Giovanni Fontana
ALLA DERIVA DEL FOGLIO.

Sul fraseggio dello zeroglifico spatoliano per vedere e sentire di più



Sono ormai passati quasi trent’anni dalla scomparsa di Adriano Spatola. L’anniversario cadrà il 23 novembre 2018, ma purtroppo, per ragioni diverse, ancora non si riesce ad avere in Italia un’edizione completa delle sue opere, nonostante si registri, anche nelle nuove generazioni, uno spiccato interesse per il suo lavoro, come testimoniato dai numerosi interventi in rete. Molto si può leggere nel web soprattutto grazie al lavoro del fratello Maurizio che ha raccolto nel suo archivio digitale numerose anastatiche dell’opera poetica, rapportandola a documenti rari, se non addirittura introvabili negli archivi o nelle biblioteche, e accompagnandola spesso da commenti, osservazioni e saggi di grande utilità per inquadrare la figura e l’opera di suo fratelloi.

Di fatto, però, su Adriano Spatola, nonostante siano stati pubblicati diversi studi di un certo rilievo,ii c’è ancora molto da scoprire e da dire, specialmente per quanto riguarda la sua attività di sovvertitore di modelli linguistici ed espressivi, in particolare nel settore performativo, sonoro e visivo.

Particolarmente importante appare quest’ultimo aspetto perché implica una serie di considerazioni sulla sua poetica che potrebbero trovare utile applicazione nell’analisi degli altri ambiti creativi, incluso quello dei testi lineari.

C’è chi pensa che l’immaginazione sia qualcosa di essenzialmente visivo. E indiscutibilmente c’è chi pensa per immagini. In quest’ambito, poi, c’è chi lavora per valorizzare il dato visivo della scrittura. C’è chi ne va matto. Del resto sono ormai ben note le qualità figurali di certi testi, siano essi tipografici, dattiloscritti, composti al computer, vergati a mano o dipinti: la loro forma dice al di là di ciò che dice. Aggiunge. Offre un bonus a chi sa ben guardare. A seconda di come è scritta, infatti, una parola può trascendere il suo significato principale o incamerare attributi ampliando non poco la propria sfera semantica.

Non solo è possibile registrare sorprendenti passaggi dalla denotazione all’area della connotazione, ma si possono aprire ampie prospettive di significato e di senso, talvolta del tutto singolari o addirittura impreviste. Nel caso delle opere visive di Adriano Spatola dovremmo essere a zero sul piano dei significati, avendo scelto l’artista di giocare la sua partita esclusivamente a livello di significanti.

Sappiamo bene che ogni opera costituisce un sistema linguistico e che, nei casi più spinti di chiusura verso l’altro da sé, dice comunque se stessa. Lo zeroglifico spatoliano sembra rispondere a questa regola: non ricerca infatti implicazioni nella realtà, ma è esso stesso realtà.

La sua fase di progetto coincide perfettamente con il processo di realizzazione dell’opera. Concluso tale percorso, che rappresenta un modo tutto particolare di rapportarsi al dato reale, fatto di ritagli, di gesti, di superfici di scorrimento, di congiunzioni, di sovrapposizioni, di sguardi misuratori, di esistenze e resistenze, si giunge sul filo del traguardo di una nuova realtà. La realtà dell’opera. Che costituisce un elemento nuovo. Un nuovo dato reale, appunto. Che si aggiunge al mare magnum della realtà esterna.

Rivoluzione di forme. Poesia astratta. Ma qualunque sia l’ambito al quale ascrivere il prodotto poetico non si esce dal vincolo della significazione. Per quanto ci si possa sforzare di allontanarsi dai contenuti, resta pur sempre evidente il dato materiale dell’opera che nasce in un contesto preciso, che contiene miriadi di referenze, sia pure inconsce, che testimonia un atteggiamento, un comportamento e una gestualità compositiva, che denuncia una tecnica, che assume forme mai prive di referenze iconografiche, di riferimenti mediatici, di relazioni: tutti elementi che parlano. La pagina è offerta a un lettore che osserva secondo esperienza e sensibilità.

