Vincenzo Guarracin 
“SIGNORE, FA’ CHE QUALCOSA RIMANGA”      
Il difficile lascito di Roberto Sanesi
 
C’è un’intuizione di Walter Pedullà, contenuta in una riflessione critica sulla raccolta L’incendio di Milano, secondo il quale a proposito delle immagini di Sanesi si deve parlare più che di “una eloquente visività”, soprattutto di “visionarietà”, che il critico intende come “traduzione... in figuratività” dell’informe dei “sogni” e degli “incubi”.
 
È da qui che bisogna partire, da questo termine visionarietà, per inquadrare e capire l’opera di Sanesi, non solo quella “visiva” ma anche quella “lineare” e “versuale”. 
 
Visionarietà vuol dire che l’esperienza di un oltre e di un altrove si fa progressivamente visibilità, scrittura, scegliendo di volta in volta la parola o il colore (il segno e gli inchiostri colorati), sempre comunque attenta all’effetto, all’”emozione” di cui parlava Giacinto Spagnoletti, alla necessità di tradurre sulla carta l’informe in figuratività. 
 
Si tratta di un processo proteso a riprodurre il movimento di un pensiero (o di un sognoincubo che sia) verso la sua apparizione e la concretizzazione in immagini e personaggi, figure in grado di suggerire più che di dire, di sedurre e fuggire con perfetta autonomia rispetto al soggetto, per rendersi disponibili in un altrove di pagine e libri a nuove imprevedibili metamorfosi nell’intrico inquieto e avvolgente dei versi. Restando, comunque, sempre ostinatamente “contemporanee” a se stesse, come aveva precisato già Tadini (1958), e a se stesse soltanto somigliando, per oscure e “incompiute” che possano apparire.
 
È questo il lascito “difficile” ma fecondo di Sanesi ed è a questo forse che alludeva, oltre che in una nota dell’’82, di Carte di transito (“noi siamo più strettamente legati con l’invisibile che con il visibile”, affermava non a caso parafrasando Novalis), in un testo contenuto nella raccolta L’improvviso di Milano (1969), Esperimenti sul metodo
 
Visibile e invisibile: è facile
a dirsi: così come ti vedo 
accadi in me e mi modifichi, sono
una semplice nota fra le parole indistinte
/.../
     negare 

anche la mia somiglianza, espellere da me
me stesso e le mie immagini: accettare   
    una nuova distanza. 
 
Si faccia attenzione anche al titolo del testo appena citato, Esperimenti sul metodo. Contiene un’idea di appressamento e insieme di incompiutezza, di rigoroso e di empirico e insieme qualcosa che programmaticamente esclude ogni coinvolgimento personale, ogni emozione essendo rigorosamente bandita, in linea con quanto aveva affermato Eliot (“La poesia non è un libero sfogo di sentimenti ma un’evasione da essi; non è espressione della personalità ma una evasione dalla personalità”, Traduzione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano 1985, p.79). 
 
Più tardi questo concetto di “fuga dall’emozione” troverà ulteriore e più energica conferma: “Non mi fido / delle emozioni, / della coscienza che cade bruscamente / nell’invisibile” (Autoritratto con attori e verde, in La cosa scritta, 1977). 
 
Perché? Perché la realtà in cui il poeta si trova immerso è ostile, aggressiva (“Signori miei, lo confesso: da anni / questa realtà che porta di traverso / un cappello ridicolo e assomiglia / a un personaggio di Brecht, ansiosamente / mi fa cenno dagli angoli, ma è raro / che parli  il mio linguaggio, e mi assicuri / di non essere identica a me stesso”, Questa realtà, in Rapporto informativo, 1966) e impone risposte non evasive. Impone rigore, determinazione: di “negare / tutte le negazioni”, come aveva detto nella sezione V di Rapporto informativo
 
In uno scenario che diventa sempre più astratto, una città “pensata non vissuta”, Milano, diventata “luogo della solitudine pubblica”, al poeta non resta altra risorsa di persistenza che il rifiuto inteso come autentico progetto di vita: “Bisogna / attenersi a un progetto. Proporlo. Seguirlo. Drammatizzare” (L’improvviso di Milano ovverossia La solitudine pubblica ha una scimmia in tasca, 1967).  
 
