Gilberto Finzi
Sulla critica della poesia contemporanea
 
[Questi testi storico-critici riprendono alcuni capitoli dal Quaderno n.3 – di TESTUALE n.22 del 1997].

Auto prefazione.
Scrivo critica da sempre: cioè almeno da quando scrivo poesia. Le due attività, l’invenzione e il giudizio, si compenetrano e completano, nella mia mente e nella mia mano. Poiché, come quasi tutto che è umano e pensato, anche la critica si divide in due parti ideali: critica pragmatica e discussione sul metodo, all’una e all’altra ho dedicato nel tempo attenzione e scritture (per esempio: 1959-1978-1980 “Poesia in Italia, Montale, Novissimi, Postnovissimi”, 1991 “Crepuscolo della scrittura”. 
 
Anche nei saggi che qui ho accettato di raccogliere questa dicotomia è conservata: ai quattro scritti sui poeti ne seguono due sul fare poesia e uno sul fare critica. La sequenza certamente rispecchia interessi e occasioni di lavoro, ma nell’insieme si potrebbe dire che prevale il tentativo di analizzare e ridicolizzare il ‘sentimento poetico’ di tanti facitori di versi che credono o fingono di credere che poesia si possa fare senza intense letture, studio, esperimenti e fatica.
 
Il ‘sentimento poetico’ è un inganno ottico e auditivo, nonostante si rintracci in un abbastanza famoso titolo critico del passato: “Esemplari del sentimento poetico contemporaneo” (Vallecchi, Firenze 1941), di Oreste Macrì. Titolo che richiamo qui, usandolo come schermo ironico su cui proiettare tanta, troppa insipienza pseudo poetica, atteggiamento per il quale si scrive ma non si legge né si sperimenta, è perciò si compila poesia scolastica, similpoesia (come dice Raboni), e via discorrendo. 
 
Il ‘sentimento poetico’ è dunque un’antifrasi, una satira seria che pretende semplicemente dignità culturale e approfondimento letterario in chi scrive, idee e metologie. In un capitolo di questi testi dico dell’’ipèrbato’ fosse una ‘figura del sogno’ e che perciò avesse a che fare con Freud, e che lo scarto dal linguaggio quotidiano (da cui, come dal dizionario, la poesia deve necessariamente distaccarsi), potesse derivare anche da mezzi semplici come lo spostamento o il ‘chiasmo’, un rinnovare e girare le parole deformando e immusichendo un in sé povero o usuale ‘sentimento’? Una conferma indiretta viene dal Neobarocco, il quale non è che una trovata postsurreale, anzi pseudosurreale, derivata dalla vecchia  ‘analogia’.
 
Questi testi nascono dalla ricerca sulla deformazione della parola, del verso e della strofe, cioè dallo studio di una poesia che, a suo tempo, è stata innovativa... Oggi che questa ‘civiltà’ va velocemente scomparendo, o appannandosi, e la poesia non ha più spazio nel mercato delle vite di tutti, una ennesima raccolta, seppur breve, di scritti segnati dalla ricerca formale e dalla tensione etica può nascere soltanto dal pessimismo. La ragionevolezza
dell’evidenza spinge al rifiuto: la poesia non si vende. La critica non si legge, ma le ragioni che sconsigliano un quaderno come questo sono le medesime che lo caldeggiano…
 