Ed è significativo a questo proposito osservare come l’occhio umano riesca addirittura a individuare rappresentazioni in formazioni casuali. È la pareidolia. Individuare elementi noti anche dove non c’è, a monte, volontà alcuna di rappresentazione, come in figurazioni casuali frutto della natura, come nelle cosiddette “pietre figurate”, le “pietre fiorentine”, i “marmi ruiniformi”, i “polimorfiti”, assolutamente naturali, frutto del caso. Dove le forme però richiamano alla mente le figurazioni più disparate.

La passione di Adriano Spatola per gli aspetti misteriosi di antiche scritture si accese al ginnasio, quando un’infatuazione per i geroglifici, tanto bizzarra quanto insolita in un adolescente, lo spinse allo studio dell’antica poesia egizia. L’osservazione attenta di quelle enigmatiche composizioni, dove l’aspetto figurale aveva un’importanza fondamentale, influenzò profondamente la pratica dei suoi zeroglifici.

L’approdo alla poesia concreta è del 1964. Il suo poema-puzzle Poesia da montareiii è del 1965. Si tratta di giochi a incastro di lettere e frammenti di lettere che implicano il diretto intervento del fruitore, che, nelle differenti fasi di montaggio, “legge” le forme. Per l’autore, questo momento costruttivo, questo coinvolgimento, è l’essenziale. Il ruolo del lettore, già tradizionalmente attivo, viene qui arricchito da un compito tecnico-pratico. Gli si richiede una gestualità che sappia individuare equilibri di volta in volta differenti e che possa creare incidenti di lettura in una prospettiva di forme dinamiche indipendenti dalla volontà dell’autore. Diceva Franz Mon che l’ambiguità è la reale concretezza e che ogni identificazione vale una sparizione: in effetti l’identificazione indica la strada del museo e produce reperti; l’antistaticità della proposizione attiva stimola vitalità nel processo di decodificazione che si trasforma in energia creativa.

In quegli anni, il pubblico è coinvolto come parte attiva in numerosi settori artistici: nella musica, in teatro, nelle arti visive. Il coinvolgimento è sinestetico. In alcuni casi addirittura totale. Nello stesso tempo l’opera si apre sempre di più all’imprevedibilità dell’intervento del fruitore, che viene teorizzato, stimolato, atteso. Del resto l’universo comunicativo non è fatto solo di parole, e la comunicazione è sempre intersensoriale. Essa coinvolge tutti gli organi di senso, e quasi mai uno per volta, mentre sempre più spesso, nella nuova realtà mediatica, si può parlare di comunicazione intrecciata.

La confusione dei linguaggi tra i diversi canali sensoriali è più facile di quanto non sembri. Il cervello non contiene culs de sac. Per il biofisico Ruggero Pierantoni “s’incontrano solo anelli entro anelli […] non esistono vicoli ciechi, binari morti”iv. E l’opera d’arte totale implica necessariamente una plurisensorialità. Lo stesso mosaico dei frammenti di lettere decontestualizzate che costituiscono gli zeroglifici spatoliani non si presenta come puro spettacolo per gli occhi. Le particelle si organizzano nello spazio secondo un ritmo ed una logica addirittura musicali. Giulia Niccolai parla di “fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine”v. Anche lo stesso Spatola parla di fraseggio e aggiunge che “i valori semantici di partenza sono sconvolti e rielaborati come molecole di un organismo iconografico astratto, in cui l’ordine rigorosamente casuale porta mediante l’iterazione all’apparizione-evocazione di segni ‘altri’”vi. Quindi ogni zeroglifico è una sorta di spartito, di tessuto sonoro. Parlerei di musica cristallizzata, per gli occhi più che per gli orecchi, o, meglio ancora, parafrasando e adattando un giudizio espresso nei confronti degli esperimenti pizzutiani, direi che questi testi concreti tendono a suscitare nel “lettore” una sorta di musica interiore, ma di testa: una musica della verbo-scrittura che la pagina suona nel cervellovii.

