Rosa Pierno
La Scienza e l’Arte
Quello
di Romano Gasparotti è un piccolo libro “Il quadro invisibil”e
Cronopio, 2015, di appena ottantotto pagine, ma contiene molte tesi
sulle quali vorremmo esprimere una personale opinione, che, alla fine,
ci consentirà di osservare alcuni punti di contatto fra arte e scienza.
Gasparotti si diparte dalla definizione dell'arte come oggetto
datane da Kant, il quale distingue la bellezza libera, che spetta per
eccellenza alla musica priva di testo, la quale non significa nulla,
dalla bellezza aderente che è condizionata dall'oggetto, la quale può
accompagnare qualsiasi tipo di conoscenza, anche scientifica, non
essendo propriamente estetica. L'oggetto diviene dunque ciò che è
esterno all'arte, che anzi la caratterizza negativamente in quanto
escremento, in quanto è ciò che resta di essa. Fin qui Kant. Ricordiamo
che chi si è posto in posizione diametralmente opposta è Maurizio
Ferraris, il quale ha ridotto totalmente l'opera d'arte a un oggetto
fisico, riconciliando la posizione realista con il nostro pensare e
sentire comune. Egli afferma che l'ermeneutica è da spodestare per un
grave errore commesso sia in relazione alla sua pretesa di
risolvere l'estetica al suo interno, e cioè di dissolvere il mondo
sensibile nel linguaggio e nell'interpretazione, sia di contrastare
l'idea kantiana che non ci sono fatti, solo interpretazioni.
Ferraris, infatti, denuncia l'esistenza di una "fallacia
trascendentale, ossia della confusione tra ontologia ed epistemologia,
tra quello che c'è e quello che siamo legittimati ad asserire a
proposito di quello che c'è" (da "Estetica razionale", Raffaello
Cortina, 2011).
Ma se riducessimo l'arte all'oggetto,
per Gasparotti, il teatro, la danza, la musica resterebbero escluse.
Inoltre, "Se l'opera pittorica si identificasse con l'oggetto-quadro,
essa avrebbe il valore della cornice, della tela e della quantità e
qualità dei colori impiegati", invece " l'opera d'arte non è mai
totalmente riducibile all'oggettività di un prodotto del lavoro umano",
che scatenerebbe inevitabilmente la giustificazione per la sua
mercificazione. Se Gasparotti sposa appieno la tesi di Magritte: "la
potenza artistica del quadro è tutta riposta nell’invisibile”, noi
proponiamo la posizione di Erwin Panofsky, il quale pone l'immagine a
metà strada tra l'idea e l'apparenza sensibile, tra il mutevole e il
contingente.
Gasparotti, nel ribadire che l'arte
non è un linguaggio e non si affida ai segni, ma ai simboli, argomenta
che si deve agire "contemporaneamente sulla sospensione della
somiglianza legata all'icona visiva, quanto del vincolo della
significazione legata alla parola". E nel dire che il significato "è
totalmente altro dal significante" aggiunge: esso "non è un oggetto
fisico e non è un dato sensibile". In tal modo ci ritroviamo
scaraventati lontano, in compagnia di Aristotele, dal violento atto
cartesiano! Non è che le opere d'arte smettano di essere "figurazioni
del possibile" solo perché non si sia operata questa divisione. Il
filosofo veneziano ribadisce: "figure e parole nelle opere d'arte
contemporanee non funzionano affatto come meri segni e quindi non si
riferiscono ad alcun oggetto", ma semmai agiscono in maniera simbolica,
non riducendosi alla sola visibilità. Riteniamo che ciò non rispecchi
la molteplicità e la complessità di quel che accade nell’arte
contemporanea.
Ancor meno ci troviamo allineati
sull'affermazione, carica di un certo dispregio, per un tipo di critica
e storiografia dell'arte che continuerebbe "a descrivere, classificare
e catalogare gli oggetti dell’arte”. Pensiamo che l’arte, come non è
definibile, non è nemmeno affrontabile o restituibile se non
parzialmente e con strumenti diversi. Ogni approccio apporta un livello
differente di comprensione del manufatto artistico e delle sue
relazioni col mondo, andando a comporre una tassellazione inesauribile
di interpretazioni, le quali contribuiscono a rendere l’arte così
preziosa e insostituibile.