Giuliano Gramigna: Sei poesie ‘parigine’*
In queste sei poesie si distingue tematicamente un blocco (per così dire) ‘francese’, anzi ‘parigino’: la 2, la 3, la 4, a cui è probabilmente da collegare anche la piccola deliziosa n.6, un sogno (“il Veglio della Montagna”) e un enigma (“I delfini”). Il legame profondo fra i sei testi sembra determinato da un ripensare del ripensarsi, ovvero da un lungo sonno memoriale dopo una malattia, dal quale (come nel gioco freudiano di precedenti raccolte, “Es-o-Es” e “Annales”) ci si risveglia se non guariti  almeno senza più sofferenza. Il sonno, e il sogno che lo riempie, sono il corpo-pensiero che improvviso emerge nell’enorme enigma (apparizione enorme - / mente vitale) dei “Delfini”, prima poesia delle sei e momento speculare, forse, di questa piccola raccolta. Qui un sintagma colpisce, blocchi di chiarezza Ed è una illuminazione, al tempo stesso linguistica e etica (o meglio filosofica); perché blocchi di chiarezza si contrappone, nello stesso verso a freddi intoccabili; e perché la medesima contrapposizione diventa antinomia, anzi aporia, dubbio insanabile, per chi conosca, del poeta, gli altri testi che ho citato. E un altro punto, ancora, della stessa poesia identifica uno dei possibili nuclei intorno ai quali si è costruita e in genere si costruisce la poesia di Gramigna: quello che apre una finestra sul linguaggio come dettato dell’inconscio, che però si fonda sulla conoscenza, sul profondo della cultura, ed è il  divario / fra il frusto e il mai-pensato; un preciso, se si vuole, riferimento alla differenza langue-parole, cioè al banale-inerte della lingua comune vs. in un ideale match o sconto. L’invenzione della parola che scatta-scarta-stacca. Insomma, gli elementi e la forma medesima del linguaggio poetico trovano, come sempre, uno spazio di identificazione, in quanto tema ed enigma di fondo, anche all’interno della poesia, nel testo poetico in cui la parola si fa emozione, e quindi la tecnica verbale e versificatoria ama ragionare/sragionare su se stessa, sul ‘come’ e non sul ‘perché’ della poesia come tale.
 
Del blocco, diremo ‘parigino’ molto ci sarebbe da dire, pervaso, com’è, dall’aria di quella Parigi, che non è soltanto una città speciale, ma anche un clima culturale e un tema letterario qui sublimato a mito personale: echi, suoni, piazze, monumenti, citazioni e parafrasi riportano, con le rifrazioni del luogo, le magie di certi suoi altrettanto speciali abitatori, obre famose e fatali da Proust a Mistinguette, personaggi, autori e attanti di un mondo scomparso, che però (quale la figura retorica più adatta: semplice ossimoro antanàclasi, ad ‘nominatio’ più antitesi?) non scompare. La Senna che cola, cola nelle mai tradotte canzoni anni 30/40, la  bella bestialità, avrebbe detto Gozzano, delle erotiche sere, i pochi momenti del ricordo storico, tutto si rimescola, diviene atto poetico, anzi (pirandellianamente: non si sa come, ed è quasi un freudiano delitto…) conferma ed esibizione di quelle due umane cose di cui siamo fatti: i sogni e le parole. O se si preferisce, la vita e la poesia, o altro ancora. La metafora rimpicciolisce, diviene metonimia o sineddoche. La mimesi dell’amato francese (lingua? autore?) si verticalizza in un sonetto a versi polimetri brevi, dalla verlainescamallarmeana pronuncia risonante e rimata (“Ancora sulla colonna Morris”). Dopo le greche ‘korai’, le ragazze o le forme delle ragazze ritrovate nelle piazze e lungo la Senna, ci si rende conto che un poco tutta questa fantastica pari reale (un altro ossimoro) non è che una messinscena dell’inconscio che cerca e si cerca: c’è uno spazio / (forse) dove si è vissuti – e uno più lungo / interminabile dove non si fu credendo d’esser vivi… “credendo d’essere vivi” è già un'epigrafe marmorea, senza nostalgie, a ciglio asciutto (come si dice). Ma, a conferma della Parigi di Gramigna si pensi a quelle indimenticabili pagine, struggenti e irreali nel sogno di una città, che lo scrittore ha disseminato nel suo più recente romanzo “La festa del centenario”; si pensi alla connessione, anzi alla totale rispondenza fra questi versi parigino-ludici e quei raggi di sole che toccano il bicchiere, nel romanzo, quelle ondate di pioggia sui tendoni, le vie dette e ridette con la deliberata ricercatezza di una restituzione (alla città) di ciò che è / è stato  per sempre suo: il fiume, i muri, le insegne, le persone, i passanti e le coppie, il bacio rubato e tutto il resto.
 