Ciò è confermato ulteriormente da questa dichiarazione di Spatola: “I frammenti di significato che nonostante tutto emergono dalla superficie del testo visuale […] lasciano forse intravedere sul fondo relitti di metafore e di simboli, così come la parola esplosa non dimentica mai l’eco lontana ma ancora percepibile di un significato sonoro. Certo, gli zeroglifici sono anche partiture, ed è forse per questo che il rapporto tra parola e immagine (da qualsiasi punto di vista lo si guardi) sembra esistere unicamente in una zona percorsa da richiami per l’orecchio o, al limite, per la mente”viii.

Questo dire implica comunque delle regole compositive che rispondono ad una diversa sintassi, che risponde a regole visive. Del resto anche dal punto di vista strettamente visivo quei “testi” (quei fraseggi) possono consentire letture ai limiti del paradosso. Ricordo che Severino Gazzelloni dichiarava di riuscire a leggere con il suo flauto d’oro qualsiasi immagine.

Ma pur se il termine zeroglifico sembra essere stato coniato per dire che non c’è nulla al di là di un vuoto apparire (un vuoto semantico per definizione), in realtà vi traspare tutto il peso di un gesto polemico, trasgressivo, tra impegno e ironia, sul fronte della lotta contro le convenzioni e contro il linguaggio consunto di certa letteratura. Di ciò si fa carico la riconoscibilità della matrice tipografica utilizzata ritmicamente e la trasparenza del processo creativo in deroga, costruito sulla connessione tra materia, gesto, spazio, colore, frutto del gioco intermediale.

Lo zeroglifico, pertanto, va oltre il puro apparire e, nello stesso tempo, rispetta perfettamente uno dei fondamenti principali della logica del concreto, cioè quello dello scambio e addirittura della convertibilità tra le qualità visive e quelle sonore, tra immagine e accento, pur se la sua collocazione è molto vicina a quelle aree di confine nelle quali certe fluttuazioni, certe labilità e certe ambiguità si perdono, dove i testi diventano percepibili solo visualmente o solo acusticamente.

Scrive Franz Mon: “Appaiono testi visuali e fonetici, che non si lasciano trasferire più l’uno nell’altro. Essi determinano le posizioni limite della poesia concreta, dove incominciano le zone intermedie che portano verso la musica o verso l’arte figurativa o verso l’architettura”ix.

Nell’ottica della sperimentazione verbo-visuale novecentesca la poesia si fa “oggetto” e in quanto tale rifiuta i canoni tradizionali della lettura. Spesso, superando le barriere della lingua, si pongono come oggetti universalmente leggibili, così come accade per le arti visive, che in ogni caso costituiscono un punto di riferimento sempre attivo per i poeti che lavorano in questo settore, siano essi i “concreti”, siano essi i “visivi”, siano essi i “calligrafici”.

Anna e Martino Oberto compilarono un inventario secondo il quale la poesia sperimentale poteva essere “visiva, concreta, aleatoria, evidente, fonetica, grafica, elementare, elettronica, automatica, gestuale, cinetica, simbiotica, ideografica, multidimensionale, spaziale, artificiale, permutazionale, trovata, simultanea, casuale, statistica, programmata, cibernetica, semiotica”. Da allora numerosi si sono aggiunti gli aggettivi, tra cui recentemente “asemic”.

Tutte sigle ed etichette, che però non si distaccano mai dagli ambiti di ricerca dei singoli artisti o di piccoli gruppi di sperimentazione. L’unica definizione che sembrerebbe avere un respiro tanto ampio da comprederle tutte è “totale”. In realtà, Adriano Spatola nel suo famoso saggio Verso la poesia totalex indica chiaramente la vastità e la complessità della ricerca, che ponendosi al di là di qualsiasi limitazione di tipo linguistico, strutturale, metodologico, tecnico, disciplinare o mediatico procede verso la totalità, ponendosi come atto creativo inglobante. Cosicché ogni aspetto coinvolto nell’atto creativo deve essere inteso come mezzo e non come fine. Ecco allora che anche la presunta asemanticità deve essere considerata come un aspetto dell’opera totale, che tutto può includere, ivi compresa questa tendenza.