Nella disamina delle
posizioni che Gasparotti non condivide, incontriamo la sua critica ad
alcune idee di Arthur C. Danto, il quale indulge per "la definizione di
opera d'arte come oggetto fisico" e "considera i prodotti artistici
alla stessa stregua dei segni linguistico-verbali", dovendo poi
ammettere che non vi è differenza tra opera d’arte e il modello unico
della scrittura alfabetico-verbale: "Se Heidegger aveva affermato
che l'arte parla, ora Danto precisa che l'arte scrive". E scrive un
solo significato: quello attribuito dall'autore. Per il filosofo
veneziano, invece, la parola scritta avrebbe la fissità di un
camaleonte pietrificato: la scrittura trasformando le parole in cose.
La poesia stessa "fa di tutto per liberarsi proprio dall'intollerabile
peso dei significati, aspirando a danzare quale pura musica". Pur di
liberarsi dall’oggetto, egli non lesina di liberarsi pure dal
significato. Siamo al grado zero della critica d'arte. Per
il nostro, l’opera d'arte è un evento, il quale "anticipa,
spiazza e travalica ogni forma di esercizio razionale". Solo l'evento
sarebbe in grado di precedere "ogni significazione, in quanto è ciò
senza il cui imprevedibile accadere nulla sarebbe significabile".
L'uomo "nella sua natura logico-razionale, non è l'artefice della
produzione poetica, ma solo il medium ricettivo/trasmissivo di un
evento che proviene da Fuori”. L'arte sarebbe, pertanto, scandalosa
perché trascende tanto l'oggettività dell'oggetto, quanto la
soggettività del soggetto", oltrepassando "indefinitamente ogni limite
dato". Verso dove? "verso il vuoto che respira nel cuore del pieno".
Non è nemmeno un salto ardito: per Nietzsche è una pratica estesa
quella di attingere al pensiero orientale (si veda G. Pasqualotto "Il
Tao della filosofia“, Luni editrice, 2015) per approssimarsi
all’invisibile che abita nel visibile. Sulla scorta di Nietzsche dunque
sarà il pensiero libero a mettere all'opera creativamente la potenza
del Senso, ovvero pensiero dell'Impossibile".
Ecco,
dunque, che la musica e la danza, per Gasparotti, (e ci viene in mente
la passione di Antonin Artuad per la danza balinese) sono
caratterizzate dall'essere del tutto asignificanti e qui non vorremo
far passare sottogamba la querelle
sul significato della musica, sul cui tema riteniamo, abbia
definitamente chiarito la questione un musicologo del calibro di Carl
Dahlhaus nel suo libro "L'estetica della musica", Astrolabio, 2009, il
quale, oltre a ritenere che "La musica è sia oggettiva che non
oggettiva”, non capisce "come si possa disconoscere che le idee
estetiche, per forte che possa essere l'influenza del tempo, non
formano alcun sistema gerarchico, ma sono eterogenee, irriducibilmente
coesistenti”. Dahlhaus pensa che "Anche secondo Eduard Hanslick, nulla
sarebbe più sbagliato di vedere nella contrapposizione o distinzione
tra forma ed espressione, che sta alla base di descrizioni di modalità
d'ascolto o di tipologie di opere musicali, una rigida alternativa in
cui un aspetto esclude o soppianta l'altra". E, ancora, il musicologo
in “Che cos’è la musica?”, Il Mulino, 1988, afferma: “ Ogni volta che
considero la musica cerco di accertarne la forma e al tempo stesso di
riconoscerne ed interrogarne il contenuto. Il senso musicale sta
racchiuso nella forma, nella conformazione in senso lato; in sua
assenza nulla è musicale. Il senso musicale è il carattere
specificamente musicale; c’è solo in quanto musica e non
altrimenti”.
