Marco Buzzi Maresca

L’Assassinio del poeta” di Gio Ferri

Marzo 2014

L’Assassinio del poeta: poema interminabile come lo definisce  lo stesso autore, è giunto al 4° Libro, mentre è in elaborazione (ancora inedita) la 5° Cantica. I primi IX Canti iniziali (editi da “Anterem edizioni” di Verona) sono usciti nel 2003. Si tratta appunto di una esplicita dichiarazione autoriale di un progetto che si presenta come racconto epico ‘popolare’: è un poliziesco che si sviluppa per ottonari (e multipli e sottomultipli). Non si sa quanti Canti seguiranno, trattandosi di una storia interminabile. Non si sa chi è l’assassino, se ci sarà una soluzione,, chi è l’assassinato, se il poeta sia l’assassino o l’assassinato, o, infine, sia la stessa poesia
“la vera colpevole ai danni di ogni discorso comune e di ‘buon senso’ (cosiddetto)”. Con queste premesse viene da pensare che il genere (poliziesco) venga totalmente svuotato e che si debba andare a caccia di ben altri colpevoli e di ben altre cause. Non avevamo dubbi e già dalla prima pagina è evidente il disegno di una microfosica del potere:


in coscienziosa vacatio

e timorosa al sostegno di una ratio, sazio disdegno,

violenza d’una sapienza antica e più innimica

la pietosa rimordente coscienza che pur sollecita

giustifica disquisita disponibile passione

civilissima e crudele

tanto che nessuno può essere punito di un fatto,

articolo uno, che legge non voglia per questo reato:


ove non è ragione di dubitare che alla poesia appartenga quella capacità di pensiero che può sovrastare, comprendendole, le altre discipline, una sorta di metodo con cui è possibile valutare gli strumenti con i quali agiamo nella nostra vita. Facciamo riferimento a una microfisica per la relazione che sulle pagine vene tracciata tra sapere e potere, ove la poesia può giocare un suo ruolo alternativo

Il quadro indiziario, il processo che vi si sta per svolgere è al medesimo tempo il tribunale della ragione, ove però quando si tratti della poesia è a un altro tipo di ragione che si deve fare riferimento. Esiste, infatti, una specificità del pensiero poetico rispetto a quello filosofico. E che si ingaggi, immediata una contesa, un torneo, tra la “norma incriminatrice” e “Orazio fanciullesco” ci dà conferma delle nostre immediate intuizioni. In tale contesa fa capolino un io che chiede statuto, ruolo, autorità, riconoscimento con il suo stuolo di parole a testimonianza dell’incomprimibile arma linguistica. Il linguaggio manifesta la sua carica eversiva, “verginità e amistà sbrodola alla scrofamuta/ e la predica s’inchiavica s’immalizia spudorevole / improbata / stessa giustizia e nequizia”, irrinunciabile per non cedere all’addomesticamento, di cui Nietzsche si fece strenuo oppositore.

Quello di Gio Ferri è un linguaggio che muta incessantemente, reso duttilissimo strumento al fine di esprimere un contenuto non disgiungibile dalla forma. Lì dove c’è necessità di descrivere lanoia della redazione del verbale relativo al rinvenimento del cadavere, la scrittura rallenta il ritmo, lo fa incespicare, non scorre come non scorrono i minuti di quel repulsivo lavoro: “Lambrate pulvea e deserta alla strozza del curvone / mostruosa e maleodorante la catatonica al sole” e l’intersezione di un’aurea citazione dantesca è trattata come materiale linguistico perfettamente cesellato all’interno dell’economia del testo. La vicenda narrata è espediente per una rivisitazione delle forme poetiche della tradizione, ripercorse come dal flusso sanguigno di Gio Ferri. Vi è necessità di usare tutte le forme a disposizione, poiché ogni forma consente una espressività che non potrebbe essere esplicitata in nessun altro modo che in quella particolare forma, col che viene a cadere qualsiasi altra necessità di giustificare il ricorso alla tradizione. Le forme non possono essere superate, esse devono sempre costituire il bagaglio del poeta, nessuna esclusa, nessuna considerata fuori corso.