“Parole in movimento” (non “parole nel caos”), come le aveva definite già nel lontano 1970 Elio Filippo Accrocca a proposito de Il feroce equilibrio: parole che si inventano liberamente misure e intonazioni a seconda della mobilità stessa dell’emozione, di quello che leopardianamente si potrebbe definire “sentimento al presente”, salvo il fatto che qui emozione e sentimento si situano nelle cose, negli oggetti, insomma fuori paradossalmente dal soggetto, che si scopre così oggetto fra gli oggetti, segno, “semplice nota fra le parole indistinte”, con l’ambizione non tanto di decifrare (cosa impossibile) quanto di descrivere e rappresentare l’informe. 
 
          Non voglio
rinunciare agli oggetti
ma abitare gli oggetti nello stesso modo
in cui si è visitati dai concetti
 
dichiara ancora in Esperimenti sul metodo, ed è una vera e propria dichiarazione di poetica, valida almeno per quegli anni di confronto-scontro col reale, oltre che in sede privatamente poetica di “auscultazione e obbedienza nei confronti dell’inconscio”, come lucidamente precisa Ruggero Jacobbi (La solitudine pubblica, 1976, p.30).
 
“Abitare gli oggetti”, non meno urgente e necessario che essere “visitato dai concetti”: è dentro questo duplice ordine di intenzioni e volontà che si situa l’avventura conoscitiva ed espressiva del poeta e il risultato è un’esperienza di scrittura, di trascrizione di un dettato profondo che può farsi perfino lirico consenso alla bellezza ordinaria del reale, “collage di desideri”, certo, ma nel cui centro si nasconde sempre “un uomo”. Insisto su questo passaggio, perché mi sembra che, per quanto marginale, contenga il segreto di questa esperienza divisa tra immagine e parola. Proprio a questo mi pare che possa applicarsi come didascalia o corollario l’appunto riesumato da Giuseppe Langella tra le moltissime carte inedite ritrovate e proposte in appendice a L’interrogazione infinita e qui disposto sotto il titolo Il testo poetico e le sue interpretazioni. L’appunto, che appare senza data, recita testualmente nel primo dei quattro paragrafi (o aforismi) numerati di seguito al significativo assioma “Mi dispiace di essere prevedibile”: “1) mi piace una poesia capace di seguire le divagazioni della mente, i vagabondaggi del pensiero, le associazioni imprevedibili”.
 
È questo un concetto su cui Sanesi ritorna anche in un testo in prosa molto significativo, ossia ne La polvere e il giaguaro (1972, poi 1990), resoconto in forma narrativa su un’esperienza di viaggio, in cui a un certo punto organicamente argomenta sul tema:
 
“Lasciare che i pensieri se ne vadano per conto loro, che fluiscano pure secondo la loro apparente scombinata natura – e poi acchiapparli, bloccarli con uno spillo, zac, sulla tavoletta, ripuliti e organizzati; perché è solo scrivendo, comunque, che si scrive (è solo vivendo che si vive, non è vero?) e quello che volevi fare lo saprai solo dopo averlo fatto”.
 
È un metodo, questo, più che un discorso definito: una prassi da rispettare e che richiede costanza e applicazione, come ripeterà molti anni più tardi, nel 1994, anche testo più intenso e significativo dei suoi umori civili e poetici, L’incendio di Milano, 1994, (“Bisogna / attenersi a un progetto. Proporlo. Seguirlo. Drammatizzare”). Perseguirlo, benché lo si riconosca impossibile da realizzare e portare a termine: interminabile, insomma, come l’analisi e l’elaborazione freudiana del sogno. 
 
A proposito di questo testo, da cui prende il titolo l’antologia che raccoglie buona parte della sua produzione poetica dal 1957 in poi, val la pena, per inciso, ricordare quanto in nota Sanesi stesso precisa ricordando occasioni e motivazioni della sua composizione: “Fra il gennaio e il febbraio del 1989 avevo scritto alcuni frammenti che avevo poi interrotto con il titolo provvisorio di Architetture del fuoco. Mi aveva spinto a riprenderli, ampliarli e organizzarli, l’invito di Antonio Porta a fornire un testo su Milano per le edizioni Rizzardi. L’attuale titolo L’incendio di Milano nasce da questa occasione, e Porta lo aveva preferito “per essere più diretto”, e non per questo meno metaforico”. 
 