Parole e cose, e musica, di ‘quella Parigi ritornano in queste poesie, per culminare nella lieve erotica e insieme nevrotica bellamente oscena ultima immagine: di che cosa? Parigi, ancora e sempre mito personale di Gramigna, aureolata di gloria proustiana, musicale e intoccabile fra Apollinaire e Chevalier, un corpo di donna, una foto porno d’altri tempi, un momento di eccitazione sessuale, un movimento di carne non rosea dorata grano duro compatta. Parigi – fabula, penetrabile e impenetrabile, dove ‘erma’ e rima assolutamente necessaria con ‘sperma’: Monsieur Freud (sic!) è servito.
*Sono: “I delfini”, “La colonna Morris”, “Ancora sulla colonna Morris”, “Sulla Senna: Korai”, “Il Veglio della Montagna”, “Com’era quelle foto”. Diamo integralmente la prima e l’ultima:

1.
“I delfini”
Dove con lieto fragore
si scontrano le acque del Nord
erompono in capriola i corpi
dei delfini i lustri i forti
brilla la pinna falciforme
fra gocciole – apparizione enorme
mente vitale;
                ma che di quel corpo primario
                corpo-pensiero in moto
                da blocchi di chiarezza a freddi intoccabili
                del guizzo che fa divario
                fra il frusto e il mai pensato
                residua nel mare di sale smorto
                dove senza merito galleggia
                la salma del sopravanzato?

6.
Com’erano quelle foto
anni Trenta di Pur lire
à deux deliziose spogliate
tagliate à la garçonne seni 
grossi così ma distratti…
                c’è solo il re
                ggicalze che brilla sulla carne
                non rosea dorata grano duro compatta
                carapace impenetrabile erma
                fabula per quanto ti sveni 
                di sperma

Il neobarocco
Questa vuole essere la semplice descrizione di un fenomeno, non la sua spiegazione, Si prescinde quindi dalle cause, psicologiche, sociologiche o linguistiche che siano, o tutto questo consecutivamente insieme, per una analisi testuale che delimiti i confini o individui un’eventuale area di sviluppo del fenomeno in questione.

Ê risaputo che una delle definizioni linguistico-retoriche più importanti per la poesia del Novecento è, o è stata, la cosiddetta ‘analogia’. Dopo che i principali accorgimenti formali del ‘nuovo stile’ sono stati inventati (trovati) dai grandi francesi dell’Ottocento, poi rinnovati negli schemi e rivoluzionati nelle ‘truvailles’ del surrealismo e delle altre avanguardie del primo Novecento, è il lavoro analogico (mentale e linguistico) a determinare un diverso modo di fare poesia, meno descrittivo e lineare che emotivo e curvilineo. L’analogia cerca, in sostanza,  l’’accostamento più rapido’ fra cose, pensieri, momenti scollegati, avvicina come attraverso un ponte invisibile (qualcuno parla di ‘arco voltaico’) oggetti disparati ed è probabilmente in presenza di questa funzione analogica troppo ‘volatile’ che la comune comprensione comunicativa sembra sospesa.
 
Che genere di funzione è, in sé, l’analogia? Anzitutto non esiste in retorica, non una ‘figura’ vera e propria, ma una determinazione verbale, ossia un modo della lingua più spesso indicativo ed esteso a comprendere ‘altro’. Esiste invece in linguistica l’analogia come sviluppo laterale indispensabile di fatti verbali, grammatica, ecc.: indica estensione, ampliamento per affinità o contiguità. La definizione del Devoto-Oli (omettendo il punto 2. che riguarda appunto l’analogia in linguistica) recita: “1. Rapporto di somiglianza tra gli elementi costitutivi di due fatti od oggetti, tale da far inferire mentalmente un certo grado di somiglianza tra i fatti e gli oggetti… 3. In letteratura, procedimento che tende a sostituire, nella similitudine, al tradizionale rapporto di comparazione quello di identità”. La definizione supera d’un colpo parecchi passaggi. Ci si viene a trovare in sostanza in quello che H.Weinrch chiama “Bildfeld” e che si potrebbe tradurre un ‘campo metaforico’ Dietro la cosiddetta analogia stanno infatti, come in agguato o in attesa, alcune figure retoriche ben note per studi generali e specifici: il paragone o similitudine, la metafora e la metonimia (seguita questa dalla finìtima sineddoche).  Si è detto dai linguisti che alla comparazione o paragone, classico modo figurale della poesia classica e romantica, viene meno il ‘come’, ovvero il segno (=) dell’equivalenza, lo scorciamento della comparazione determina uno scorrimento uno scorrimento verbale, o meglio una messa in relazione diretta, senza alcuna mediazione, dei due termini di paragone. Si entra così nel campo figurale.
 