In ogni modo, una cosa è certa: non si sfugge al fascino delle forme.
George Maciunas asseriva che “l’artista deve dimostrare che tutto può essere arte e che chiunque è in grado di fare dell’arte”; avrebbe poi scritto Spatola che “la richiesta di un’arte ‘semplice’ e ‘divertente’ nasce sia da un moto di anti-intellettualismo che potremmo definire, con Tzara, ‘spontaneo’, sia dall’esigenza di tagliare il cordone ombelicale che lega l’opera d’arte ‘rara’, ‘preziosa’, ‘seria’ […] a un discorso sempre più specialistico e settoriale”
xi.

Rileva Vincenzo Accame che negli zeroglifici “ciò che conta non sembra più essere la ‘segnicità’ della lingua, ma la costruzione del segno fuori della lingua”xii. Si tratta di una tecnica combinatoria che Spatola mutua in maniera personalissima da Franz Mon e che, comunque, rientra per altri versi nel corredo tecnico del concretismo internazionale.

Mon stesso nel tratteggiare un quadro di riferimento delle metodologie del concreto sottolinea l’illimitatezza della combinatorietà sintattico-semantica e l’instabilità dinamica. La logica della combinatorietà “spinge la poesia concreta alle sue estreme disposizioni: da un lato al raggiungimento dei limiti più bassi dell’informazione linguistica, attraverso la riduzione dei rapporti, dall’altro alla differenziazione ed alla complicazione degli elementi, in modo tale che nessuna percezione sia più all’altezza del complesso dei segni risultante. Nel primo caso appaiono testi costituiti da parole distrutte, da lettere tipografiche, da frammenti di lettere, da resti di segni non più identificabili”xiii.

A proposito della tecnica spatoliana, nella terza antologia Geigerxiv Achille Bonito Oliva parla di “processo che atomizza il linguaggio istituzionale cancellandone tutti i significati obbligati, orientando la disposizione del segno sullo spazio estetico in maniera da costruire a linguaggio anche gli interstizi tra una particella linguistica e l’altra”xv.

Ciò è a mio avviso direttamente riconducibile al metodo compositivo. Lo zeroglifico spatoliano è infatti particolarmente soggetto al minuzioso controllo fisico dei materiali e delle superfici di appoggio durante tutto il processo compositivo.

Adriano Spatola vive la sua opera, materialmente, attraverso il proprio gesto, attraverso una manualità lenta e misurata, ma nello stesso tempo carica di quella lucidità e quella sensualità necessarie al compimento di un’operazione di montaggio che deve risultare il più possibile libera e aperta. Cosicché gli interstizi tra i ritagli, il controllo del bianco, assumono valenze di primo livello. Mirella Bentivoglio, in occasione di una collettiva milanese nota la presenza e l’importanza della gestualità spatoliana: “Alla parola si sostituiva il gesto.

Guardiamo i testi di Adriano: un intervento diretto, manuale, nel carattere a stampa: una cancellazione non per sovrapposizione grafica ma per destrutturazione e sfalsamento. E questa gestualità collagistica a ben guardare prepara la grafia poetica manuale”.xvi Che a ben guardare si ritrova anche nella poesia lineare.

In Il quaderno bianco, sezione d’apertura dei Diversi accorgimenti,xvii traspare una corporeità labile che maschera un gesto già attutito da presenze inquiete; mentre nell’ultima strofa il poeta sembra voler fornire istruzioni per l’uso della composizione del testo in sintonia con quelle in adozione nell’universo degli zeroglifici:

Un suono che corrisponde alla trama della distanza
alla remota richiesta della complice macchinazione
o al canone algebrico all’urto dei nuovi frammenti
un compito della sostanza nell’ordine della manovra
.

I frammenti, i ritagli che si scontrano disordinatamente sul piano, sono la sostanza della poesia, che trova un equilibrio, alfine, mentre il gesto del poeta ricerca l’ordine giusto, una delle tante combinazioni possibili. Sembra che suoni vengano fuori delle trame che si organizzano, dalle improvvise prospettive che si aprono agli occhi, dalle distanze relative dei frammenti che si inquadrano, complici, nella macchinazione poetica.

