“Finnegans Wake”

1. Secondo Richard Ellmann,1Lucia, la figlia schizofrenica di James Joyce, ricevendo la notizia della morte del padre, osservò: “Che cosa sta facendo sottoterra quell’idiota? Quando si deciderà a uscire? Sta sempre a sorvegliarci...” Se ci si sposta dal livello della biografia a quello della critica, la frase di Lucia può anche applicarsi alla posizione unica che Finnegans Wake, l’ultima opera di Joyce, occupa nella letteratura occidentale del secolo. Il corpaccione di questo monstrum narrativo, se non proprio sottoterra, continua a vivere in latenza per questo riguarda le sue potenzialità eccezionali di trasformazione, anzi di sconvolgimento, del campo letterario. In che misura il romanzo della seconda metà del Novecento ne ha sentito l’effetto devastante, smettendo di essere ciò che era prima, per diventare altro?

La forza di squilibrio di Finnegans Wake, non ha operato finora che in minima parte nella zona profonda della narrativa. In certo senso, di là dagli omaggi convenzionali, Finnegans Wake deve ancora essere letto davvero dai nostri contemporanei: non solo dai lettori senza qualifiche, ma dai lettori-scrittori. È un libro che sta lì e continua a essere illeggibile (“il est exillisible”, secondo quanto osserva Hélène Cixous)2 – e non mi riferisco all’etichetta dì comodo che gli è stata affibbiata. Per paradosso, si dirà che Finnegans Wake non è stato ancora letto sul serio perché aspetta ancora di essere scritto – per dire meglio: di scriversi.

Finnegans Wake, questo ”elefante bianco letterario” (l’epiteto è di Harold Bloom) è un libro che si infila tanto nel futuro da scomparire (da rendersi latente) nel presente. Le storie letterarie ci garantiscono che esiste, e che è stato scritto da un nominato James Joyce. Ma scritto fino a che punto? Forse una delle difficoltà di “impararne la lezione” (posto che ci si possa esprimere in maniera, così rozza) sta proprio qui: la scrittura di Finnegans Wake è un sogno di scrittura non meno dei sogni di Earwicker, del sogno di lettura di ogni suo lettore. Non è più dove leggiamo, ma già più avanti, molto più avanti. La qualità onirica della lettura di FW è stata messa in luce, mi pare, con grande finezza, da Michel Butor in Esquisse d’un seuil pour Finnegans; e se ne può sottoscrivere la deduzione che il romanzo joyciano non sia “la simple description d’un rêve mais une machine à provoquer et faciliter nos propres rêves”.3

Quanto all’ipotesi che si tratti di un testo che continui a gene­rarsi per così dire sotto i nostri occhi – anzi, proprio per effetto dei nostri occhi di lettori – rimanderei al saggio di Jacqueline Risset, sotto il titolo “Joyce traduce Joyce”,4 che analizza i due passi di Anna Livia Plurabelle voltati in italiano, nel 1938, dallo stesso Joyce insieme con Nino Frank, e poi con l’intervento di Ettore Settanni; traduzione stampata sulla rivista «Prospettive» (1940).

La Risset va perfettamente al centro dì questo esercizio traduttorio quando osserva: “La lettura della versione italiana consente un approccio privilegiato al lavoro di Joyce, attraverso la verifica che essa permette, in un’altra lingua, di quanto il suo autore definisce “tecnica di deformazione”, mostrando come questo tecnica si esercita in qualche modo “al di là” di Finnegans Wake, lavorando e differenziando ulteriormente la materia testuale...”; e ancora: ­“Il lavoro di traduzione non consiste in questo caso in una ricerca di ipotetici equivalenti del testo ‘originale’ (considerato dato, definitivo) ma in una elaborazione ulteriore, che rappresenta in rapporto al testo primo visto veramente – letteralmente – come work in progress, una specie di prolungamento, una tappa nuova, una differenziazione più spinta della materia verbale in attività.”

“La materia verbale” di FW non riposa nemmeno dentro le cancellate tipografiche che l’edizione Faber sembra offrici come alcunché di stabilizzato. Non è un enunciato mistico: il testo di Finnegans, come peraltro ogni grande testo letterario, contiene una forza germinativa che lo prolunga nel tempo e nelle letture; le sue potenzialità appaiono ancora oggi quasi totalmente intatte: la carica innovativo/esplosiva che incorpora, non è stata che in minima parte liberata e applicata.

Se come scrive ancora la Risset, Finnegans Wake, è “una ripresa e una messa in causa di tutto il linguaggio” (non una mera rielaborazione delle buone regole di “fare romanzo”), qualsiasi uso che non metta al proprio centro la realtà della premessa, facendosi smisurato in tale impegno, resta parziale, e in definitiva inutilizzabile.

