Gio Ferri

Letterale”

Colloqui con gli autori




Al Prof.

Fabio Turato

PADOVA


Fabio Turato / “Eredi ingrati”, Marsilio venezia 2014


Lesa sul Lago Maggiore, 14 nov    embre 2014

Caro Fabio,

Eredi ingrati è un testo straordinario, per qualità formale e ricchezza storico-critica.

Sono felice che raccolga gli elogi che meriti. Sei un maestro.

La tragedia greca, dalle origini al nazismo è una storia tanto drammatica quanto affascinante. E, direi, sovente attuale. Quante cose ho imparato…! Da Eschilo a Nietzche, ai tormenti umani, critici e teatrali della seconda guerra mondiale…. ai tanti altri personaggi e vicende (che la mia ignoranza scopre per la prima volta). Tragedie, tradimenti che abbiamo noi stessi vissuto, consciamente e no, dalla nostra nascita… con i loro discutibili e discussi «scioglimenti dialettici». Tragedia come catarsi o come terrore della fine dell’Europa? Proprio in questi giorni i fatti non fanno che alimentare i nostri dubbi… quasi peggio dei tempi del temuto (e fortunatamente evitato) terrore atomico: la fine di una civiltà può interessare solamente gli archeologi! Tutti gli altri non si pongono problemi!

Mi colpisce l’analisi, che sintetizzo, di Lescky sul “problema del tragico”: «Quando ci sentiamo colpiti nella sfera più intima del nostro ‘io’ solo allora sentiamo il tragico… ». E ci vogliono ben i due bestiali massacri delle due guerre del xx secolo… Oggi perdiamo il senso di una tragedia risolvendola in motivazioni quasi puramente economiche (quando i miliardi si sprecano… si rubano). Qualche ottimismo ci viene comunque dalle tue analisi conclusive e dall’idea di Benjamin che si appella al «concetto della dura storica datità della tragedia greca». Della dura realtà di un presente che continua ahinoi da secoli.

Ma nel bel mezzo di tutta questa straordiaria storia che ci rcconti con tanto documentato acume sulle secolari scelte critiche e registiche, attuali e attualissime (in Italia le cose tuttavia non vanno poi troppo bene – e quasi solamente la tua acribia critico-storica ci conforta), c’è tutta una ‘finta’ concordia… «Quando ci sentiamo colpiti nelle sfere più intime del nostro ‘io’, allora sentiamo il tragico…Proprio ora che, dopo l’esperienza di due guerre mondiali, ci chiediamo con angoscia se sarà probabile evitare l’annientamento di ogni essere vivente su questa terra…». A proposito del mitocentrismo di Heidegger, De Beistegni sottolinea che il mito è essenziale se è tenuto al suo radicale angoscioso cominciamento:«Soltanto un dio può salvarci. La nuova umanità può sorgere soltanto con un relazione con il divino e ciò può darsi solamente se il popolo venga messo in relazione con la parola fondativa del poeta….». Ma, ricorda, che con Heidegger il mito così concepito non poteva che portare alla orribile tragedia del nazismo.

Ma forse tutto ciò è orribilmente banale in quanto, malgrado tutto, ancor si dà, nel XX secolo, una lunga vicenda interpretativa, rappresentativa e teatralmente registica che esalta il mito tragico (quando raramente lo fa) coinvolgendoci in una tragedia senza riscatto.

Si potrà sperare in una Terza Cultura ? Vedi J.Brockman, che cerca di andare oltre la stessa rivoluzione scientifica liberata dalla ossessione mitica (ed.Garzanti, Milano 1995)? La scienza sostituirà con la sua rinnovazione icastica la favola del miti? Oltre i confini dell’Europa, del mondo, dell’universo? Cito ancora Brokman (e mi permetto di riprendere un certo dscorso che ho sviluppato in La ragione poetica. Scrittura e nuove scienze e ancora il lungo saggio pubblicato in TESTUALE 47-48 ). C’è del para-misticismo forse (partendo dal Nulla ), ma forse c’ è anche in te, quel tutto sovrumano, quel Nulla dal quale nasce e finisce la tragedia, come origine dell’Europa.

Ma la vicenda teatrale così articolata che descrivi, a partire in particolare dal 1968, anno di grandi svolte, non manca di una scenografica e interpretativa religiosità.

Ma non mi è possibile in una breve lettera entrare nel labirinto di quegli eventi di pensiero e di prassi. Mi perdonerai le approssimazioni! Perciò mi appoggio alla citazione di Russell. Nel primo dei Saggi Scettici pubblicati nel 1928, quello programmaticamente intitolato Sul valore dello scetticismo , egli ricorda di aver assistito, nel 1919, a una rappresentazione delle Troiane di Euripide nel londinese Old Vic « Arrivati all’irresistibile scena patetica in cui Astianatte è condannato a morte dai Greci che temevano diventasse un secondo Ettore, in tutto il teatro non c’era un solo ciglio asciutto, e il pubblico trova quasi incredibile la crudeltà mostrata dai Greci nel dramma». Il fatto lo induce ad una disincantata considerazione che coglie, con assoluta precisione psicologica, le reazioni del pubblico di tanto teatro tragico, da Euripide ai nostri giorni e soprattutto, oggi, di quello cinematografico o televisivo: «Eppure quelle stesse persone che li piangevano in quello stesso momento stavano praticando quella stessa crudeltà in una proporzione che l’immaginazione di Euripide non avrebbe mai saputo concepire»… Su questo è lecito qualche dubbio (come osservi in conclusione).