Analogia e metafora vengono consecutivamente menzionate e collegate logicamente in molte delle analisi retoriche più accreditate. Il “Gruppo ɥ” parlando dei “Metasememi”. esemplifica partendo dal noto sintagma “gamba del tavolo”: “ in effetti un ragionamento ‘analogico’, ‘metaforico’, a permettere l’estensione del significato; in definitiva però la comparazione non è più percepita dal falegname… Il tropo poetico è uno scarto manifesto che evidenzia… una ‘marca’. Perché vi sia ‘scarto’ bisogna che vi sia una ‘tensione, una distanza’ tra i due sememi”. Trascuriamo, naturalmente, la differenza tra l’opacità della metafora comune, entrata ormai nel linguaggio quotidiano e non più percepita come tale se non a l livello più banale, per fissarci sull’altro modo di accostare, di avvicinare per tensione due maniere della realtà (“la metafora fa sempre violenza al reale”, dice Henry). Ma non si tratterebbe tanto, nel caso della analogia, della “sostituzione di un termine proprio con uno figurato in seguito a una trasposizione simbolica di immagine” (che è definizione ottimale della metafora), ovvero della “comparsa in una data catena significante di un significante proveniente da un’altra catena”.  Meglio forse riferirsi alla formula di Lacan, “la condensazione è una metafora… e lo spostamento è una  metonimia”. Nel caso della nalogia vale, piuttosto, il concetto di ‘distanza’ fra i due termini interoperanti. Il contatto tra questi due termini accostati analogicamente viene determinato da un terzo termine, assente ma implicito, una sorta di ‘intermedio’ che, se manticamente, ha a che fare con entrambi: come un significato ‘medio’ comune che funzioni da punto di  contatto, nozione o segnale, di collegamento fra i due “oggetti analogici distanti”. 
 
“I termini ‘identico’, ‘equivalente’ e ‘analogo’ servono ad indicare approssimativamente il livello relativo” (su cui si possa accettare o accertare l’equivalenza o la nonequivalenza dei significati”, e “la riduzione metaforica è conclusa quando il lettore scopre questo terzo termine, virtuale, che fa da cerniera fra gli altri due… L’essenziale è di stabilire il processo ‘più breve’ attraverso il quale due oggetti possono collegarsi”….
 
… Questo processo però è andato nella direzione opposta, allontanando cioè, sempre di più, fra loro, gli oggetti analogici… La più semplice visualizzazione grafica del fenomeno analogico è quella lineare, come ‘distanza assoluta’, oggetto A  - >  oggetto B, con vettore variabile. Poiché però connessioni cervellotiche, coinvolgenti insolite e marinesche ricerche della ‘meraviglia’ accrescono, come si è detto, quella ‘distanza’ il rapporto analogico è forse meglio rappresentato da una linea curva  A ͡  B. Il punto di massimo allontanamento fra A e B, il culmine della distanza identifica, come nella realtà terrestre, gli antipodi. Ma dopo la contrapposizione si verifica, ovviamente, un nuovo avvicinamento dal lato opposto… Fino alla sovrapposizione parziale delle due aree… Una eventuale maggiore distanza, invece, fra i due oggetti e un loro ‘arbitrario rapporto’ determina il progressivo distacco fra le due aree… Così la sovrapposizione anche parziale fra le due aree… viene meno e l’’arbitrario rapporto’di cui si è detto determina un ulteriore distacco fra i due termini e i loro significati. La relazione analogica così si allenta… l’analogia stessa va sfumando… Si potrebbe parlare, in questa evenienza, di catacrési, nel senso retorico di estensione (e abuso) del significato. Oppure anche, e più semplicemente, di iperbole, in cui i due elementi analogici forniscono una rappresentazione soprareale o sottoreale (come dire inflazionata o svalutata) basata sull’arbitrarietà linguistica e tendente talvolta al… ridicolo involontario…
 
Altri documenti. Pierre Reverdy scriveva: “L’immagine è una creazione pura dello spirito. Non può nascere da un paragone ma dall’accostamento di due realtà più o meno distanti. Più i rapporti delle due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte – e più grande sarà la sua potenza emotiva e la sua realtà poetica….
 