Il Finnegans ha sedimentato il secolo a partire dalla sua metà, o poco più. Si potrebbe pure ipotizzare che il suoavvento abbia ria­perto i conti anche con ciò che l’ha preceduto.

È vero che Harold Bloom esprime una preoccupazione opposta: non tanto se Finnegans Wake verrà letto pienamente, ma se non smetterà di essere letto del tutto: “Il capolavoro di Joyce presenta tante difficoltà iniziali che non si può non provare ansia per la sua sopravvivenza. Temo che finirà per trovarsi in compagnia del grande poema epico di Spenser, The Faerie Queene.”5 Se, come ancora Bloom sostiene, Finnegans Wake comincia dove l’Ulisse finisce, la questione successiva sarà di capire dove il Finnegans finisce.

È una questione che in certo senso convive con la mia premessa che abbia appena cominciato a scriversi, e che tocchi ai lettori, agli scrittori di questo scorcio di Novecento portarlo ad essere ciò che è.

Fatico a citare testi degli ultimi cinquant’anni che, direttamente o indirettamente, abbiano tentato di farlo. Forse – magari senza forse – Carlo Emilio Gadda, nella gestione delirante della poliglottia e nella macheronizzazione della scrittura; Beckett, pour cause, e a suo modo Céline; Philippe Sollers (Paradis); forse un certo Faulkner, che stravolge l’idea stessa di regola romanzesca... . O ripiegare su esempi decretati iniquamente periferici e destinati all’evaporazione: penso al Pierre Guyotat di Eden Eden Eden e di Le Livre o al bizzarro libretto di Katalin MoInár, Quant à je (kantaje).

Parlo, s’intende, della famiglia dei narratori: i poeti offrirebbero, probabilmente, esiti meno avari.6 Anche se la distinzione non è sempre comoda: Balestrini starà dalla parte dei versi o del romanzo?

Ma del resto, questa spulciatura dei regesti letterari risulta sempre più dubbia, e fatua, man mano che, ripensandoci, un nome è aggiunto e un altro cassato. È possibile che anche l’influenza di Finnegans Wake sia un sogno – o che sia ormai tanto diffusa, e cogente, da renderci già i lettori che auguriamo in futuro al grande libro.

2. Quale forma prenderà (o prende) la “lezione” di Finnegans Wake? Chiudendo il suo saggio su Proust in Allegoria della lettura,7 Paul de Mann dichiara: “À la recherche du temps perdu racconta la fuga del senso, ma questo non impedisce al suo stesso senso di essere, incessantemente, in fuga...” Proust scrittore in opposizione a Marcel narratore sa che l’ora della verità, come l’ora della morte, non arriva mai in tempo... Anche il senso di Finnegans Wake non è già più lì, ma non perché sia in fuga, piuttosto perché tale senso è di continuo la produzione non stabilizzabile di se stesso – senso proiettivo, o se si voglia, esplosivo – en avant.8
Si tratta di un senso che viene gravato senza tregua di legittima suspicione. La scrittura del Finnegans è la scrittura del sospetto fonetico e semantico, cioè della parodia e della burla. Jacques Lacan avrebbe detto: del leurre, specchietto per le allodole.

Traumscrapt: si trova in FW 643.36. Lo scritto (script ma poi scrapt = frammento, pezzetto e to scrapt = cancellare, raschiare, eradere) detiene dunque lo statuto di trauma? La suggestione è tuttavia riduttiva. Una semplice occhiata al processo che Joyce fa subire al proprio linguaggio (a dire meglio: che il linguaggio di Joyce fa subire a se stesso) mostra che l’ipotetico trauma d’avvio si moltiplica, attraverso il romanzo, a spirale in un crescendo di complessità e velocità. Il Finnegans è un grande Ludus Mentis, dérèglement parossistico di tutte le facoltà della lingua, a petto del quale restano distanziati i giochi eleganti ma, come dire? gnoseologicamente limitati del Jabberwocky carrollìano. Altro che mot-valise che agglutini, da buon motto di spirito, etimi e fonemi diversi! “Il gioco parodistico non si esercita sulle singole parole, ma su unità strutturali ben più ampie” come rimarca Giorgio Melchiori.9 La disgregazione e la deformazione della cellula linguistica viene via via somatizzata dall’intera diegesi joyciana: coinvolge luoghi comuni, stereotipi espressivi, versi, slogans, citazioni esemplari… Come in una sorta di contagio, l’equivoco, il mal-à-propos, il lapsus occupano la pagina.

