”, il “bianco affanno della vela” ossia la pagina bianca; altre sono decrittabili metaforicamente sempre nell’ordine dello “scrivere”: écume come penna, coupe come calamaio, tangage come il movimento della penna stessa sulla carta (seguo i suggerimenti di un saggio di analisi del sonetto in questione per mano di André Rastier).

Il nodo metaforico fra scrittura e navigazione o in generale scena marina, è fondamentale in Mallarmé, come sa ogni suo buon lettore (basterebbe rimandare al già citato sonetto “A la nue” o a Un coup de dés...). E a garantire che non siamo sulla strada sbagliata, l’isotopia si corona nel “Rien” inaugurale, sema della negatività, della beanza, in Mallarmé inseparabile dall’idea stessa di scrittura.

La figura di una scia, solco nel mare, è dunque la figura complessa che il sonetto delinea in filigrana: ma per connessione fra le due isotopie, come s’è visto, essa slitta nel campo semantico dello scrivere, dell’atto scrittorio: come rappresentante – lo dico nel senso che il termine ha in psicoanalisi – dell’atto stesso, nella sua essenza. Insomma, figurazione della poesia non-tutta.

Questo è, credo, ben più di un gioco, anche se meno di una dimostrazione – quantunque, date le premesse della mia ipotesi, una dimostrazione, oltre che disagevole, finirebbe per risultare incongrua.

Il secondo sonetto chiamato in campo, “Surgi de la croupe et du bond”, ho detto che fa di più. Esso non enuncia semplicemente, sia pure in figure, ma è il lavoro del pas-toute della poesia, al modo che si direbbe il “lavoro del sogno”.

Il testo produce la traccia di un luogo: camera oscura nel doppio significato di immersa nell’oscurità come nel sonetto antecedente “Tout Orgueil fume-t-il du Soir”; e di spazio magico in cui appaia per un attimo il fantasma di se stessa.

Luogo, e contemporaneamente non-luogo come, solo per far qualche esempio, la chambre, l’escalier e il tombeau d’“Igitur”, o l’endroit che “si fonde con l’aldilà” in un Un coup de dés.

La questione del luogo non-luogo si lega con quel carattere di albietà – quando sia lecito l’alquanto ingombrante neologismo – proprio della poesia, ossia il suo esserci, lì nel testo controllabile ma poi nel trovarsi continuamente altrove. Non vi faccio il torto di riassumere l’aneddoto o meglio lo pseudoaneddoto poetico del sonetto mallarmeano : nelle tenebre della camera, un vaso esala strenuamente una mancanza-di-fiore, l’inesistente rosa attesa a fiorire la “veillée amère”. Metafora fin troppo familiare al lettore di Mallarmé, della negatività, o impossibilità, dell’atto poetico.

Non è però a questo senso che voglio appoggiarmi nell’occasione. La breve, rigorosa struttura del sonetto si articola intorno a un atto di locuzione inibito, come denotano i verbi in successione (interrompt, n’ont bu ne consent); l’aggettivo “ignoré” deferito al collo del vaso stesso; il sostantivo bouche (deux bouches) che pertiene, dirò così anatomicamente, al campo del dire.

Ciò che si produce in questo spazio, non è peraltro l’assoluta inettitudine a dire quanto l’impronta muta, la traccia di un dire che avviene, è avvenuto, altrove.

Una serie di tratti che non sono strettamente formali, sostiene tale condizione. Una delle rime delle due quartine è omofona al monosillabo on, marca dell’ impersonale, nasalità che finisce per pervadere il campo dei sensi, orientando il testo verso qualcosa che parli al di fuori di esso. L’altra rima fonicamente contiene il significante mère, madre, che del resto si esplicita in un punto emergente di inversione logica, un punto di crisi insomma, cioè la costruzione inconsueta: ni son amant ni ma mère – inversione che vale quanto traccia al rovescio di un rapporto erotico e generativo mai avvenuto, e che tuttavia qui si fa in qualche modo presente. (Ed è anche il punto in cui s’aggancia una sequenza complementare: madre – vedovanza – rosa, rosa nelle tenebre, ossia in nero, rimbalzo sul testo, più ancora che di una deprivazione, di una parte separata).