Rileviamo che, seguendo Gasparotti, si
resta, invece, ancora impigliati al pennone delle gerarchie, le quali
sono funzionali a una descrizione classificatoria dell'arte, ancorché
essere in contraddizione con la volontà dell'autore di liberarsi
dai significati, fosse pure per raggiungere il significato ultimo, quel
vuoto che, nel pensiero orientale, li contiene tutti. Insomma, per
Gasparotti, l'immagine deve essere "presensibile e dinamica" alfine di
non restare impigliata nella medesima staticità e fissazione delle
platoniane idee eterne, e libera da un "percorso spiritualmente
'significativo' messo in atto dalle rappresentazioni della mente
logica”, la quale tende a "esteriorizzare e oggettivare" le immagini in
segni sempre più statici. Così, eccoci arrivati al dunque, non oggetto,
né significato, bensì "immagine, ritmo, azione", i quali divengono gli
elementi essenziali dell'arte, essendo per il nostro autore decisivo
che "in ogni opera d'arte sia il non osservabile, che grazie ad essa,
si rivela simbolicamente in figura". Ma a ben guardare, Elio Franzini,
quando parla del simbolo nel suo "I simboli e l’invisibile", Il
Saggiatore, 2008, si riferisce a un simbolico che "non è soltanto il
trionfo dell'invisibile mistico o l'esibizione del basso corporeo,
bensì il loro dialogo" in cui vengono a unirsi l'invenzione
fantastica e il senso filosofico, le opere d'arte essendo ciò che
consente di "cogliere le sfumature del senso, le qualità oggettive
delle cose stesse". Pertanto, che il nonosservabile venga elevato a
unico elemento, come pretende Gasparotti, avendo con un colpo secco di
spugna eliminato l’osservabile, che invece deve restare come guida di
scorrimento del primo, non è atto che possa passare inosservato.
Ma
seguiamo il ragionamento attraverso le parole stesse dell’autore del
libro “Il quadro invisibile”: "non se ne deve affrettatamente
concludere che l'arte all'opera si opponga alle forme logiche del
pensare. Né che l'arte offra una prospettiva 'alternativa' rispetto a
quella logico-razionalista. Perché l'alternativa è anch'essa una
positiva determinazione logica, mentre la cifra dell’arte consiste
nell'attiva sospensione di tutti i meccanismi nei dispositivi
astrattamente logici, i quali vengono a essere resi inoperosi ed
irrilevanti, senza, con ciò, essere negati o sostituiti da
altro". Pertanto, se Ferraris ha inteso realisticamente l'opera
d'arte, cioè esclusivamente come oggetto, anche Gasparotti propende
solamente per l’inespresso: "l'inosservabilita delle sue immagini
autonegative”. Egli infatti afferma che l’arte, pur quando coinvolge la
parola, "non ricade nel dominio logocentrico, ma trascende i limiti
della parola logica e dialogica, de-iscrivendola in tutti i suoi
effetti" e chiosa: l'arte e l'esperienza estetica "non sono mere
pratiche conoscitive, ma recano in sé il potente invito e la
provocazione a dimenticare, a obliare radicalmente, in primo luogo
proprio l'essere soggetti-'lettori'" in quanto, appunto, l'arte non si
legge. Essa "de-soggettivizza così come de-oggettivizza".
Eppure,
si veda il testo critico di Samuel Beckett sul "Finnegans Wake" di
James Joyce: "Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma".
Aggiungendo che Joyce si richiama espressamente a Vico, scrive: "Nella
sua essenza, la poesia è l'antitesi della metafisica: la metafisica
libera la mente dai sensi e si propone di scindere lo spirito dal
corpo; la poesia è tutta passione e sentimento, e anima l'inanimato;
nelle sue espressioni più vicine alla perfezione la metafisica si
occupa soprattutto degli universali; la poesia, soprattutto di
particolari".
Insomma, il significato non si può
scindere dalla forma materiale. Se volessimo prendere in considerazione
ciò che accade attualmente nella scienza, vedremmo che in essa sono
necessari strumenti specifici in relazione al metodo adottato, poiché
non vi sono leggi generali e casi privi di disordine e di
imprevedibilità. Pertanto, e a maggior ragione, ciò dovrebbe accadere
anche per un sistema complesso quanto l’arte (che Aristotele metteva al
di sopra della scienza) per la difficoltà di definire/classificare i
suoi oggetti/prodotti. In arte, la specificità è legata alla forma, ma
ciò Gasparotti nega, tentando di annullarne la materialità (seguendo
Benjamin) e conseguentemente il significato specifico. Tuttavia,
partendo dall’abbattimento dei fondamenti di Nietzsche, passando per
Benjamin, non si può impunemente approdare alla teoria della
complessità, così ben esplicitata da Edgar Morin, la quale ci pare più
vicina alle questioni artistiche: la strada è occlusa. Il filosofo
veneziano, invece di descrivere casi concreti e contestuali, pretende
di fissare una scala di valori che non guarda alla complessità del
mondo dell’arte.