Frammentazione atomica e espansione ecolalica sono i due tempi, concorrenti e compresenti, della scrittura (m’era venuto da battere: scruptura) di Finnegans Wake. Si potrebbe utilmente indugiare sulla funzione propulsiva affidata, per esempio, alle allitterazioni. Ma la propulsione non riguarda semplicemente la trovata verbale, l’articolazione inopinata della frase; essa guadagna via via, fino a determinarle e a comandarle, le strutture narrative. L’idioletto diventa il principio edificatorio del libro.­ La scheggia, o prelievo, “panepi phanal wold” (611.13) è un condensato criticamente valido dell’intero Finnegans – e panepiphanal è aggettivo o neoaggettivo così squisitamente joyciano, nel congiungere la velocità di abbaglio del fantasma con il gioco lessicale.

Finnegans Wake è stato scritto attraverso – come si dice di qualcosa che si deponga, si stenda attraverso uno spazio – Freud. Sarebbe banale constatarlo, se non si aggiungesse che questo attraverso si adempie in una tecnica di proiezione linguistica delle categorie (analitiche) di condensazione e spostamento, finora mai eguagliata in pertinenza ed efficacia.

Il lavoro di sconvolgimento linguistico di Joyce andrà riletto, e ripreso, a questa stregua. Il Finnegans ricompitato secondo i moduli della descent e dell’origin (termini che non a caso compiono nei titoli di due opere capitali dì Darwin: “Charley, you’re my darwing!” FW 252.28), può anche essere un suggerimento legittimo: se è vero che il libro, nelle sue straordinarie dispersioni/ricoagulazioni, persegue l’identità, pura, mitica e dunque improbabile, dell’“origine” etimologica e fonetica, e insieme la “discesa” delle filiazioni innumerabili di senso e di figura.

Come nel ventre del Cavallo di Troia, nel ventre di Finnegans Wake la letteratura novecentesca è trasferita (trafugata?) non appena nel secolo venturo, che Joyce voleva occupato dalla dedizione degli scoliasti alla sua opera; ma in quel­lo spazio che il libro già è – e di cui bisognerà decidersi a esplorare i confini, se ce ne sono.

3. Finnegans Wake è una corposcrittura, una fisiologia smisurata che arriva a metaforizzare i propri processi. Apro il volume alla sequenza da pagina 185 (a partire dalla riga 14) a pagina 186 (fino alla riga 8): dove si racconta l’operazione alchemica attraverso la quale Shem the Penman, Shem lo scrittore (vale a dire Joyce) produce dal suo corpo, e sul suo corpo, l’atto di scrivere. Secondo un brano in latino, poi tradotto, se così si può dire, in lingua finneganiana, Shem distilla dalle proprie feci e orina, un inchiostro indelebile (encaustum sibi facit indelible) (faked O’Ryan’s, the indelible ink): dopo di che ...with this double dye... this Esuan Menschavik and the first till last alshemist wrote every square inch of the only foolscalp available, his own body, till by its corrosive sublimation one continuous present tense integument slowly unfolded all marryvoising moodmoulded cyclewheeling history…” Quanto a dire che con quell’inchiostro organico viene scritta sulla pelle di tutto il corpo di Shem una storia circolare, insieme lieta e triste, definizione da riferire direttamente a Finnegans Wake. Non solo il foglio su cui compare lo scritto è dunque il corpo stesso, ma la scrittura può rendersi visibile esclusivamente mediante le secrezioni, i rifiuti, i déchets corporali (feci e orina, “a not uncertain quantity of oscene matter not protected by copriright in United Stars of Ourania”.)

L’atto scrittorio viene pertanto  drasticamente degradato alla fisiologia, dalla contiguità con figure coprolaliche (del resto “coprology”, con i suoi derivati, è già incorporata nella formazione di “copriright”, in luogo di “copyright”).

Così la pura, astratta interiorità della pagina bianca mallarmeana cede il passo alla visceralità, della pelle umana, sfera per definizione bassa, a non dire infima.

4. Torno a Lucy, non a caso. Non si tratta di spostarsi alla biografia dell’autore, alle sue occorrenze, anche più drammatiche; ma di restare sempre dentro il testo, come risultato globale dell’esistenza. Lucy è il sintomo di Finnegans Wake in Joyce – nel senso, vorrei dire, propriamente clinico: la clinica, s’intenda, del linguaggio. “Ogni scintilla di talento che io possiedo” disse Joyce una volta “è stata trasmessa a Lucia e le ha acceso un fuoco nel cervello.”10 Discutendo con Jung, che aveva preso in cura la ragazza, schizofrenica, sostenne che alcune poesie scritte da Lucia erano “i prodromi di una nuova letteratura” e che sua figlia era “un’innovatrice ancora incompresa”. (Del resto, “the old Sykos”, come riferisce EIlmann, “vedeva in quel rapporto fra padre e figlia una specie di identità o partecipazione mistiche; definiva Lucia l’anima inspiratrix del padre.)