Non posso, per ovvie ragioni d’economia della mia chiacchierata, indugiare a designare ulteriori reticoli in questa direzione. Dico solo, forse un po’ frettolosamente e rozzamente, che il sonetto mallarmeano, nel suo complesso, è il prodotto non solo di una molteplicità di dati linguistici, sintattici, prosodici, emotivi, ideologici, ma di un costituente altro, la cui presenza quantunque incontornabile esplicitamente, si denuncia nell’operazione poetica, come al ticchettio del contatore Geiger la radioattività.

 

Come nella famosa ipotiposi lacaniana della Verità, la Poesia enuncia: “Io, la Poesia, parlo”, proclamando insomma di supportarsi sul puro atto del dire, non su quel che viene detto. È anche da ciò che deriva quell’aspetto del non-tutta, da cui ho preso l’avvio.

Di qui anche parte la opposizione, esemplificata da Barthes, fra plaisir e jouissance, piacere e godimento del testo. Perché se fra i due termini corre solo una differenza di grado, allora, come dice Barthes, l’intera storia letteraria è pacificata. Ma se invece piacere e godimento sono due potenze parallele, incomunicabili – se il testo di godimento, diciamo il testo della poesia nel suo parlare estremo, è di tutt’altra natura, mette in moto qualcosa che, appunto come il godimento, non possiamo più dominare, integrare alla nostra struttura umana: allora diventa più facile ammettere che la poesia sfondi, con una sua parte, fuori portata.

Ho l’impressione che sia ciò che, in sostanza, constata un critico e studioso che cito per l’occasione volentieri, Gualtiero De Santi, quando, in una pagina del suo libro Lo spazio della dispersione, accenna a uno “sfioramento verso il fuorisenso della scrittura”, che fa del testo leggibile “il corpo di quell’ avvenimento da cui si sviluppa la scrittura finale..”

Non insisto su questa contrapposizione piacere-godimento se non per rimandarvi a quanto scrive Freud, a proposito del “piacere preliminare” ossia “premio di seduzione”, oltre il quale sta ciò che nasce dalle fonti psichiche più profonde – lo dice, come sapete, nel saggio Il poeta e la fantasia.

Una traslazione niente affatto arbitraria, una deriva naturale collega quanto ho cercato finora di esporre con la questione del sogno, il sogno come struttura della poesia.

I sogni in poesia fanno legione. Un modo per cominciare a vederci chiaro sarebbe di separare quelli che sono i sognidel poeta, del “personaggio-poeta” o di un suo altro personaggio, dai sogni della poesia, quelli che la poesia segna in proprio, per suo conto, per cui non lascia allo scrittore che la strumentali­tà dello scriba.

Non è sempre facile distinguere. Che tipo di sogno sta sulla soglia della Vita nuova con “A ciascun alma presa e gentil core”, e va addirittura mendicando un’interpretazione? E quelli della Divina commedia? dove peraltro il più intenso esempio di sogno della poesia, sogno letterale, non detiene formalmente lo statuto di sogno, in Paradiso XVIII, quanto le “sante creature”, volitando, compongono scrittura.

Un esemplare indiscutibile di sogno della poesia lo leggo nelle Pasque di Zanzotto, sotto il titolo “Microfilm”, significativo addirittura nella sua forma insolita di testo disegnato e scritto a mano: un triangolo rettangolo, leggibile sui tre lati, entro cui si scalano le parole iodio, odio, dio io e infine il simbolo dello zero ma anche del circolo perfetto della realtà: O.
Per restare con i contemporanei: è in Montale che pesco due specimini corrispondenti alle due categorie che ho enunciato. Si trovano a breve distanza fra loro, in Quaderno di quattro anni”.

Il primospecimine, “Un sogno, uno dei tanti”, è il referto minuzioso di un sogno che si dà per fatto dall’autore, anzi ripetuto negli anni: un sogno, direi, proprio, tipico, di dimenticanza del nome e dei luoghi, di viaggio, di affanno, di frustrazione. Ma anche un sogno che, per via della questione dei luoghi e dei nomi, ha a che fare con la poesia – però non è un sogno della poesia.

In esso tutti gli elementi, anche gli assurdi, gli indecifrabili, si allineano in un discorso appena più su del prosastico, sia pure con un lieve grado di estraniamento, ma che non implica nessuno scatto, nemmeno interpretativo. (Questo giudizio non attiene, ovviamente, alla validità poetica più o meno alta del testo, ma si applica alla prospettiva teorica che ho adottato per l’occasione).

