Gio Ferri
Domenico Cara

Pietra scissa”: L’aforisma dialogico

A.Considerazioni generali
Interminabile il testo di Domenico Cara. Conosciamo Domenico Cara per quella immersione della verbalità nel magma discorsivo che egli ha mantenuto coerentemente fino alla ossessività insignificata e abissale per oltre vent’anni di scrittura poetica : “La febbre del testo” del 1977 e il “Principio della peste” del 1980 sono, già nei titoli, gli esemplari di mezzo, forse più compiuti in assoluto, di quella incompiutezza della circolarità in-sensata e in-cessata che riavvolge la menzogna manieristica del dire. Mille e mille volte su se stessa, da spremerne una verità che infine si è fatta forma (ambigua ma compatta) oltre la formalità (grammaticale-sintattico-comunicativa).

La poesia di Cara è ormai nel nostro metabolismo letterario, riscattata, o immemore, da ogni contingenza puramente significativa, un flusso perpetuo e metamorfico (piuttosto che metaforico) di eventi senza storie: statuti un tempo soggettivi, infine oggettivamente coagulati in una Storia come dismisura dell’essere. Questa dismisura, dalle sedimentazioni ormai indecifrabili, ci coinvolge, nella memoria millenaria, in qualità di monadi piuttosto che di persone. Poiché anche le maschere si indifferenziano nella Maschera, che non ha più ragioni o evidenze di riconoscimenti: vivendo tanto aperta espressivamente da coagularsi nella cosmica chiusura totale e totalizzante. Dentro (o fuori, ormai è impossibile esercitare dualismi di sorta) delirano in-differenti febbri e pestilenze. Per citare vagamente e insieme Leibniz, Heidegger e Deleuze (in un unico compatto corpo di contraddizioni) potremmo affermare che la chiusura è la condizione dell’essere per il mondo. la condizione di chiusura vale per l’apertura infinita del finito. Rappresenta finitamente l’infinitezza. Dà al mondo l’opportunità (nella poesia di Cara colta per non essere colta all’uso della prassi) di ricominciare in ogni monade. Questa torsione costituisce la piega ritorta dell’anima (G. Deleuze “La piega- Leibniz e il Barocco”, Torino, 1988-1990), rispetto alla proposta dialogica del mondo. l’idea di una poesia della torsione risponde opportunamente all’immagine che ci rimane, dopo tante magmatiche e incoercibili letture, del testo –un unico

Tutto ciò fino ad oggi. Oggi c’è, di Domenico Cara, “Pietra scissa. ”Con segni di cava ed altra rapida carta” (Giardini Editori di Pisa, 1989). Se ci pare utile riprendere le considerazioni d’appoggio di Deleuze, possiamo s-vilupparci, nel viluppo (peraltro sempre immisuratamente fluente) di questo mondo di pieghe quali universi di monadi, costringendo il mondo medesimo nel soggetto, affinché il soggetto sia per il mondo. E’ troppo limitativo etichettare “Pietra scissa” come raccolta (ancorché ‘summa’) di aforismi. Tuttavia, confortati dall’autore che apre le pagine con un aforisma di Sbarbaro sulla perentorietà dell’aforisma, possiamo riconoscere che il lemma retorico acquista la sua conformativa e solida valenza proprio nella Storia, ormai senza storia, dell’intero opus poetico-formale (perciò oltre la retoricità poetica stessa) di Cara. Se per aforisma intendiamo propriamente aphorismos, cioè definizione. O più specificamente ancora epiphónēma, come voce aggiunta. Purché l’insieme non venga considerato, secondo l’uso, come gnômē (sentenza). Riduttivo sarebbe considerare “Pietra scissa” una coalizione di sentenze.

La definizione, come la voce aggiunta, prima di porsi (quando lo vogliamo) come sentenze, esprimono, imperentorietà non finalistica (esito, invece della sentenza), ‘semplicemente’ ma fondativamente, la sottolineatura del soggetto, che diviene misura e disponibilità del mondo. Ecco perché “Pietra scissa” può dirsi anche sequela di aforismi; può continuare ad esprimersi in un flusso di evenienze (secondo i modi antichi del discorso di Cara): ma deve rivelarsi, insieme, quasi inaspettatamente ma pur sempre necessariamente, quale momento (questa volta storico e non genericamente Storico) della ricostituzione del soggetto. Quel soggetto che la Storia di Cara, e di tanta poesia degli anni 70 / 80, aveva (opportunamente o no, non è un problema, né una esigenza giudiziale) non tanto ridotto al silenzio, quanto coinvolto quasi senza speranza nella magmaticità indifferente di una biologia di parola come inesorabilità dell’essere nella indifferenziazione (talvolta consolatoria e irresponsabile) dell’Essere. Ricordiamoci di “ La febbre del testo”:

Le uccisioni continuano nell’orrificità della cronaca, i GEMELLAGGI
sono INGANNI FESTOSI, gli anniversari negoziano un diverso
cl/amore, ma i manicomi ostentano sempre minore acustica;
frugo nei movimenti dell’inconscio i cambiamenti dell’io,
le sedute non sono neanche continue per i capricci individuali,
l’errore decisivo ognuno crede di doverlo ancora commettere,
nei CLIMI OBBLIGATI dentro i quali – dal punto di vista tattico-troppi
di noi si devono accontentare della falsa amicizia, mentire. Quel genere di transfert
che è il linguaggio umano diventa ancora paradossale e, a proposito di echi, la
svogliatezza è ribellione(d’ascolto)…….


O quest’altro passo in cui all’io, che insiste nella pretesa di una propria insostituibilità, viene offerto il surrogato di un “riconoscimento pretestuale”. Una targa burocratica, anagrafica, corporativa. Una lapide, insomma:

tra i riconoscimenti pretestuali una dotta biografia, l’estrema qualità
del prodotto sull’insostituibilità dell’io: (se qualcuno balbetta è il
pudore, e anche Beckett corregge l’uomo e la sua eternità in bianco e
nero, o con accesi falò privati, perché essi diventino pubblici), e nel
frugare di vanità accetto contese c/o: polveri di sussiego ai margini
delle formulazioni proditorie / e dentro il dossier di fogli inutili,
quasi razionalmente accreditando l’illusione di ognuno………

Pietra scissa” l’evento, non più pretestuale, ma soggettivamente testuale, in quanto espresso dalla volontà, si propone perentoriamente senza svolte clamorose, o abiure plateali. Anche perché ciò che è acquisito alla conoscenza e dalla pura esperienza fisico-sensitiva (indifferente ai funambolismi utilitaristici), non è mai più rinnegabile. La magmaticità dell’eloquio, la sua fluibilità biologica, sono sempre intatte, mai smentite. Cosicché i valori formali del discorrere incessante, secondo il succedersi ineluttabile del tempo, mantengono la loro plausibilità e il loro riconoscimento: la compatezza molecolare, agtomica, il collassamento sintetico della “pietra” fa ancora l’inarrestabilità immobile (ossimoro dell’universo chiuso) di una parola di parola (di parola, e di parola…ecc…), che non conosce negazione, in quanto ogni negazione sarebbe una condanna capitale. Una morte, se non la morte (della poesia come della vita). Questa unità, tuttavia, è “scissa” (non smentita, né smembrata) dall’autorivelazione del soggetto (senza protervia), richiamato piuttosto al proprio dovere: quello di nominare, definire, avallare, riconoscere il mondo per farlo vivere racchiudendolo il sé. Senza sottrarsi alla responsabilità di darsi a questo stesso mondo, alla sua, per la propria, sopravvivenza.

Pietra scissa” pone quindi tre problemi alla propria lettura: la lettura di una tendenza che in varie fogge si va riaffermando nella poesia dopo gli anni (della nullificazione, dell’estraniazione dell’io.

A quale autonomia reale, oggettiva, il soggetto possa aspirare nell’uniforme, indifferente, indifferenziato, inarrestato processo biologico (tanto spesso bio-logorroico);
Quale misura possa attribuirsi il soggetto nella comprensione e definizione del mondo, senza ricadere nella protervia demiurgica (che vale anche in parte a una rilettura, già in atto, dell’ipotesi nietzschiana; e per altro verso a una riacquisizione delle libere e libertarie potenzialità barocche);
A quali strumenti retorici può affidarsi questa rinnovata condizione, per non proporsi banalmente in una (il)logica del riflusso sempre in agguato.

Pietra scissa” è un testo importante quindi, poiché si offre come reperto, tra i primi, di una rivendicazione pacifica ma non debole della rivalutazione del soggetto: misura e responsabilità del mondo. Quanto meno nell’autonoma scelta d’essere, come critica della propria conoscenza.

B..La lettura.
La post-fazione dello stesso autore (“Per seduzione”) ci propone qualche soluzione in merito alla riscoperta di una libertà del soggetto nella uniformità (circolarità) afinalistica della (assoluta, assolutistica) condizione (condanna o risorsa perpetua?) del processo biologico:

Nella successione di questi aforismi (e pensieri, frantumi di diario, dissensi
e provocazioni atipiche, miniature e loro sofismi di fuga) il mutamento inesorabile
di argomento e la posizione continua in assetti diversi, scaglie, sensi irregolari,
accelerazioni di sminuzzamento ad altra morfologia, possono rendere sospetti
l’accoglimento, le occasioni filologiche, la mozione consecutiva degli innesti,
la stessa erranza cospicua e l’assimilabilità.
Ma si tratta di una libertà (e forse di un automatismo) che diventa coalizione
Reciproca fra l’insistenza delle tentazioni a manifestarsi dell’aforista e il lettore,
più spesso suo alter-ego alla ricerca della verità, nella medesima oasi di
interrogazione (in sintesi) del mondo e del Tempo.