Allora il ritrovamento del biglietto con la poesia, il sogno in cui il personaggio descritto nella poesia ritrovata occorre al Commissario, gli infidi riconoscimenti del cadavere, con le prime illazioni sull’assassinato non sono che stazioni di un gioco da tavolo, in cui la poesia disegna corsi e ricorsi e in cui appaiono le dimensioni incommensurabili tra un’inchiesta condotta con passi logici e una poesia che mostra nelle sue fibre di voler addivenire al puro suono, riducendo la verità a mancanza di senso: “Parola senza parola / se duce poesia / in tutta poesia nient’altro”, ove ilriferimento è all’inesprimibile, compreso e disatteso al tempo stesso.

Né è lasciato inevaso il confronto tra la banalità del quotidiano e la tragicità di un evento o quella insita nel pensiero che lo sfondo poliziesco permette d’inscenare, né l’investigazione di alcuni situazioni culturali (una serata Patafisica) le quali con crudeltà massacrano “ogni senso sensato”, quasi in Gio Ferri sempre esista l’istinto a tastare col piede il terreno contiguo tra poesia e realtà, se mai esso esista:


Stare alla vita che ormai più non può essere vissuta.

E beatamente morirne. Oppure capirne l’innata

colpa dell’essere: nel suo divenire può darsi

ancora come l’ultima illusa (il)libertà?


Domande che appartengono ancora all’ambito filosofico, giacché questo è un poemetto che intreccia nel suo tessuto i due livelli dell’esistenziale e della riflessione su di esso. E dove la poesia, nella concretezza del suo tessuto, mostra la distanza e la specificità d’un pensiero proprio che non coincide con quello filosofico. In fondo, l’inesprimibile è al regno dell’arte che appartiene. E Gio Ferri lo pedina, lo insegue, quasi lo acciuffa. Dovunque questioni irrisolte. Eppure il poeta promette proseguimento: la poesia non è morta (come vorrebbe hgeliano dettato)…


Agosto 2014

Termino la lettura delle 4 cantiche dell’Assassinio del poeta. devo dire che ripensandoci - pur confermando le mie impressioni marzoline (i cenni a Dante e, Goethe, Gadda e il romanzo 6--700) – mi sembra di vedere nell’insieme più forte l’ombra della Francia (Apollinaire, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud). In particolare Mallarmé, l’amato “Un coup de des n’abolira jamais l’hazard”. Per non parlare della sua ossessione metafisica per l’azzurro (Katy dalle ali blu…? Anche se in filigrana potrebbero esserci pure “I fiori blu” di Cocteau, altrove spesso citato… Come non ricordare la scritta continuamente cancellata ‘Assassino’, di cui è colpevole lo stesso giudice che indaga… e il senso di disfacimento della storia che opprime il Duca d’Auge…).

Ma il palinsesto delle citazioni, criptiche o dichiarate, è troppo vasto per pretenderle di esaurirle, anche se sul ‘citazionismo’ forse tornerò.

Per adesso torniamo a Mallarmé e alla Francia. che la Francia sia il terreno d’elezione è evidente da tanta cose: dalla scelta di molti autori in filigrana, dallo sviluppo parigino, con l’incendio della città simbolo. Ai sottotitoli in francese dei 4 volumi. Sembra ci sia un dialogo fra l’Italia come terra della poesia d’amore (Dante, Petrarca, Ariosto) e la Francia simbolista. Meno chiaro il legame con la Germania….

Per quello che riguarda Mallarmé (e vorrei metterci Artaud) mi pare che sia veramente sua la cifra dell’esito globale del poema (fino ad ora…), La poesia muore! Forse la poesia è artaudianamente colpevole di cercare lo ‘stupro dell’eternità’, dell’azur.