In un testo della raccolta Mercurio (1994), il concetto della necessità di un metodo e di un “progetto” ritorna esplicitamente:
 
Travestito da sogno, disseminato
per infinite pianure,
perseguitato da troppi indizi per essere
capace di orientarmi, a volte immagino
di prevedere luoghi precedenti, spingendo
sempre più avanti il segnale
che definisce il campo, il fossato, il filare,
come seguendo nell’ombra che si sposta
la sferza della trebbia, il fuoco fatuo
del grano che precipita in pulviscolo. E penso
in questi casi al ritorno, essendo la pianura
un turbine di vuoto attraversato
da una sola figura, che non mi assomiglia.

 
(Per infinite pianure)
 
C’è un’evidente angoscia in tutto questo. Una sorta di coazione a ripetere gesti, parole, situazioni, attraverso cui un io “disseminato” e “perseguitato” cerca il suo centro, un luogo da riconoscere e in cui riconoscersi.

Ma tutto questo perché, a che scopo? La risposta sembra essere contenuta in una nota apposta ancora ad alcuni frammenti aggiunti al testo prima citato, ossia L’incendio di Milano, a proposito dei quali dice che “non hanno ancora trovato una collocazione certa all’interno” del poemetto stesso, e questo perché la sua natura è tale da poter essere “considerato aperto ad ogni aggiunta e variante possibile”. Un’opera aperta, dunque, in fieri e tale le sue disiecta membra possono vivere anche autonomamente, senza patire alcuna mortificazione e diminuzione, e anzi protendendosi verso una futura, impossibile ricongiunzione e unità. 

Fa venire in mente un autore che per tutta la vita, per sua esplicita ammissione, non ha fatto altro che “preludiare”, disporre cioè la sua voce, la sua “lingua mortale” a intonare un canto forte, capace di esorcizzare ogni paura. È Leopardi che dice ciò. Chi non l’ha riconosciuto? È Leopardi che così risponde a un giovane, Louis Lébreton, che con ammirata ingenuità lo interpella sul segreto della sua poesia. 
Un canto contro i fantasmi della paura, un esorcismo delle ombre: “chi teme canta”, aveva detto in una celebre annotazione dello Zibaldone (3527), suggerendo una chiave di comprensione non solo della propria esperienza di canto.

La parola, il canto, come un appressamento e un invito ai fantasmi della mente e del cuore, perché si tramutino, se non in una consolante armonia e in un “ameno inganno”, almeno in una teoria più o meno ordinata di suoni, di eventi che si fanno linguaggio (“la poesia è quei fatti nel linguaggio”, marzo 1977, in Carte di transito, 1989), in grado di aiutare a metabolizzare e neutralizzare il nero della notte e della vita.
Come le virgiliane “umbrae” del Libro VI dell’Eneide e i “simulacra luce carentum” che aspettano di ritrovare la forza del corpo e dell’apparenza a dispetto della loro illusorietà, Sanesi fa affidamento sulla parola della scrittura come su una parola molto “umana” portatrice di pensiero, strumento di un’avventura essenziale nell’Acheronte della vita: una parola cosciente della propria qualità, niente affatto incline al sublime o innamorata dei propri orpelli, ma anzi umilmente protesa ad ogni anche contrastante apparizione.

“Vi sono poeti che cantano”, dice in un appunto datato marzo 1977, in Carte di transito. “Altri semplicemente parlano. Per quanto mi riguarda, mi sono proposto da sempre di ragionare. Ciò non impedisce che talvolta il ragionare venga afferrato dal canto”.