Questo medesimo passo viene utilizzato sia da A.Henry in “Metonimia e metafora”, (opera originale del 1971). A.Breton dal canto suo, in “Manifesto del Surrealismo (1924),  vede… “Lo sfruttamento dell’incontro fortuito di due realtà distanti su di un piano non consono… oppure per usare un temine più breve, la coltura degli effetti di uno spaesamento sistematico”. Quell’incontro fortuito è la massima “ distanza” consentita dal campo metaforico, ed è in pratica la parafrasi e la generalizzazione della celebre frase di Lautéamont: “Bello come l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di una macchina da cucire e di un ombrello”. Ma già prima, ancora nel “Manifesto” del ’24, Breton aveva fornito precisazioni circa l’immagine, il suo uso, il suo potere d’invenzione, il suo arbitrio e così via, parlando fra l’altro di “differenza di potenziale fra i due conduttori” (una metafora per definire un campo metaforico) e di “una dose enorme di contraddizione apparente”. Questi e altri dettati surrealisti che sembrano depistare dal centro della ricerca analogica, forse invece riportano, accompagnati dall’emozione poetica, alle vecchie retoriche e alle figure più rare: dalla semplice ellissi (sottrazione di un temine) allo zeuma (prestare all’astratto la maschera del concreto), ecc….
 
La gestione arbitraria di queste figure sembra coincidere con l’ossimoro… con l’iperbole (esagerata estensione)… con la catacrési (abuso linguistico)… Questa situazione contiene il seme del ‘barocco’, anzi della sua degenerazione manieristica attuale, il ‘barocchismo’ o il ‘neobarocco’.
 
L’ipérbato figura del sogno e la sua assenza.
Nella poesia di oggi l’ipèrbato è scomparso. Constatazione di pressoché nessun peso, se non fosse in relazione diretta con il tipico stilistico del ‘fare’ poetico attuale (e non dico ‘moderno’ a causa dell’abuso dell’antilogico e contraddittorio ‘postmoderno’). Ricordiamo che cos’è  l’ ‘ipérbato’: è una figura di spostamento. Consiste ‘nell’inversione di alcuni elementi rispetto all’ordine normale della frase’: questa - della d’erbe famiglia e di animali (Foscolo), è l’esempio che riportano quasi tutti i manuali di retorica. L’ipérbato dunque separa e inverte elementi che costituiscono un sintagma. Spesso nella ‘moderna’ ignoranza viene confuso con la figura detta ‘chiasmo’: il quale, invece, è ‘una figura di tipo sintattico che consiste nella disposizione incrociata degli elementi costitutivi di due sintagmi o di due proposizioni fra loro collegati’. Esempio: le donne, i cavalier, l’armi, gli amori (Ariosto); il rapporto fra i primi due termini (le donne a; i cavalier b) è ripreso e rovesciato negli altri due (l’arme b1, gli amori a1). Per quale meccanismo mentale il chiasmo, figura di spostamento doppio, viene  scambiato per il più semplice ipérbato? Un meccanismo di semplificazione: quello medesimo per cui, se si menziona il vecchio film il “Vizietto”, il problema relativo è di solito riferito all’omosessualità del protagonista (Tognazzi), mentre, al contrario, il “Vizietto” di questi è considerato – agli occhi del suo compagno – nell’essere andato con donne e aver avuto un figlio.
 
L’ipérbato è la forma semplice o grammaticale del chiasmo: ma entrambe le figure di spostamento hanno un preciso (e immediato) riflesso sulla sonorità della frase e sulla metrica del verso, un significato ritmico nella sintassi prosastica e nella struttura poetica. Che cosa implica, allora, l’affermazione alquanto apodittica che l’ipérbato è scomparso, nella poesia contemporanea? Si tratterà più o meno della eliminazione di quelle frange colto-retorico, che, mentre contraddistinguevano la letteratura classica, oggi vengono rifiutate in nome di una povertà lessicale e di una sintassi semplificata adatti all’incultura e provocate da un vero fenomeno di rigetto letterario? Anche l’ipérbato sarebbe diventato un freno alla presunta spontaneità, all’espressione incòndita di sentimenti e passioni del tempo nostro, all’esposizione, priva di filtri letterari, dell’ipertrofico ‘io’ individuale, mostro infernale e irriducibile?
 
Ma proprio l’assenza del ‘povero’ ipérbato produce una serie di conseguenze, o meglio di considerazioni: retoriche, prima, quindi metriche, alla fine decisamente poetiche: Ma Dione onoravano e Cupido (Dante); Hai di stelle immortali / aurea corona (Tasso); Qui due con noi divini amici vengono (Carducci); Sempre caro mi fu quest’ermo colle (Leopardi); Dolce e chiara è la notte e senza vento (Leopardi); Del peccatore di miti, / ricorda l’innocenza, / o Eterno: e i rapimenti, / e le stimmate funeste (Quasimodo); e, bellissimo forse perché necessitato dalla rima alternata interna-esterna, Queste pensavo cose, guidando nell’ascesa / la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose (Gozzano). Più alto forse di tutti quanti gli esempi che precedono, il virgiliano Infandum, regina, iubes renovare dolorem. Ma in verità l’ipérbato o anàstrofe ha proprio a che fare con la costruzione latina, in particolare del genitivo e del verbo.
 