Ma andiamo a interrogare “Ribaltamento”, l’altro specimine, molto breve, che vi leggo qui di seguito:


La vasca è un grande cerchio, vi si vedono
ninfee e pesciolini rosa pallido.
Mi sporgo e vi cado dentro, ma dà l’allarme
un bimbo della mia età.
Chissà se c’è ancora acqua. Curvo il braccio
e tocco il pavimento della mia stanza.

Nei primi quattro versi, l’aneddoto onirico non rimanda ad altro che a se stesso, a dispetto dei possessivi, pronomi e aggettivi: mi..mia.., che vorrebbero fissarlo a una situazione di discorso. La vasca, o il sogno, allaga il testo, cancella ogni confine non appena fra sonno e risveglio, ma fra visione onirica, suo racconto, possibile interpretazione (che peraltro non si dà).

Perfino lo statuto di sogno è occultato, o almeno risulta indecidibile.

È precisamente fra il quarto e il quinto verso che tale indecidibilità diventa figura della poesia: con la formulazione di una domanda (“chissà se c’è”) e soprattutto con il sintagma “curvo il braccio / e tocco..”. Tutti i verbi della poesia sono al presente, ma mentre il presente dei primi quattro versi (“è..si vedono..mi sporgo..cado..dà l’allarme”) designa una intemporalità di visione, la distanza astorica propria del sogno;tutta la sequenza: “curvo il braccio/e tocco il pavimento della mia stanza” rintocca di una attualità puramente esistenziale dunque fragile quanto più addossata, e pertinente, a chi parla.

In questo caso non è il sistema di echi, contiguità e dilatazioni foniche, come s’è creduto di vedere per il sonetto mallarmeano, ma lo scarto dei valori temporali, scarto che chiamerei volentieri metapsicologico, a indicare l’effetto di scia su cui insisto.

È il lavoro non-definibile della poesia che qui salda sogno e risveglio, metafora e affetto; non immediatamente definibile, giacché l’essenziale differenza di timbro temporale agisce di là dalle forme grammaticali, non appare in esse – come ho detto, tutti i verbi sono al presente...

Il “sogno della poesia” mi è servito a intravvedere il “non- tutta” della poesia. Il che spero convinca di quanto il sogno sia prezioso come strumento euristico.

Tempo fa, in altra occasione, mi ero domandato perché mai uno scrittore si determini a introdurre un sogno nel suo testo: perché “raccontare”, in verso o in prosa, un sogno? E mi dicevo che, situato nella propria scrittura, l’autore incontra l’esperienza del sogno come interna alla scrittura stessa.

Non posso, né voglio, ripercorrere quel discorso, che del resto procedeva poi per altre direzioni. Mi limito a constatare che la funzione onirica in un testo non opera soltanto attraverso l’inserzione, lo sfruttamento di un sogno riferito o inventato. Anche il sogno, rispetto alla letteratura, non si esplicita in maniera completa: insomma anche il sogno, a questo riguardo, è non-tutto.

Risfogliando, non per mero narcisismo, un libretto di versi che porta il mio nome, e il titolo di Annales, mi sono meravigliato di come lo stato onirico, o meglio direi: il sistema del sogno, lo condizioni, anche se ai sogni si faccia riferimento testuale non più di due o tre volte.

Il fatto è che quel libretto è stato sognato – anche se non proprio come sostiene Coleridge per il suo Kubla Khan; e parlando di sogno credo di riferirmi soprattutto alla leggera caduta nell’estraneità, nella non-riconoscibilità della propria scrittura.

Tale forma di estraniamento particolare, piuttosto diversa da ciò che si riconosce in genere con questo termine, è quanto chiamerei, in attesa di meglio, storia. Gli Annales volevano essere l’esperienza del Bambino – dico Bambino con la maiuscola perché è insieme l’irriducibile bambino autobiografico e il bambino della specie, il piccolo dell’essere parlante. Esperienza a partire non appena dalla nascita, ma da prima: fino ad arrivare al momento in cui il Bambino scopre le proprie paure, attese, appetiti/fantasmi articolati, sublimati epperò castrati nella cosiddetta Storia Maggiore.