Si legge ancora più avanti nella medesima raccolta, in Commensurabile e/o incommensurabile:

La posizione in cui è stata sorpresa la mente
diventa la fantasia la proiezione di un mondo

È come se il gesto dovesse agire indipendentemente dalla mente, ininterrotto, fino a quando, attraverso una particolare disposizione degli oggetti, non sorprende la mente stessa, che ne è eccitata; allora, grazie ad un immediato scatenamento dei meccanismi fantastici, quasi una reazione a catena, si apre la proiezione del mondo sul piano del foglio.

Adriano Spatola insiste molto sulle questioni tecniche in poesia e auspica spesso l’appropriazione, da parte del pubblico dei lettori, dei vari sistemi compositivi, evidenziando il lato ludico dell’operazione.

È questo un tema ricorrente nelle neoavanguardie, specialmente nei settori della sperimentazione verbo-visiva: vi si scopre la volontà di confondere in qualche modo l’arte con la vita, ed in questo senso si può pensare a “Fluxus” o, per esempio, al fenomeno della Mail Art, che in varie occasioni coinvolge Spatola.

Del resto – egli scrive, ancora sotto gli effetti degli umori sessantotteschi – ciò che contraddistingue la nostra epoca non è più soltanto il sistema della divisione del lavoro, conseguenza dell’introduzione dei metodi di produzione industriali, ma anche l’aspirazione a un mondo nel quale ogni differenza culturale tra l’artista e il non artista, tra l’intellettuale e il suo pubblico possa definitivamente scomparire.

La poesia totale sembra offrire oggi al lettore non un prodotto definitivo, da accettare o subire nella sua chiusa perfezione, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, nella loro strutturale rimaneggiabilità”xviii.

La fluidità intermediale individua rapporti artista/pubblico del tutto inediti. Nel saggio che inquadra i materiali raccolti nell’antologia Geiger 5 si legge che il termine intermedia “è […] comprensivo di ogni esperimento di apertura non patetica né pseudoesistenziale verso la vita”.xix Il concetto di intermedia, infatti, come sottolinea Gilberto Finzi, denota una “disponibilità tipica e totale a utilizzare tutto quanto può fare di un’antica concezione dell’arte immobile una moderna ‘possibilità’ di arte nuova o di modi ‘altri’ di fare arte.

Si tratta di una prospettiva che tiene conto degli oggetti, del mondo che circonda l’uomo, e dell’uomo stesso, visti in relazioni eterodosse, in relazioni che non siano di pura esteticità categoriale ma, al contrario, di una funzionalità che l’emozione o viceversa l’assenza di emozione rendono oggettiva perché oggettuali, continue e freddamente critiche nei confronti di un ambiente qualsivoglia.

E intermedia deriva forse (anche) da Lautréamont che auspicava un’arte fatta da tutti e non da uno solo”.xx Adriano e Maurizio Spatola riportano poi, nell’antologia Geiger 5 appena citata, alcuni giudizi di artisti che suonano così: “Anche la fantasia diventa un oggetto del mondo fisico e non si differenzia più dalla strada o dalla pioggia” (R. Whitman); “Fare cose senza storia né critica né messaggio. Fare qualcosa e lasciarlo lì” (U. Nespolo); “Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (P. Manzoni).

E il gesto di Spatola è. Attraverso quel gesto egli vive. Sfondare la soglia del linguaggio per azzerarne il significato è un modo di riconoscersi, un modo di essere. Perciò non a caso la raccolta degli zeroglifici reca in esergo questa frase di Max Bense: “Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”xxi.

Più volte Spatola accenna ad un iperspazio come continuum multidimensionale, entro il quale accede solo chi è capace di abbandonare gli esigui ambienti dell’istituzionalità, del corrente, del precostituito, per costruire un mondo da contrapporre a quello dato.

Rifare il mondo – egli scrive – vuol dire creare in laboratorio il linguaggio del mondo in concorrenza col mondo, vuol dire entrare nella quarta dimensione, che è la dimensione del rifiuto della pura e semplice registrazione lessicale”xxii.

E infatti tutto il lavoro intorno alle Edizioni Geiger e a “Tam Tam”,xxiii rivista che prende corpo dopo la spaccatura di “Quindici”, è teso alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico che sia il più possibile trasgressivo nei confronti delle consuetudini e dei gesti istituzionalizzati e, quindi, del tutto liberatorio: un linguaggio che metta continuamente in crisi se stesso attraverso contaminazioni e dilatazioni imprevedibili, ma anche attraverso l’utilizzazione di segni funzionali all’abbattimento delle barriere linguistiche. Emblematici gli zeroglifici e le pièce sonore di Spatola.

