Rosa Pierno
Il rapporto tra poesia e filosofia in HABERMAS 



Lievissimo, con passi felpati si muove Jünger Habermas nel testo Filosofia e scienza come letteratura? presente nel suo libro Il pensiero post-metafisico, Laterza, 1991, nel circuire il tema della differenza esistente fra i generi testuali. La questione è affrontata in maniera generale, perché la risposta fornita riguarda le differenze esistenti non solo tra filosofia e scienza, ma anche tra filosofia e narrazione, tra filosofia e arte e naturalmente tra scienza e arte. Il tema è affrontato seguendo ciò che Calvino ha inteso realizzare programmaticamente nel suo  Se di notte un viaggiatore, ma solo per mostrare il fallimento della teoria calviniana, prelevata di sana pianta dal decostruzionista Derrida. Habermas critica la distruzione del soggetto, dell’autore, del lettore, delle pareti tra realtà e finzione che Calvino persegue. Il filosofo, storico e sociologo tedesco trova una spalla forte anche in Blumenberg, il quale ha incentrato sulla narrazione (in particolare, la descrizione e l’uso metaforico di cui si servono anche la filosofia e la scienza), il suo interesse, non  dissolvendo mai la verità filosofica, né i suoi metodi.

Le conseguenze che possono “derivare da una falsa letterarizzazione della scienza e della filosofia” - che oggi viene perseguita da numerosi autori:  si veda come esempio sull’altro versante il libro di Steiner "La poesia del pensiero", (Garzanti), in cui si raccorciano, fino a renderle inesistenti, le distanze tra poesia e filosofia - evidenziano la necessità di mantenere, invece, alti gli argini tra le discipline per non ottenere una inutilizzabile poltiglia. E quale la poltiglia ottenuta, quali le giravolte e le capriole a tratti ridicole, e compiute con asfittiche movenze ed esangui motivi da coloro che vogliono un'unica emulsione, ce lo mostra proprio l’analisi compiuta da Habermas sul suddetto testo di Calvino. 

La rinuncia all’argomentazione è esattamente il discrimine che Habermas vuole erigere come emblema della differenza fra i cultori delle scienze che perseguono la letterarizzazione della filosofia e il suo personale lavoro, ma è anche ciò che ritengo si debba tenere saldamente fermo per potere utilizzare appieno gli strumenti ideativi e conoscitivi messi a punti nelle varie branche epistemologiche e poter, inoltre, conservare intatto anche il potere della poesia. Non bisogna qui confondere le capacità ideative che fanno da sostrato comune alle imprese conoscitive, siano esse scientifiche, filosofiche, artistiche, poetiche, quali la ragione, il sentimento e la percezione, presenti, appunto in, tutte le discipline, col discorso sulle specificità formali delle stesse. 

Ritornando ad Habermas, egli solleva le proprie perplessità su  discorso fondativo e contemplazione, pensiero discorsivo e contraddizione, quando fusi insieme, indicando Adorno come esempio di colui che vede nell’aforisma un metodo conoscitivo che fonde, appunto, tutti gli estremi appena elencati. Non lesina, Habermas, di porre qualche pietra miliare lungo il suo percorso: “Anche i testi teorici sono in una certa qual misura esentati dall’agire; tuttavia essi si discostano, diversamente che i testi letterari, dalla prassi quotidiana, senza arrestare ai propri margini il trasferimento di validità, senza congedare il lettore dal suo ruolo di destinatario delle pretese di validità sollevate nel testo stesso”. 

Essendo la posta in gioco stata situata da Calvino proprio su questi elementi: la derubricazione dell’autore in quanto soggetto, della sua identificazione e del suo ruolo, a favore di una collettività “anonima” che parla con le voci di tutte le collettività, passate, presenti, future. Un lettore che non distingua tra realtà e finzione (cioè la tradizionale definizione che distingue letteratura e realtà),  personaggi che si vogliono coincidenti coi lettori, in un continuo scambio delle parti e delle volontà, tutti elementi incastonati in una strategia testuale che se non si aggiudica un’ulteriore, superiore conoscenza, o perlomeno più soddisfacente, nemmeno costruisce un’autonoma pienezza artistica.

La cornice di riferimento della posizione calviniana, prima ancora di essere quella in cui agisce da epigono Derrida, è quella di una filosofia (di impronta heideggeriana) che ha operato una svolta linguistica, in particolare “quel tipo di svolta linguistica che vuol farla finita in modo piuttosto rabbioso con l’eredità della filosofia del soggetto. Infatti, solo quando tutte le connotazioni di autocoscienza, autodeterminazione e autorealizzazione saranno espunte dai concetti filosofici fondamentali, il linguaggio (in luogo della soggettività) potrà rendersi autonomo quale destino epocale dell’essere, quale vertigine dei significanti”: ed è in questo modo che verranno a confondersi nel medesimo flusso letterale e metaforico, logica e retorica, discorso serio e discorso fittizio.  

Da questa svolta si dipartono due possibili sviluppi: “se esse trasformano il contenuto normativo del concetto di ragione sviluppato da Kant fino a Hegel, oppure se esse lo respingono in meno più o meno radicale”. Dunque, o la via in cui “i concetti  tramandati della filosofia della riflessione si trasformano in quelli della conoscenza intersoggettiva, della libertà comunicativa e dell’individuazione attraverso la socializzazione” oppure la via dell’impostazione strutturalista  che “supera la filosofia del soggetto conoscente e agente, coinvolto nella sua prassi linguistica, alle soggiacenti strutture e alle regole di produzione. Con ciò la soggettività perde la propria forza di produzione spontanea del mondo”, perdendo con ciò anche il concetto di ragione sviluppato nell’età moderna. “Tutte le pretese di verità divengono immanenti al discorso”. La conseguenza è che “Tale concezione richiede << il sacrificio del soggetto della conoscenza>> rimuovendo la scienza tramite la genealogia”. Per Foucault, Derrida e gli strutturalisti, il disgregamento della soggettività filosofica, in quel linguaggio che la spodesta, ma anche la moltiplica, creando maschere che interdicono ogni identità, è la marca della contemporaneità. Tale disgregamento ha però trascinato con sé le pretese di validità e dunque le distinzioni tra finzione e realtà, tra i vari livelli di realtà e i generi letterari. 