Ma giustamente l’azzurro è ucciso dalla parola. L’azzurro, per citare un termine ricorrente nei primi canti, è dismisura:

II, v.30 – corpo solo senza scorno e misura e dismisura

IV, v.15 – vuoto sogno orrore e segno gli abissi e le dismisure

V, v.6 – in vita, o almeno in morte, la dismisura sorte

IX, vv. 45-46 – ridanno ora dismisure straniate nel rimordente / pudore rifiutato


E il tentativo non può che essere ‘masturbe’:


I, vv 56-57 – adiposa flatulenza, quando si sfugano masturbe quelle cronache

IX, v Ila masturba languidezza di quel verbo delittuoso.


cioè inane, e ‘accidentale’ rispetto alla ‘sostanza’, come ben testimonia la riduzione ‘aggettivale’ del verbo o sostantivo di tale attività onanistica, Tentativo inane e delittuoso.

La poesia non muore per lo spettacolo deludente dei poeti mediocri (Canto VII), ma muore perché l’abisso è parola muta, dismisura. La poesia muore continuamente nell’assurdo e nel silenzio, per rinascere come imperativo categorico della dismisura. Il colpo di dadi della parola, dell’esistenza, della quête, non può sopprimere la chiamata al rischio (hazard), che è anche la casualità crudele e istante del darsi della vita.

Ecco dunque la tentazione della via dell’eros, del femminile, del corpo, come parola della vita oltre la parola. Un femminile oscillante tra il meduseo, la carnalità flaccida e degradata, e petrarchesco eros liquido, terrenanente angelicato (dalle ali blu).

Ricorda un po’ Laborintus di Sanguineti, ma sostituendosi all’ironia epifanica del quotidiano un prevalere di rabbia e di sconforto.

Siamo troppo borghesi e cerebrali?

L’altalena dei sensi risorge continua nel poema, come inica liquida utopia, morte le altre. E a proposito della liquidità della rabbia mi permetto umilmente di autocitarmi, convinto che per vie diverse navighiamo lo stesso discorso:


deconsiste in pluriplanare affondamento dei piani

in particolare

acqua acqua acqua lentamente

l’uomo rinuncia si fa uomo acqua

scompare e riappare

multiplo

investe il cielo di vapori e spugna la terra

s’infiltra decentrato e ubiquo

scivola sulle formiche tocca le formiche

visita gli abissi cavi

semplice nell’aderenza di particole al molteplice

informe formamento carezzantesi in forma sulle forme

umidamente sguardo toccante

nel sonno della centralità”



acqua acqua dilava

l’opalescenza del tutto

nel colore di mezzo

nel pallido disimpegno della rabbia

affondo


Del resto al registro della liquidità e dell’eros appartengono alcuni dei versi a mio parere più belli:


XVIII, vv 25-30 - Così giungi al vasto mare e quella follia d’amare / s’immerge evanescente nella fluenza dell’onde / donde le maree lunari le carezze delle rive / energie tenere e schive a quel prossimo orizzonte / le desiose giovinezze le impronte delle pietre / erose in sabbie brillanti le luminescenze astanti… (dove l’onda diventa fonicamente ‘luogo’ sorgivo… donde)…


XXXI, vv 21-24 – di sé anfratto langue ciascuno anima entro le bocche / vascule papille salive e frenuli ghiacci brividuli oltre i pro- / pilei del labirinto – vasti i piaceri del rimordente viaggio se / tempestula un poco si rasserena e la bocca dolce accattiva 
(… vascule, frenuli, brividuli, tempestula… suffissi acquatici in climax, con suggestioni di tardo impero… ‘Vagula animula blandula… e uso pascoliano dell’a capo franto, qui in funzione di fluenza e polisemia… pro-pilei: ingresso al tempio e percorso dei piedi)


XXXI, v 55 – corsi vestiboli inesplorati angoli angeli luminosi démoni


XXXII, v 10-11 – del tramonto si trascina lento e labile l’ultimo sorso d’aspersione / e risucchia il labbro spento e docile il limite della vita…


XXXIII, vv. 43-46 – in sé sfiorare sfogliare sfogliarsi toccare i tocchi ansimate le si- / lenti resistenze volare le péluri curve cantare i battiti dei polsi na- / vigare le arteriose correnti inoltrarsi nelle foreste brilanti d’ombre / solatie i rivi dei volti le ritmiche voluttà delle vertebre le distese / purezze dei fianchi donarsi ai percorsi delle braccia toccare…
(qui si raggiunge il massimo della fluenza fusionale e tensuo immersiva… e vi noto anche un modo che in altra maniera anch’io proseguo… cioè lo sciogliersi per slittamenti semanteci a contatto: / distese purezze di fianchi… dei fianchi donarsi ai percorsi)


La vita ci chiama oltre l’arte borghese (l’incendio di Parigi… non può essere parente de .L’incendiario di Palazzeschi?), ma il protagonista sembra sempre ripiombare nelle diatribe dell’intelletto.