L’ossatura della nuova sommessa (e sotto-messa) costituzione si articola nella brevità del colloquio: aforisma come riproposta interlocutrice alla battuta scettica o interrogativa di un alter- la commiserazioneego che ancora non sa recuperare –dopo tante negative esperienze- la fiducia in un discorso propositivo. Perché la brevità, tuttavia, possa essere efficace, la ‘battuta’, la risposta o proposta dovranno “incidere sulla nuova sensualità intrinseca al disegno paradigmatico che…identifica il testo, più viscerale ed isolato nella sua organizzazione che libresco ductus…” (tutte le evidenziazioni sono mie). Di qui un colloquiale “desiderio (o conflitto) di rimessa”. Di qui in via assolutamente sensitiva la conoscenza pre-conscia dei “segni di cava” originari e storici. Di qui la creatività in un autobiografismo, non più lapidario, anagrafico e categoriale (ad evitare che “disancorati dall’anonimato le figure cedano al prestigio, nelle cui alchimie il soggetto delira, la prospettiva in fieri si smarrisce o non raggiunge esatta pronuncia”), bensì “configurato”, “adattato” a conseguire il proprio monologo nel destino comune”. Seppure tra smarrimento e solitudine, in cui tuttavia, finalmente, niente è artefatto. Ecco perché non c’è sopruso nell’io rinnovato: in quanto si svela attraverso la sorpresa dell’altrui, mai attraverso la commiserazione e la misurazione di sé. Questa volta l’io si esalta nella collaborazione colloquiale. Nella comunione senza retorica: la coinonía dei sensi prima che dei discorsi (che possono apparire, appunto, disarticolati). Ma fuor di retorica la comunione è breve, sottilmente sensuale, leggera.

Le aperte fonti di fluenza di una brezza, non garantiscono certo né sulle
possibilità (sia pur esili) di persistenza, né sull’esaurirsi del suo stesso

La realtà è che, per riprendere Morin, “l’ego-struttura racchiude potenzialmente in sé la ‘struttura-altro’. Così l’anello che racchiude il soggetto su se stesso gli apre simultaneamente la possibilità di comunicare con l’altro. Questo punto ha un’importanza fondamentale perché ci permette di superare il quadro insufficiente di una teoria della comunicazione senza soggetto… e il quadro solipsistico di un Soggetto senza comunicazione… Dove l’identità prevale sull’alterità, la comunicazione può divenire comunione, cioè unione nella comunicazione”. Tra stereotipo e metasuono, quando l’identità sia libera e capace di prevalere sull’alterità (in un rapporto di prevalenza reciproca, perciò mai unilateralmente oppressiva) per parafrasare ancora Morin, la rivalutazione del soggetto, lungi dal costituire una rinuncia all’oggettività, ne costituisce una condizione.

1 .La misura che il soggetto può attribuirsi in questa amorevole-reciproca-violenza, è il riavvolgimento aperto, ondoso, mareale, definito ma mai definibile della piega leibniziana di cui ho già detto ricordando Deleuze. Va rispettata ovviamente la definizione di individuo che si costituisce originariamente in “concentrazione, accumulazione, coincidenza di un certo numero di singolarità pre-individuali convergenti”. In ciò si realizza la sensibilità, o sensualità, nativa che finisce dove inizia l’intelligibile. Ma il limite non è rintracciabile. Perciò non ci sono due mondi. “Poiché se ogni individuo si distingue da ogni altro per le sue singolarità primitive, queste ultime nondimeno si prolungano fino a quelle degli altri, a partire da un ordine spazio-temporale che fa sì che il dipartimento di un individuo si continui nel dipartimento del prossimo e del successivo, e così via all’infinito” (Leibniz- Deleuze). E per questa strada, di piega in piega, di pieghe su pieghe (di aforismi in aforismi per “Pietra scissa”) si realizza la propensione individuale alla moltiplicazione (non all’annullamento) della individualità. “E’ un mondo di captazioni, piuttosto che di claustrazione”. Il rapporto dei rapporti è genetico per disponibilità degli io, non mai per autorità dell’io. Lo straordinario è proprio nel rapporto di forma tra la genetica formale di ogni manifestazione e del tutto che altro non è che una sequenza di pieghe individuali. La doppia elica del DNA ha la conformazione a doppia scala a chiocciola della colonna berniniana, archetipo polimorfo e perpetuo del barocco. Inteso non come stile, o moda, bensì come intrinseca qualità del farsi e rifarsi dell’io come forma formata e formante.
Tutto il processo aforistico di questo testo di Cara, sviluppatesi senza pause o numerazioni o paragrafi, si esprime ineluttabilmente per
voci aggiunte. Analogie. Non indifferentemente testuali, tuttavia, bensì a-logiche quanto le vogliono i sensi (a loro modo sensati, geneticamente sensati) prima delle ragioni. Leggiamo questa sequenza (che sarebbe arbitrario astrarre dalla sequenzialità generale):