La suddetta questione viene affrontata da un punto di vista squisitamente filosofico nel suo libro precedente Il discorso filosofico della modernità, Laterza, 1988, ove Habermas individua la nascita di un rapporto diverso tra poesia e filosofia, in cui il passaggio all’arte assume un  ruolo predominante nell’autocritica totalizzante alla ragione (la quale, fra l'altro, scopre d’impigliarsi nei suoi stessi strumenti non riuscendo a cogliere la non-identità e restando vincolata alla ‘metafisica della presenza’). Per opporsi a ciò, Heidegger  si libera “dalle limitazioni del discorso discorsivo e si immunizza contro ogni obiezione specifica mediante l’indeterminatezza”. Adorno, diversamente, adotta una strategia nella quale il “pensiero identificante rivolto contro se stesso  viene costretto a smentire continuamente se stesso” (dialettica negativa). Derrida esprime una  protesta “contro il primato platonico-aristotelico del logico sul retorico”. In tutti questi casi, non si può più parlare di contraddizione perché “le esigenze di coerenza perdono la loro autorità” e, inoltre, quest'ultime sono subordinate  a esigenze diverse, come, appunto, quelle estetiche, “Allora il decostruttivista può trattare le opere della filosofia come opere della letteratura e adeguare la critica della metafisica ai criteri di una critica letteraria  che non si fraintende in senso scientistico”.

D’altronde, anche gli scritti sulla critica della ragione di Nietzsche  devono essere giudicati “secondo i criteri della riuscita retorica e non secondo quelli della coerenza logica”. L’obiettivo di Derrida è quello di “demolire quelle impalcature ontologiche, che la filosofia ha eretto nel corso della sua storia della ragione centrata nel soggetto”. Heidegger tenta l’impresa facendo saltare le forme metafisiche del pensiero dall’interno. Derrida procedendo alla maniera della critica stilistica ricava dai testi esaminati il primato “del significato rispetto al segno, della voce rispetto allo scritto, dell’intuitivamente dato e immediatamente presente”. Decostruire un testo filosofico può non essere un atto arbitrario soltanto se “il testo filosofico è in verità un testo letterario”, se cioè “la differenza specifica fra filosofia e letteratura si dissolve”. Allo stesso modo, si comprova “l’impossibilità di specializzare a scopi cognitivi i linguaggi della filosofia e della scienza in modo tale da purificarli da ogni elemento metaforico”, retorico e letterario. In ogni caso, “alla fine tutte le differenze specifiche si perdono in un più ampio contesto testuale onnicomprensivo” e, pertanto, resta solo la scrittura che scrive se stessa.

La distruzione della tradizione filosofica attuata nella decostruzione “trasferisce dunque la critica radicale della ragione nell’ambito della retorica” con ciò indicandole una via per uscire dall’aporia del riferimento a se stessa: cade in codesto modo la possibilità di imputarle l’utilizzo di paradossi. Dall’altra, Derrida contesta “l’autonomia dell’opera d’arte letteraria e l’autonomia dell’apparenza estetica, quanto la possibilità che la critica possa mai raggiungere uno statuto scientifico”. In un sol colpo, liberando l’impresa critica da standards pseudoscientifici, tale pensiero eleva il livellamento della differenza specifica tra critica letteraria e letteratura fino al livello dell’attività creativa.  La critica assume rango letterario e partecipa “all’impresa della critica della metafisica” e, inversamente, anche i testi letterari vengono trattati come filosofici giungendo all’affermazione che la lettura più fedelmente filosofica di un testo filosofico è quella che tratta l’opera come letteratura, appunto. “Con il concetto tradizionale della filosofia, che nega  i fondamenti metaforici del pensiero filosofico, viene al contempo decostruito anche il concetto di letteratura  limitato all’immaginario: <<La nozione di letteratura o discorso letterario è coinvolta in alcune di quelle opposizioni gerarchiche su cui si incentra la decostruzione: serio/non-serio, letterale/metaforico, verità/finzione>>”. Le decostruzioni dimostrano che queste gerarchie sono annullate”. Nel senso che se la verità si dispiega attraverso racconti di cui è noto il carattere narrativo, allora la letteratura non è un caso “deviante” del linguaggio e gli altri discorsi possono essere considerati come casi specifici di una letteratura generalizzata.

Habermas conclude perentoriamente la sua dissertazione con la seguente sintesi: quando il pensiero filosofico “viene esonerato dal dovere di risolvere problemi, e rifunzionalizzato come critica letteraria, è privato non soltanto della sua serietà, bensì anche della sua produttività” e all’inverso anche il giudizio critico letterario perde la sua potenza quando “viene convertito dall’appropriazione di contenuti estetici d’esperienza a critica della metafisica”. “Chi trasferisce la critica radicale della ragione nell’ambito della retorica, per disinnescare il paradosso della sua autorefenzialità, ottunde la lama  della stessa critica della ragione. La falsa protezione di sopprimere la differenza specifica fra filosofia e letteratura non può condurci fuori dall’aporia”.