Insomma non trovo, nonostante l’ipercitazionismo, e i multipli registri linguistici, molta distanza dal mio navigare in acque post-simboliste e vitalistiche, con buona pace delle seduzioni avanguardistiche di superficie.

E poi mi chiedo… la continua provocazione del femminile – che sembra irridere il poeta-commissario-omicida-filosofo – non potrebbe ricordare le provocazioni non sensistiche di Isabella delle acque di Giancarlo Buzzi, e il suo richiamo ad ‘arrendersi alla terra?’ Una resa tuttavia che mai non tende definitivo né l’approdo, né il naufragio…?

IL poema infatti mi pare debba la sua interminabilità, oltre che a un postulato filosofico, a riproporsi apparentemente invalicabile d’un’altalena fissa, tra arte-cervello e corpo-vita, spirito e materia

Smateriata. Infatti si potrebbe anche parlare di un orror vacui barocco che traduca la metafisica mallarmeana in metafisica dell’eccesso, in un disperato tentativo di far corpo dell’umbratile Umbro, il nome assunto dal commissario quando… decide di andare in pensione…! Forse deluso dalla modestia dei risultati investigativi. Umbro: il barocco di luce e ombra?

In modo diverso, io e Ferri, cerchiamo di smettere di essere alchimisti del nulla ma anche di uccidere false immagini, verso un silenzio più pieno, dove intendere le parole mute (IX, 24… Baudelaire).

Comuque per quanto riguarda il polimorfismo stilistico (di cui ci sarebbero infinite disamine possibili, e che produce effetti splendidi e multipli, in densissima abilità retorica, direi che l’espressionismo gaddesco materico e spezzature avanguardistiche o parodistiche attengono al registro della moderna disperazione, mentre dove si epifanizzano speranza di slitta molto nello stilnovo e suoi precedenti e prolunghe (IX, v.16 – acque chiare – v.38 – acque chiare, e molti suffissi medievaleggianti in –anza… e molti altri passi e interi brani… troppi per citarli), e poi nell’ottava ariostesca (del resto Angelica fugge). Compaiono infine, a contatto, Montale e Leopardi (IX, vv 67-68) – fiacco nell’indifferenza / lenire quella mancanza della morta rimembranza).

L’indifferenza montaliana, la mancanza (lacaniana?). ls disperanza (Cavalcanti?) sembrano annullare il Leopardi positivo della rimembranza, per altro prima ben attestato in rima positiva con le petrarchesche acque chiare (IV, vv 36-38: a te che ami l’amicizia d’acque chiare / a te vorrei donare, se tua già non fosse / un quanto immensità di questo mare).

Per concludere direi che il citazionismo è un modo di chiamare tutta la comunità dell’arte a testimone, e di rigenerarsi forse (cime sembrerebbero alludere i molti microrifacimenti) nell’impossibilità di certificarne il decesso e le cause.

Infine che dire? Aspettiamo il seguito di questa… super-opera con curiosità e avidità, anche se forse l’unica mia perplessità, benché io sia il primo peccatore dell’ infinitum in fieri è l’apparente fissità dell’altalena di epifanie-speranze e naufragi, con le dovute pause intellettuali e teatrali (il pensiero sulla verità sembra relegato alla falsità-verità del teatro).

Credo che solo con la morte definitiva il giallo possa veramente concludersi, non concludendosi, mentre l’arte debba prima o poi accettare di chiudere, sia pure provvisoriamente il proprio non finito. Ma Ferri saprà cosa avrà in mente! Quali svolte e palingenesi.

Sicuramente ci sarebbe altro da dire, e certo molto meglio di quanto non abbia fatto io qui, ma spero comunque che questo mio sproloquio interpretativo non dispiaccia troppo all’autore… e al lettore.