Certamente qui non si vuole prospettare una soluzione retorica alla crisi della poesia odierna. Gli esempi (che potrebbero essere ben più numerosi) servono semplicemente a indicare e a precisare un certo minimo scarto dall’usuale costruzione grammaticale e sintattica: uno scarto che trova la sua ragione soprattutto in poesia. Bisognerebbe qui rifarsi a una vecchia distinzione: fra ‘il liscio e lo sperimentale’; ossia fra una concezione scolastico-tradizionale e una idea innovativo-inventiva della poesia. Come dire fra un modo usuale o egualitario e indifferenziato di verbalizzazione e di versificazione, e un modo che cerchi invece la novità, e nella novità medesima, l’identità dello stile. “Il noto diventa gergo e figura della ripetizione… L’assenza o la carenza di innovazione, la calma reazionarietà dell’incultura mascherata alla volontà di successo… non fanno riflettere i giovani che ‘non ci si danna l’anima sulla poesia se non si è convinti che niente di nuovo si potrà dire se non in forme nuove’ (cito dal mio “Poesia in Italia – Montale, Novissimi, PostNovissimi”). Che cosa c’entra l’ipérbato con tutto questo discorso? L’ipérbato è un delle figure retoriche più semplici, come si è visto, una figura di spostamento; a volte perfino coincide con la lineare inversione o anàstrofe   (come dimostrano  alcuni  degli esempi fatti,    i due  leopardiani fra tutti). Ora la poesia italiana attuale – la giovane soprattutto con l’esclusione del “Gruppo 93” e ben poco altro – nasce già vecchia, non solo inutile (nel senso di quello che è destino di tutta la poesia da sempre), ma ripetitiva, insipida e col marchio del ‘deja vu’: libri e versi (centinaia di libercoli, milioni di versi) semplicemente identici, collegati fra loro dall’essere scritti con pura decenza scolastica, insapori testimoni di come la migliore cultura innovativa del Novecento non sia filtrata nelle coscienze e nell’uso letterario. Quegli esemplari dell’innovazione poetica (Poud, Eliot, Surrealismo, ecc.) non hanno dato frutto, e nella poesia italiana contemporanea predomina una sorta di ‘koiné’ paludosa, in cui ognuno risulta privo di volto perché non ha cercato, prima e poi trovato, una propria parola autentica. In questa poesia statica, tra le figure retoriche vanno molto quelle ‘intellettuali’, come la metafora, e subito dopo (a qualche distanza), la metonìmia e la sinèddoche. Il simbolo è il rifugio di chi ha scritto cose o troppo modeste o irriducibili a una logica poetica. Che ne sarà delle figure meno nobili, come la litòte, il chiasmo, l’antanàclasi, l’antìfrasi, l’anàfora, l’ipàllage, la paronomasia, l’ipotipòsi e lo zeugma (gli accenti dossiani ma solo funzionali)? L’elencazione diverte chi la fa e chi la legge, come ben sapeva Omero.
 
Il ‘povero’ ipèrbato dunque è solo una spia, un elemento di osservazione in tempi di poetica prolissa, ripetitiva e per lo più priva di invenzione – fatta salva l’’inventio’, modestissima e certamente nota dai tempi dei tempi dell’argomento: eppure i sentimenti, gli affetti sono ancora quelli “della pietra e della fionda”, come nell’emistichio quasimodiano. Ecco, quotidianamente, libri e libretti di poeti noti, meno noti e affatto sconosciuti: cerco in giro, nei versi, rileggo, ricerco, ma l’ipèrbato, proprio, non c’è. Manca l’inversione semplice; a maggior ragione manca il doppio scambio, il chiasmo tanto più colto e difficile: il verde ai rami, ai muri il cinabrese (“Delta” in “Ossi di seppia”: a, b; a1, b1), Ma l’assenza dell’ipèrbato diventa spia significativa di un’altra, ben più cospicua assenza: quella della ricerca, dell’invenzione di un ‘modo’ diverso del fare poetico, per cui una poesia si distingua dalle altre (e, per estensione, un poeta si distacchi dagli altri; da ogni altro).
 