Joyce aveva tutte le buone ragioni, peraltro, di provare qualche diffidenza, e ironia, per queste prospettive “easily freudened”. Un altro “sykos”, ben diversamente armato e orientato, Jacques Lacan, ha preso in conto nel suo seminario “Le sinthome”,11 che investe largamente l’opera di Joyce, l’importanza dell’”elemento Lucia”, mettendolo in relazione con “la parole inspirée” (“a savoir qu’à l’endroit de la parole, quelque chose lui etait imposé. Dans le progrès continu de son art, en effeat, à savoir cette parole, parole qui vient à être écrite, de la briser, de la démantibuler, de faire qu’à la fin ce qui à le lire paraît un progrès continu, depuis l’effort qu’il fasait dans ses premiers essais critiques, puis ensuite dans le Portrait de l’Artiste, et enfin dans l’Ulysse, pour terminer par Finnegans Wake, il est difficile de ne pas voir qu’un certain rapport à la parole lui est de plus en plus imposé, au point qu’il finit par briser, dissoudre le langage même, par le décomposer, puisque il n’y a plus d’identité phonatoire..” (ho rispettato le ripetizioni e gli anacoluti del “parlato” lacaniano, nella prima trascrizione del seminario su «Ornicar»).

Lucia sarà dunque il sintomo della “polyphonie de la parole” di Finnegans Wake, poliphonie “démantibulatoire”, “imposé” e insieme straordinariamente autonoma, creatrice. Si potrebbe designarla, per seguire il lessico di Lacan, l’allucinazione telepatica, che percorre il grande libro – non meno, peraltro, del motivo “radiofonico” e di quello “postale”. La “parole inspiré” ha qualcosa da spartire con le “fermented words” che si incontra in FW (184.26)?

Il gran corpo romanzesco di Finnegans Wake procede da un regime folgorativo di paronomasie – é un libro paronomastico. Ma è anche un testo che suppone alle sue radici una condizione come dire? fantasmatica di eteronimia. Bloom: “Earwicker cioè Everyman è anche Dio, Shakespeare, Leopold Bloom, il maturo James Joyce, re Lear (e anche Re Lear), nonché Ulisse, Cesare, Lewis Carroll, lo spettro del padre di Amleto, Falstaff, il sole, il mare, il monte, tra molte altre cose...”12 Dove situare l’ortonimo?

Credo di avere suggerito che ci sono molte ragioni perché un qualunque discorso sul romanzo futuro debba cominciare (ri-cominciare) con il Finnegans. Una mi pare questa: che esso non promette al lettore nessuna garanzia di verità (se si vuole scriverò addirittura: Verità). Finnegans Wake è l’antifrasi della pretesa tradizional-convenzionale della letteratura: esibire significati.

Il legato fondamentale di questo testamento joyciano sta, credo, nell’avere innovato il modo di ricevere e articolare la pulsione romanzesca. (Ma perché poi parlare funereamente di legato? Si dica: preannunzio).

5. Il già citato saggio di Michel Butor si conclude con l’ideale omaggio, metà rispettoso metà ironico, di un “bouquet de quelques oignons” a Tim Finnegan, H.C.E. Dovrebbe invitare anche noi, lettori e scrittori degli ultimi Anni Novanta, a qualche offerta votiva che ci propizi una lettura finalmente attiva di Finnegans Wake.

 

 

 

Note

1 Ellmann, Richard. James Joyce. Milano. Feltrinelli. Pag. 837.torna su
2 Cixous, Hélène. Prénoms de personne. Paris. Seuil. Pag. 233.torna su
3 Butor, Michel. Répertoire. Paris. Editions de Minuit. Pag. 226.torna su
4 Risset, Jacqueline. “Joyce traduce Joyce” in: J.J. Scritti italiani. Milano. Mondadori. Pagg. 197 – 201.torna su
5 Bloom, Harold. Il canone occidentale. Milano. Bompiani. Pag. 874.torna su
6 Vedi la microantologia nel libro di: Barilli, Renato. Viaggio al termine della parola. Milano. Feltrinelli.torna su
7 De Mann, Paul. Allegoria della lettura. Torino. Einaudi. Pag. 86.torna su
8 Cixous Hélène. Ibidem. Pag. 233. “C’est en avant, au-delà du connu que l’attend la voix textuelle encore inouÏe qui lui dira après tout son nom de personne..”torna su
9 Melchiori, Giorgio. Introduzione a Finnegans Wake H.C.E. Milano. Mondadori. Pag. XLII.torna su
10 Ellmann, Richard. Ibidem. Pagg. 737- 757.torna su
11 Lacan, Jacques. Le Sinthome. Paris. “Ornicar” fascicolo 8. Pag. 17.torna su
12 Bloom, Harold. Ibidem. Pag. 379.torna su