L’amore tutto impeti e scambio

E se l’ingordigia avesse origine dalla povertà (storica) dei reietti, non è quella

dei ricchi un’onnivora tirannide insistente e irrimediabile anche contro tutte le cose?
Sempre sospeso il polso delle attese, malgrado qualche mediocre ed improvvisa.
Consolazione con ciò che giunge finalmente!

Si osservi quanto sia sottile, nascosto, pudico il riverbero del soggetto sulla domanda (che non è giudizio esprimibile in forma di sentenza). E quanto la misura pretestuale sia biologica, prima che pragmatica: è lo scambio (storico-genetico) a conformare i rapporti così dall’antropofagia dell’amore si passi all’ingordigia onnivora delle tirannidi.

Sebbene lo scambio, comunque rivelatesi, sia il motore unico e perpetuo del “polso delle attese”. Scambio e attesa sono i principi sia dell’amore, sia dell’egoismo. Non si creda in una logica di risultato discorsivo (apparente solo nella nostra banalizzante lettura, alla ricerca di una impossibile risposta certa): l’attesa dello scambio (di mediocri soddisfazioni- debàcle ineludibile di una prassi sempre inesorabilmente condizionata dalle tirannidi) è motivazione di sensitività inespresse, ma uniche e fondative dell’essere nell’essere del mondo. Della sua barocca evolutività senza moto. Spazialità senza tempo. La spazialità non richiede tempi grammaticali. Bensì astanze. A-stanze. Stanze sonore di suoni muti e intra-scrivibili. Di contro a

Quelle scadenti peculiarità le quali, in una collocazione topografica
precisa, diventano omogenee e spente, senza più funzione, né riferibilità
di possibili altri spazi od orizzonti.

2 .Le soluzioni retoriche classiche presenti in questo discorso, come in qualsiasi altro, non risolvono la peculiarità strutturale di “Pietra scissa”; anzi, arrischiano di riportare le motivazioni espositive alle usurate valenze del flusso di coscienza, o dello strutturalismo analogico. D’altro canto se vogliamo sottovalutare gli artifici tecnici così abilmente sparsi lungo tutto il flusso di conoscenza sensitiva- le figurazioni dialettiche che vanno dall’antitesi all’apodosi, dalla correlazione all’epilogo, dall’isomorfismo alla paratassi, dalla presupposizione alla preterizione, al sillogismo, e così via- arrischiamo di cadere nella fumosa disposizione dell’ingiustificato formale che ha dominato e domina tanto moribondo (grazieaddio) postmodernismo:

I tanti sussurri metafisici, che potrebbero non soccorrere quando
derivati dalla stessa soffocazione.

Comunque se vogliamo suggerirci una plausibile peculiarità retorica che dia ordine alla nostra lettura, e sia l’ordine presumibile del testo (tanto aperto, quanto è aperta, nel chiuso dell’universo, la proposta inesaurita del soggetto ritrovato) dobbiamo innanzitutto rifarci alla riserva di Perelman nell’elogio (perciò fortemente condizionato) del calcolo, dell’esperienza e della deduzione: il pericolo, che proprio entro i limiti della misura more geometrico, si riaffacci la nebulosità dell’impersonale. Quale retorica allora? Devo ripetermi: la retorica come autodichiarazione del soggetto. Del mondo discorsivo come soggetto, anziché come oggetto (qual è stato fino ad oggi detto e definito). E per finirla (con le considerazioni e le…citazioni) diciamola questa volta con Rorty: vivere in un mondo in cui la conversazione è aperta, perciò sensitiva e mai definitoria. Per superare i due luoghi comuni della menzogna quotidiana: la filosofia che astutamente passa per verità ciò che è solo giustificazione; e per bontà solo ciò che è piacere o dolore.

E per dirla con Domenico Cara, dalla sua “Pietra scissa”:

(coltivare)…un’astuzia della semplicità –anche quando non la si possiede naturale e spontanea
…proteggerla, inseguirla, farla riaffiorare dalla
propria umiltà; passare per essa la voce, ovunque cresce l’abisso delle
distanze della reciprocità e dell’intima ed impura superbia.