Si può scovare, con fatica e molta attenzione, qualche esempio di ipèrbole, e potrebbe risultare l’unico di quel libro, o di quell’autore: L’acqua non più dolce / che esce dal naso via portando onda / pallidula (Gramigna);  finito d’un cobianchi cloacario (Sinigaglia);  Uno dei miei compivo ultimi anni (Fortini); le di nafta e carbone lorde sere! (Fortini);  quale hanno modulo per crescere simili? Leonetti).
 
Viceversa da una qualsiasi serie di libri di poesia pubblicati di recente (senza preferenze o detestazioni personali) potremmo scegliere versi quasi a caso con la certezza di non incontrare mai questa figura. Troppo spesso questi versi risultano assolutamente anonimi. Uguali l’uno all’altro. Impossibile attribuirli ai singoli facitori (qui i poeti non sono ‘autori’, non inventano proprio niente) in base a quell’intrinseca identificazione fornita solitamente dal linguaggio specifico, personale, dallo ‘stile’ (che qui non esiste e non compare).
 
Pensiamo alla pittura: delle opere di artisti mediocri senza caratteristiche tali da farli riconosce a prima vista si direbbe che sono di ‘scuola’ o accademiche. Per la poesia ci si ferma molto spesso a una nozione contenutistica e tematica: si rimanda cioè ad argomenti e ipotesi che riguardano piuttosto i materiali, ciò che precede la strutturazione versificatoria. Parlare di tematiche, naturalmente, non è affatto indifferente rispetto alla poesia e al suo esito finale: e molta critica si è diffusa sull’impatto di temi e poetica come tale. Dovendo pur sempre concludere che, se è vero che il tema, costituendo il fondo e l’intenzione della poesia, condiziona la ricerca strumentale, ciò che emerge alla fine , e determina il successo della struttura complessiva, è la metodologia impiegata. Conta infatti la capacità del poeta (ma è facili estendere la regola a qualunque tipo di scrittura, prosa narrativa o critica) nell’inventare partendo da una idea fondante (il tema generale, precedente ogni concretizzazione in parola e verso), nel trovare cioè legami e sintagmi adeguati, e strutture ritmiche, cadenze musicali, adoperando ogni strumento a disposizione per innovare versificando – cioè in sostanza, per fare ciò che risulti ‘differente’ da ogni altra poesia nota.
 
Uso innovativo e diversificazione da ciò che già si conosce sono gli elementi di valutazione di uno stile, di quello che si usa definire linguaggio personale e che in genere si lega indissolubilmente al ‘nome’ di un artista o di un poeta. Indissolubilmente, tanto da diventare antonomastico accostare certe forme a certi nomi. La luce di Caravaggio, le forme-uovo dei manichini di De Chirico. L’assenza del verbo e l’assolutizzazione del sostantivo, nel Quasimodo ermetico. L’effetto fonosimbolico in Pascoli. Una linearità prosastica, un poco spenta, in Sereni. Un colorismo visionario immediato come un fuoco artificiale in Campana. Eccetera: elementi di una identità stilistica che consente il riconoscimento, se non l’attribuzione di un verso o di un distico significativo. Analogamente in musica: l’uso degli ottoni, tipico di Ciajkovski; i contrasti stilematici di Ravel; la morbidezza torbida del ‘legato’ in Debussy.
 
Identificazione da stile: identificazione < identità> nome (d’autore). L’opera esiste senza l’autore (esempi classici “Iliade” e “Odissea”. L’autore invece non esiste senza l’opera. Quando l’opera accresce il potenziale umano – non solo il semplice ‘sapere’, ma l’etica dei contemporanei, la storia terrestre e soprattutto la vita dell’estetica – questa ‘bellezza’ (per dirla all’antica) viene riconosciuta per il tramite unico del suo linguaggio, dei campi magnetici linguistici e formali che induce, alla singolarità che afferma. Anche in poesia è solo la parola nuova che colpisce, e la collocazione delle parole in un contesto di versificazione, strofe o periodo poetico che, staccandosi dal già noto, dal già scritto o letto, diventa, grazie alla sorpresa che provoca, elemento fondamentale di un piacere., che si usa chiamare estetico (poetico): piacere-sorpresa della novità gradevole e inedita che è nella forma.
 