È da ricordare che, nel 1976, il suo maestro Luciano Anceschi scrive che “la lingua della poesia si fa radicalmente problematica, e da sistema prestabilito di segni si apre alla possibilità di un acquisto di segni sempre imprevisti […] secondo relazioni possibili. L’area segnica sembra espandersi continuamente.

La parola mette in crisi se stessa, non solo nel gioco delle famose strategie tra significante e significato, o nel mettere in discussione strutture anche elementari come il grafema o il fonema, ma, al limite, correndo il rischio di essere sostituiti da altri tipi di segni. E certo si giunge a proporre un tipo di messaggio il cui sistema segnico non solo suggerisce l’idea, come è stato detto, di un movimento di poesia veramente internazionale, ma anche perché può proporre l’ipotesi di una lingua poetica internazionale che ha solo certi aspetti in comune con la musica”xxiv.

Ma le critiche a questo modo di procedere non vengono risparmiate a Spatola e ai poeti dell’area di “Tam Tam”, mentre le pratiche visuali, sonore e performative vanno infittendo sempre di più una rete di relazioni ampia ed articolata. Il Mulino di Bazzano, in Val d’Enza, prima sede redazionale della rivista, si trasforma ben presto in un vero e proprio faro per poeti nomadi. Da lì Adriano e Giulia segnalano, coordinano e organizzano, accanto alle iniziative editoriali, rassegne, mostre e festival.

Gli echi del tam tam raggiungono ogni angolo del mondo con risultati sorprendenti non solo sul piano artistico, ma anche su quello socio-culturale ed umano. “Intenzioni giustissime – notava Giuseppe Zagarrio – ; ma il fatto è che l’attenzione della ricerca appare troppo massicciamente spostata sul materiale dei segni linguistici e sul linguaggio come oggetto assoluto e aseico, privo di alcun rapporto referenziale con i significati, cioè con il reale operare (creativo, ideologico, etico, pratico) dell’uomo nel suo esserci individuale e collettivo.

Il rischio che si corre a questo punto (nello spostare ogni prassi, appunto, sui significanti) è quello di ridursi a una condizione estrema di (super-)oggettività e dunque di precipitare nella (in)significanza”xxv.

Ma solo l’attenzione al significante paga in termini di vera libertà e di indipendenza dall’istituto storico. Ce lo ricorda Lamberto Pignotti, citando Susan Sontag per spezzare una lancia a favore della sinestesia: “Interpretare è impoverire, svuotare il mondo, per instaurare un mondo spettrale di ‘significati’. È trasformare il mondo in questo mondo. Dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più, a sentire di più”xxvi. E poi: “Il piacere del testo è questo: il valore promosso al rango suntuoso di significante”: un gran finale per un insostituibile libretto: “qualcosa granula, crepita, accarezza, gratta, taglia: è godere”xxvii.

Ed ecco allora gli zeroglifici: isole in defrag / ecco / alla deriva d’un foglio che non si piega più / accadono tattilmente le paginediscena / per gli-oggetti-del-caso in misteri di tagli / tanto aggettanti sui tempi stabiliti / (ma con fuochi cangianti) / ché si protrae oltre il ciglio la convenzione della carta / così che gioca rarefatti scambi di presenze-assenze / ecco allora la verifica espansa / sospinta tutta nella partitura e sostenuta / ecco / che fragilmente assevera l’incanto / è la vertigine del suono che si contrae in architetture quando l’occhio ascolta / convergenze di mostri e di contraddizioni in falso armonico / dove riassettano le idee / in pervadenti attese / che penetrano / protraggono / che dilatano ecco / che si moltiplicano oltre i layer d’una pagina essente che non trova corpo / ché esserci e non esserci è come smisurarsi / attraverso gli addensamenti del non essere / in frammenti esplosi che si perdono, raccolgono, che aprono / in andirivieni di gesti-evento / che trascinano concreti accadimenti e che urgono di accertamenti ancora / e accorgimenti diversi / e chiudono / ché la visione è visione di sé / e qui l’ascolto è mentale / ché tale e quale è lo spessore del silenzio / quando si espande negli interstizi di orditi sincopati / ecco corpi lacerati nella prevaricazione / uno strappo sconveniente / un’agonia di superfici / ecco traguardi abissali finalmente / come in quei percorsi di deframmentazione / che si diceva in testa / un ciclo di molecole in tensione / di molecole in pressione / conferma regole fosfenestetiche / ecco che sensuale muove / la linguabiforcuta dei prodigi / eccoli simultanei / ecco…