Viene fuori , mi accorgo, il carattere archeologico di tale poema vagheggiato (e naturalmente irrealizzato). Giacché nessuno dei vari strati di civiltà sovrapposti a costituire l’esperienza del Bambino, cancella del tutto gli strati precedenti; e d’altro canto, per ripescare una famosa metafora freudiana, la Roma quadrata non può emergere di colpo intatta nel mezzo della Roma papale. Una storia che procede, ma non senza ritorni all’indietro, e stasi, e comunque è diffide dire se “conduce a” ...Storia circolare, o meglio a spirale, per cui ci si sposta ma in certo modo si è sempre li.

A partire dalla pietra d’inciampo del non-tutta, come a caso si sono venuti presentando elementi che più che concetti critici considererei cariche di energia, capaci di comunicare qualche scossa mentale, un po’ sul modo della torpedine socratica: luogo, sogno, archeologia. Hanno a che fare con la poesia, almeno secondo un certo disegno o modo di proporsela. Che siano abbastanza sciolti, e riluttanti a fare sistema, mi sembra, tutto sommato, un pregio.

Per concludere in calando, anziché in crescendo, introduco un breve accenno a un’esperienza personale d’autore.

Perché portare casi personali, che certo non pretendono di passare alla storia, in un discorso sulla poesia che si voleva sia pure sommariamente teorico?

Spero non lo addebiterete a un narcisismo inurbano e prevaricante. Piuttosto al fatto che qualsiasi tentativo scrittorio, per mediocre o addirittura fallimentare che sia, costituisce in parallelo, una microelaborazione teorica, sicché forse non si dà prodotto, anche déchet, in cui non si possa decifrare un suggerimento o un avviso a valore generale. E così, altra faccia positiva, la teoria, la nostra teoria cambia man mano che scriviamo. (Non dubito che anche la mia ipotesi della poesia non-tutta abbia già subito uno spostamento, per effetto di questa chiacchierata).

Eppoi c’è un’altra buona ragione pratica: su ciò che abbiamo prodotto di nostra mano, crediamo di saperne un po’ di più: o almeno di essere autorizzati a credere di saperne un po’ di più: su come s’è fatto, su come non si sarebbe potuto fare...

“Con questi bei fondamenti”, dirò assai in breve come s’è fatta una mia poesia abbastanza recente nella sua veste ultima – e naturalmente dovrò cominciare col leggervela.

……………

Mi mancano le date precise, ma credo che la prima stesura risalga a quattro, cinque anni fa, quando uscì il primo volume della Camera da letto di Bertolucci (il pretesto, l’amico destinatario ideale dell’epistola, A B, è proprio Bertolucci). Il testo s’arrestava a un certo punto, senza che riuscissi a capire bene se dovesse procedere o trovare lì una chiusura. A buon conto finì in un cassetto, dove di tanto in tanto venne occhieggiato, però mai ripreso.

Un paio d’anni fa, il cassetto lo rivomita fuori, anzi si mette a rivomitarlo ciclicamente. A ogni sortita, il testo è sciabolato, potato, sconnesso e riconnesso, riscritto o ripristinato in una versione anteriore; imperturbabilmente, per conto suo, resistendo a sevizie e blandizie – resistendo, dico, ad essere insoddisfacente.

Il punto critico era rappresentato dal finale. Questa poesia si ostinava ad essere non-terminabile: almeno non suscettibile di una conclusione che non mi facesse allegare i denti. La variante ennesima, sudata alcuni mesi fa, ha finito per accettare tale impossibilità: per farsene, come si dice, una ragione. Se non finisce, mi sono detto, vuol dire che continuerà da qualche parte, fuori della mia portata.

Adesso che la rileggo, ci ripenso: la sospensione brusca addirittura su una preposizione, sarà pure un ripiego, forse meglio un ripiegamento tattico. Piuttosto che un taglio, un perno su cui qualcosa ruota, svolta – punto di contraccolpo, che va a investire tutto il testo precedente (forse non a caso il verso è scritto in maiuscolo). Azzardo chemanifesti per un istante il non-tutta della poesia, e insieme tenti debolmente, inadeguatamente di restituirne un effetto: appunto l’effetto di scia.

 

Qualcosa è passato di qui, per rimbucarsi altrove: coda di vipera, coda di pavone, o che altro. La materia fornita per il prelievo ha scarsa importanza, lo ripeto. Alla fine, la forma più propizia per parlare della poesia è l’Impersonale.

* (Università di Urbino, 1989).torna su