Se, come afferma Mauro Ceruti nel suo
"La fine dell’onniscienza”, Studium, 2014: “L’esclusiva attenzione
della scienza per ciò che è generale lascia il passo a una presa in
considerazione anche di ciò che è singolare, irripetibile,
contingente”, allora “si impone il riconoscimento di una molteplicità
irriducibile di direzioni, di ritmi, di tempi, di meccanismi dei
decorsi evolutivi e storici” e ciò comporta “un mutamento della natura
dei rapporti all’interno delle coppie concettuali, per cui ai rapporti
classici di subordinazione si sostituiscono rapporti di
complementarietà”. L’approdo è che “La scienza contemporanea è una
scienza a un tempo del generale e del particolare, dell’ordine e del
disordine, del necessario e del contingente, del ripetibile e
dell’irripetibile”, mentre Gasparotti pare collocarsi su un solo ramo
della biforcazione. E ciò accade anche per la questione attinente alla
necessità/possibilità. Infatti, quest’ultimo appare tutto sbilanciato
dalla parte dell’azione nel tentativo di individuare il motore
dell’arte, lasciando cadere la questione della forma e, anzi,
dissolvendola nel solo ritmo del divenire (la scala gerarchica per cui
egli mette al posto più alto la danza e la musica), selezionando,
cioè, solo questa componente dal magma delle caratteristiche
artistiche.
Inoltre, che senso può avere l’azione a
prescindere dai limiti di quell’oggetto e di quell’osservatore da cui
si sviluppano necessità e possibilità? Ci pare, in aggiunta, che la
questione del soggetto, che Gasparotti insiste ad annullare, sia invece
al centro del rilancio del nuovo modo in cui è possibile guardare
alle cose. Egli fa fuori, insieme all’oggetto, anche il limite
che invece è la vera e irriducibile matrice costruttiva “della
conoscenza, di ogni cambiamento e di ogni dialogo
intersoggettivo”. Limite che esiste, oltretutto, anche nella danza
e nella musica.
Ancora scavando nelle esperienze
scientifiche, troviamo, presenti nel testo introduttivo di Alessandro
Pagnini al volume da lui curato “Realismo/Antirealismo", La Nuova
Italia, 1995, alcune tesi di Arthur Fine, per il quale la
contrapposizione tra realisti e antirealisti viene liquidata come
errata, essendo fondata sulla stessa volontà, presente in entrambe le
posizioni, di stabilire un’autorità che le legittimi, sorta di
autenticazione di cui la scienza non ha alcun bisogno. E come entrambe
le posizioni siano basate su un erroneo dualismo che intride tutta la
filosofia moderna: la contrapposizione tra schema e contenuto, tra ciò
che è dato e ciò che è aggiunto dalla mente, tra ciò che è un oggetto o
un fatto e ciò che dipende da noi, e, non ultima cosa, tra realtà
invariante e interpretazione. A nostro avviso, un avvicinamento
similare, attuato con l'eliminazione di contrapposizioni e dualismi
generati da posizioni settoriali e parziali, sarebbe maggiormente
adeguato ai problemi posti dall’arte, ove il significato non può essere
separato dalla forma e dal soggetto che la percepisce. L'intero mondo
delle nostre credenze, delle nostre verità, non come concetti
paratattici, ma innervati l'uno nell'altro, gli oggetti fisici, e non
ultime le nostre percezioni e sentimenti, sono ciò che concorre, nella
nostra ricezione, alla verità dell'arte, la quale non può essere
dismessa, anche se non c'è un'unica teoria della verità. Insomma, siamo
contrari a tutto ciò che riduce la complessità di qualcosa, sia che
metta in dubbio la conoscenza di ciò che trascende l'evidenza, sia che
svuoti il significato delle cose che pensiamo di conoscere.