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i http://www.archiviomauriziospatola.com/ams/indexweb.php?name=WEB

ii Tra le pubblicazioni più recenti, il numero monografico della rivista “il verri”, n° 58, Milano, giugno 2015.
iii Bologna, Sampietro, 1965.
iv Ruggero Pierantoni, Postfazione al volume di Tonino Tornitore, Scambi di sensi, Torino, Centro Scientifico Torinese, 1988.
v
 Giulia Niccolai, Introduzione al volume Zeroglifico, cit.

vi in Parola immagine scrittura, a cura di Matteo D’ambrosio, cat. Seconda Esposizione Nazionale, Urbino, 1978.
vii
 Giovanni Fontana, Antonio Pizzuto o dell’ingegno ritmico, in “La taverna di Auerbach”, n° 2-3-4, 1988.

viii
 Adriano Spatola, Dichiarazione, in Segnopoesia, Centro Culturale d’Arte Bellora, Milano, 1987.

ix
 Franz Mon, Sulla poesia, cit.

x
 Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Salerno, Rumma, 1969; poi Torino, Paravia, 1978.

xi
 Adriano Spatola, Verso…, cit.

xii
 Vincenzo Accame, Il segno poetico, Milano, Ed. Zarathustra, 1981.

xiii
 Franz Mon, Sulla Poesia Concreta, in Poesia Concreta. Indirizzi concreti, visuali e fonetici, cat. esp. a cura di Dietrich Mahlow e Arrigo Lora Totino, Venezia, La Biennale, 1969.

xiv
 Le Edizioni Geiger prendono il via nel 1968 con le omonime antologie grazie all’impegno di Adriano e dei suoi fratelli Maurizio e Tiziano.

xv
 Achille Bonito Oliva, Zeroglifico metonimico, “Geiger”, n° 3, antologia a cura di Adriano e Maurizio Spatola, Torino, Ed. Geiger, 1969; poi in A. Spatola, Recenti zeroglifici, cat. esp. personale, Galleria “Il Punto”, Velletri, 1985.

xvi
 Mirella Bentivoglio, testo in Poesia Visiva 3, Poesia Concreta, cat. esp. collettiva, “Studio Santandrea”, Milano 1977.

xvii
 Torino, Geiger, 1975.

xviii
 Adriano Spatola, Verso…, cit.

xix
 Adriano e Maurizio Spatola, Intermedia ?, “Geiger”, n° 5, antologia a cura di A. e M. Spatola, Torino, Ed. Geiger, s. d., ma 1972.

xx
 Gilberto Finzi, Poesia in Italia, Milano, Mursia, 1979.

xxi
 Adriano Spatola, Zeroglifico, Bologna, Sampietro, 1966; poi Torino, Geiger, 1975.

xxii
 Adriano Spatola, Iperspazio linguistico, in Impaginazioni, San Polo d’Enza, Ed. Tam Tam, 1984; già apparso come nota critica al volume di Pietro Aretino, I ragionamenti, Sampietro, Bologna, 1965.

xxiii
 La rivista veniva fondata da Spatola e da Giulia Niccolai e nei primi mesi del 1971, ma il primo numero fu pubblicato l’anno successivo.

xxiv
 Luciano Anceschi, Variazione su alcuni equilibri della poesia che san diessere precari, in “Il Verri”, VI serie, n° 1, 1976.

xxv
 Giuseppe Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Milano, Mursia, 1983.

xxvi
 Lamberto Pignotti, Sie Aesthetica, cit

xxvii
 Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975