Un ragionare, a tratti contorto, paradossale, apoftegmatico, che, incontrandosi con la scrittura, dà corpo a “un oggetto mobile e senza riscontri immediati, che sfugge a ogni apprensione e per questa fuga, facendosi impenetrabile, disvela non solo una totale e utile libertà... ma anche, per contrapposizione, il totalitarismo di quei sistemi che vorrebbero far proprio il processo creativo”: è questa la poesia, un corpo a corpo con le ombre, incurante di qualsivoglia fatuità estetizzante, una sorta di “battaglia d’amore in sogno”, come Polifilo che insegue la sua Polia, per parafrasare il titolo dell’opera, l’Hypnerotomachia Poliphili, dell’umanista eteroclito Francesco Colonna, che tanto suggestionava Sanesi e cui tanto nell’intimo sentiva di somigliare come suggerisce, se non altro la straordinaria Elegia della già citata raccolta La differenza (1988).

“Mi piace una poesia capace di seguire le divagazioni della mente, i vagabondaggi del pensiero, le associazioni imprevedibili”, diceva l’appunto in appendice a L’interrogazione infinita già prima citato. 

È un corteggiare ed elaborare l’informe, quello che vi si auspica: l’invito a seguire in assoluta libertà le “divagazioni della mente” attraverso un “ragionamento”, nel suo senso più etimologico di allineare e porre in ordine, disponendosi per esso alla rapina del “canto”, alla cattura dell’istante, prima di esporsi all’alea dell’interpretazione e del commento. Non a caso il quarto paragrafo (o aforisma) recita: “Una poesia la immagino come la somma di tutte le interpretazioni possibili”. Libertà del poeta ma anche libertà del lettore, dunque: entrambi disposti di fronte alla parola poetica con assoluta disponibilità e umiltà. 
 
Si tratta di un concetto che si ritrova ribadito anche in un passo di Elegia (“Allora, perché non discutere dell’imminenza?”), con l’aggiunta che ciò è possibile solo a patto di servirsi di “immagini dipinte” e di “oggetti veri, parole”, gli unici strumenti “umani” attraverso cui costruire un discorso di libertà in un processo di “associazioni imprevedibili”: 
 
“Allora, perché non discutere          
        dell’imminenza? 
Con immagini dipinte.        

        Con unguenti preziosi, elaborati.
Quattro. O forse tre. Con odore d’incenso.
In una specie di fumicosa spelonca ecclesiale.
Essendo sempre difficile determinare il numero.    
        Per sovrapposizione. Per sdoppiamento.
.....
 I libri sbriciolati. La finzione
che finge la finzione.
Gli oggetti veri, parole. Perché?...” 
 
Un canto dell’imminenza, dell’attesa (o forse ancora meglio “dell’immanenza”, di ciò che è intrinseco alle cose, alla vita): un canto che evoca e interpella pensieri che sono dentro, che vivono perfettamente consustanziali a ciò che appare, attraverso immagini dipinte e oggetti vari
 
Imminenza e immanenza, dunque, si incontrano e collidono sulla scena di un realtà metropolitana (spesso una plumbea e nebbiosa Milano, città emblema dell’Occidente, non meno di quanto lo fosse Londra per Eliot della Terra desolata), di un reale di disarmante squallore: c’è sintetizzata la sua esperienza intellettuale, l’attraversamento delle putride acque stagnanti che imprigionano la “minuscola barca” della sua avventura esistenziale e creativa nella molteplicità dei suoi campi di interesse. 
 
Isola nera e triste, misera terra, voce
rotta nel ritmo placido del remo, qualcuno
sulla minuscola barca mi mormora, vento
perduto in mezzo ai loti, respiro, non più
che una farfalla di vento fra le alberature, forse
un’altra annunciazione... 