Si tratta sostanzialmente di un piacere psicologico: della parte nota e soprattutto di quella ignota della psiche. Di quella nota per quello che siamo in grado, leggendo, di rapportare alla vita, alla storia e alla poesia che conosciamo. Di quella ignota ancor più, per quanto di stimolazione, l’accostamento inedito determina, per quanto di accensione provoca, per quanto fa affiorare dell’inconscio: per quanto fa sognare. Ho detto ‘sognare’ non a caso.

E non pensando a una funzione romantica, consolatoria e sorpassata della poesia di oggi. Ma pensando piuttosto a Freud e all’’interpretazione dei sogni’. Nella struttura del sogno, infatti, fra gli elementi che l’analisi inquadra nel genere e nel dettaglio compare lo ‘spostamento’.
 
“Spostamento e condensazione sono i due fattori alla cui si può essenzialmente attribuire la configurazione del sogno” (Freud). Lo spostamento serve alla rappresentabilità onirica: insieme lo spostamento e la condensazione contribuiscono alla deformazione e alla sublimazione, insomma al sogno. Ma un altro tipo di spostamento “si manifesta in uno ‘scambio dell’espressione linguistica’ del pensiero corrispondente che si manifesta i uno scambio dell’’espressione linguistica’ del pensiero corrispondente”.  Si tratta in entrambi i casi di uno spostamento lungo una catena associativa; ma lo stesso processo può svolgersi in sfere psichiche diverse e il risultato dello spostamento medesimo è in un caso la sostituzione di un elemento con un altro, in un altro caso lo scambio della formulazione verbale di un elemento con quello di un altro […..] “la tendenza dello spostamento è in genere quella di  scambiare una espressione incolore e astratta del pensiero onirico con una plastica e concreta”. 
 
Dopo aver connesso il figurale e il linguistico Freud mette in contatto l’onirico con l’estetico: con una inattesa estensione, fa intravvedere una serie di ulteriori possibilità di applicazione del concetto di spostamento: “Questo (la rappresentabilità plastica e figurale) avviene perché in qualsiasi lingua i termini concreti, in seguito alla loro evoluzione, sono più ricchi di associazioni dei termini concettuali”. La figura dello spostamento serve alla intensità emotiva e, con la condensazione, prepara la deformazione e la sublimazione del desiderio alla base del sogno.
 
Che cosa avviene, invece che nel sogno, nel più modesto spostamento verbale detto ipèrbato, reperibile sia in poesia sia più semplicemente nella lingua? Anche la figura retorica serve, in un certo senso, a misurare la sensibilità sintattica e l’intensità emotiva dello scrittore, facendo uscire la frase o il sintagma dall’ovvio della comunicazione o dal già noto letterario. Anche l’ipèrbato risponde all’attesa minima del nuovo (in chi legge), mediante quella inversione che essendo poco consueta si trasforma in piccola sorpresa e in scoperta: le quali, a loro volta, si risolvono in piacere rinnovato. Ê questo piacere di sorpresa e di scoperta che rimuove il senso di quotidianità stucchevole della lingua e della srtruttura prosastica usuale. Ma l’ipèrbato ha una immediata efficacia soprattutto sulla musica del verso e della strofe. Il suo peso più autentico è tutto sbilanciato dalla parte dei significanti: quel minimo spostamento sintagmatico trattiene, o viceversa sgancia, il periodo poetico dall’inerzia del ‘liscio’, spingendolo dalla parte (opposta) della ricerca sperimentale. Si rileggano allora i versi classici proposti all’inizio; si provi a riprodurne la ‘normalità’ prosastica spostando opportunamente le parole: le medesime parole di prima, ritornate alla funzione referente usuale, non formano più un verso.
 
L’ipèrbato, figura del sogno linguistico, si presenta come uno degli elementi fondanti il verso e la sua musica. La sua contiguità col sogno freudiano, ossia con la figura primaria costitutiva del sogno ne esalta l’inconscia grammaticalità di base, il modesto ma essenziale contributo all’invenzione mediante la diversificazione (non certo lo sconvolgimento) di un sintagma già noto e comunicante. Certo, nel verso, altri elementi contribuiscono ben più potentemente all’innovazione, alla musica, alla sorpresa-piacere; ma intanto anche l’assenza di una piccola figura retorica diventa esemplare e significativa, un vero e proprio indice di immobilismo poetico.