 
In altra occasione avevo evocato, a sostegno, immagini di leziosità settecentesca, impossibili imbarchi a Citera, viaggi per isole fortunate e favolose. Oggi, a rileggere questi versi di Elegia, questa attacco soprattutto, colpisce e sgomenta l’immagine inquietante di quest’”isola nera e triste”, che fa pensare a certi incubi di Johann Heinrich Fussli o al Caspar David Friedrich del Monaco in riva al mare, ma ancora allo scenario marino della improbabile Milano della shakespeariana Tempesta, già altrove affiorato tra le melme e i miasmi dei Navigli delle Poesie per Athikte (1959), come appare evidente da questo passaggio di Proposizione:
 
Io ti contemplo qualche volta, Ariele,
quando percorri l’acque risonanti, e il cielo
cupo della città lungo il Naviglio, e i ponti,
e dici che se il mondo non avesse – e il ferro
dei ponti irrita il fiume – altra sostanza, allora
il fatto che il tuo canto soavemente
senso volando affermi, e Duca ora mi creda
e veda Ariele sopra i tetti, è certo
solo dipenderebbe da un più vero incontro
della realtà con te. Pure ti vedo e ti contemplo,
a volte, e so dell’impossibile figura
nata da ritmi e sillabe: il tuo canto
fugge impietosamente oltre le rive e muore
vivo per altri fiumi. La città è di pietra.

 
Certo, quella clausola “La città è di pietra” fa venire in mente un’altra clausola di molti anni dopo, “la bellezza è morta?” (L’incendio di Milano, 1989),  ma soprattutto un’altra celebre e drammatica formula conclusiva della nostra poesia contemporanea, a quel “la città è morta, è morta” di Milano, agosto 1943 di Salvatore Quasimodo, un poeta cui Sanesi era rimasto fedele per tutta la vita, a partire da quando ne aveva curato per Guanda un’antologia di Poesie scelte, all’indomani del Premio Nobel, premettendovi un saggio di notevole ampiezza e rigore (ripubblicato poi in Omaggio a Salvatore Quasimodo, “Inventario”, anno XVI, 1961). Una fedeltà, per esempio, che detterà più tardi, oltre a innumerevoli più o meno esplicite citazioni, anche un testo poetico a lui chiaramente dedicato, In memoriam, contenuto in Altergo & Altre Ipotesi (1974), in cui il poeta “incontrato in sogno”, all’interno di un paesaggio rannuvolato e inquieto, gli conferma la propria presenza e persistenza (“Hai / solo piegato il labbro, sì, ombre / dietro di te leggere, e / “non ho paura, sono”, forse / ti è salito negli occhi col silenzio”), oltre il tempo della dimenticanza e della memoria.  
 
Ma qui, in Proposizione, siamo un passo già oltre l’amicale sodalizio per altri versi straordinario con l’autore di Giorno dopo giorno (1947): siamo nella zona di un canto, che, pur “vivo per altri fiumi”, frequenta già acque di un’”altra” modernità, aspira per esse a “un più vero incontro / della realtà”, quale è la sfuggente dimensione di un io che ormai si colloca sul difficile discrimine tra visibile e invisibile, tra imminenza e immanenza. Frequenta senza imbarazzo, per dire, Dylan Thomas e T.S.Eliot, Vernon Watkins, Archibald MacLeisch (quello di “Poetry is”), Edward M. Forster e Robert Frost (che nell’introduzione alle sue opere complete, come viene ricordato in una nota di Carte di transito scrisse che “la poesia comincia dando piacere, e finisce in saggezza”): un mondo “altro”, insomma, “differente”, che, “a nord dei trent’anni”, gli fa “disprezzare l’endecasillabo facile” e attraverso “la luminosa oscurità delle parole”, pone “l’essere” e la sue “contraddizioni” a contatto con “l’ombra” dell’io, con il Sé “che lievemente ascende, seduto nel giardino” (A nord dei trent’anni, in  Oberon in catene, 1962).   
 
Come sfuggire, soprattutto sapendo come è poi andata a finire, ad avvertirvi un chiaro presentimento della fine, la sensazione che in lui già agisse l’occhio profetico di una tragica premonizione, in questi versi di Elegia?
 
                        ... Le acque
frusciano come calabroni lungo la chiglia solenne,
abbiamo fatto tardi,
si è sgretolato il legno delle mani,
caduto il remo,
precipitato il silenzio,
gridato il riso dell’albatro,
recuperato il molteplice,
il centro...

 È un’avventura, lo sentiamo ma a posteriori, che s’approssima alla fine, al suo “centro”, e lo avvertiamo da come appare più tesa e luminosa per noi che la osserviamo “da una certa distanza”, e quanto più inquietante e inestricabile si era fatta per lui. 
 
Questo lo ha notato acutamente anche un giovane critico, Marco Merlin, che in un saggio uscito sulla rivista “Testuale” (XV, 1999, 26-27) e poi riproposto nell’Interrogazione infinita, ha riconosciuto e argomentato la tendenza dell’ultimo Sanesi a “un nuovo equilibrio espressivo, che mantiene le acquisizioni di tutto il suo percorso, ma ricuperando un dettato meno nervoso e una visibilità più densa”, conservando con “prodigiosa coerenza” anche nell’”accumulo oggettuale e nominale” la sua più riconoscibile cifra espressiva, consistente nella “capacità di controllare non solo l’immagine che si presenta, come un’apertura di senso, al poeta,...ma lo stesso sguardo che l’accoglie”. 
 
Minaccia, ecco la parola che emerge con semantica evidenza e prepotenza proprio nel testo eponimo dell’ultima raccolta, Il primo giorno di primavera (“Ma chi, perché, in che senso / mi state minacciando?”).
 
Come dire che di fronte all’agguato delle forme, all’intimidazione di una realtà insostenibile, l’io si sente oscuramente aggredito e “perseguitato” (come ammetteva in Travestito da sogno della raccolta Mercurio), e non trova altra risorsa che l’attesa e l’abbandono all’informe del caso, modulando con circospezione paratattica una ferma deprecatio delle proprie paure. 
 
Che altro è l’inquietante e struggente Poesia per quattro aggettivi se non l’estremo appello alle proprie forze e alla propria voce poetica, davvero “voce sbigottita e deboletta” di cavalcantiana memoria, perché da un grumo grammaticale e sintattico sgorghi alto ed energico (energetico), per noi, un messaggio e un testimone di speranza? Val la pena citare di nuovo, per la sua pregnanza ed emblematicità, un testo già prima ricordato: 
 
“La pianura implacabile dei corvi.
Il nero denso che racchiude i corpi.
Il gracchiare pensoso della vita.
Tutta questa bellezza inenarrabile”.

 
 (Poesia per quattro aggettivi)
 

Ecco delineato, in parole chiare e prosciugate, dicibili e ferme nella loro drammatica referenzialità ed esattezza, un paesaggio di attesa e di paura, lo scenario di una allucinata percezione di sé sulla scena dell’esistenza. Implacabile, denso, pensoso, inenarrabile: condensato in quattro aggettivi, c’è il senso di una vita che ha creduto nella parola poetica e fino alla fine si è ostinata a farne “il centro”, il fulcro di emozioni e pensieri. 
 
“Perché portare a termine
quando nessuno, in giardino,
ha mai visto il mio glicine concluso.
Se allora fosse il fiore il fallimento,
questa, diremmo, è la bellezza del mondo,
la sua esperienza visibile”.

 
 (Senza data)
 
A lui, all’autore, ha dato la certezza di aver dato voce e concretezza attraverso la scrittura a una “bellezza” apparentemente effimera e gracile, quale è quella di un fiore, del “glicine concluso” del suo giardino, a lui soltanto visibile, quasi incarnazione della forza tenace e vilipesa di una leopardiana ginestra tra il nerume del vulcano e della vita. A noi, un lascito di emozione duratura e “inenarrabile”, talismano nelle tempeste della vita.
 
Una considerazione, infine, sul verso che intitola il capitolo, “Signore, fai che qualcosa rimanga”. Lo si ritrova in Moltiplicando le porte che si aprono, contenuto nell’Omaggio a Roberto Sanesi (2001, curato da Franco Cajani), un testo inedito e senza data, ma che si ha ragione di ritenere appartenente agli anni ’90, per tutta una serie di riferimenti che rimandano al poemetto L’incendio di Milano (1989 e ’91).
 
Quell’umanissima preoccupazione che “qualcosa rimanga”, pronunciata com’è alle soglie del silenzio, ha una forza tale da impegnare tutti, critici e lettori, a prendere atto che il discorso sulla poesia, su questa poesia, non può ridursi a una “disputa elegante”, a una questione da risolvere soltanto in un inutile “vento” di parole.