Per noi europei in crisi si rivela in questi simili eventi teatrali (oggi comunque assai rari!): la fine di un mondo? Ma forse anche questo è solo un mistero , privo di concrete probazioni.

Per interpretare il tuo testo non basterebbero altre 532 pagine, o forse assai di più. Non mi rimane (felice perpetua occasione) che leggere e rileggere tra le pause delle righe, e delle parole: una silente partecipazione al dono che ci fai: … la Bibbia sul mito delle classicità e il mistero (mistico, per l’appunto) di una civiltà che ci segna ancora, ma purtroppo, credo, va esaurendosi…. Matematica, fisica, ecc. stanno prendendo il sopravvento.




A

Massimo Scrignoli

Regesto”

Via Ca’ Pompa 4/a

44030 Ro Ferrarese (Fe)



Massimo Scrignoli, “Regesto 1979-2009”, Book Editore, Ro Ferrarese (FE)


Lesa sul Lago Maggiore, 20 ottobre 2014


Caro Massimo,

è difficile sintetizzare le infinite meditazioni sollecitate dall’ampia (pluridecennale) antologia che si sviluppa a partire dal 1979. Attente analisi per periodi, capitoli, testi appaiono quasi impossibili: certo il lettore attento e affezionato (in questo caso il sottoscritto) può vivere, con la dovuta incisiva calma (la poesia va centellinata) una ventura poetica di tanto ampio respiro. Grazie comunque intanto del dono prezioso. Può valere l’esergo da Celan: «È tempo che sia tempo».

Utile, anzi necessaria, vale l’attenzione a quanto hanno scritto Pampaloni, Raboni, Spagnoletti. Ramat e Guarracino. E il caro indimenticabile comune amico Roberto Sanesi. Ciò dico per fare qualche altro nome altrettanto prestigioso. E ci sono poi le raffinate traduzioni (Antologia palatina, De Nerval, Valèry, Apollinaire, Aragon, Gautier, Radiguet, Char, Eliot, Pound, Kafka… che richiederebbero uno studio a parte).

C’è quel finale tratto da Celan a pagina 308 che dà ragione della tua poesia silente e intimissima: (Io ti conosco, tu sei la profondamente inchinata, / io, l’attraversato, sono il tuo suddito. / Dov’è la fiamma in una parola, che testimoniò per noi due? / Tu, tu,tutta reale. Io – tutto illusione). Una nostalgia d’amore per l’altro, o per l’altra, ma in verità il senso totalizzante al quale poeticamente ti rivolgi. La poesia – di contro alla vita reale – è la grande illusione . Per te per i tuoi lettori.

Posso dire di un misticismo (come mistero inesprimibile)?: il titolo di un capitolo mi fornisce conferma: “Del sublime”, Tutto ciò che è terribile, o riguarda oggetti terribili, tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo è una fonte di sublime ( E.Burke ). La grande illusione è infine il rischio della poesia. Poesia che sempre si affaccia per sua natura sull’abisso: Tutto quello che resta è poco, / è un’impronta antica ma ancora calda / sopra l’erba di radici /: forse / un pensiero di Dio, un largo istante / fatale a chi ritorna qui // dove noi // non possiamo rimanere…

Bene dice Alberto Bertoni in merito alla tua poesia che grazie a questa antologia si fa fantasia quasi biblica: «Alla polarità opposta della tensione creaturale si situa la poesia sapiente e sapienziale di Massimo Scrignoli, che… raggiunge un suo sicuro apice con il “racconto in versi” Vista sull’Angelo: E tuttavia / per uscire dal mondo / dovremo intuire // decifrare // tradurre / l’angolo minimo di tempo dove // il pane è una luce verticale… // Si passerà da una porta assente… Viaggio dantesco?

Ma la narrazione in realtà (mistica…appunto) si svolge sotto il segno muto misterioso delle parole, là dove si scopre la verità indicibile. Del sublime silente.

D.R.Hofstadter e D.C.Dennett (Adelphi Ed., “L’Io della mente”. Milano 1981) iniziano una loro ricerca con una domanda in sé forse ovvia, chiedendosi: «Che cos’è la mente? Chi sono io? Può la mera materia pensare o sentire?». Tu principi con alcuni versi in proposito significativi:… Non volermene: credo che alla fine interesserà soltanto me / - o la paresi della mia memoria … Poesia, ancora, come mistero della solitudine…

Comunque, ripeto è impossibile qui penetrare esaurientemente nel labirinto dei tuoi versi, delle tue considerazioni, dei tuoi segreti sentimenti: 330 pagine e più?! La storia di una gran parte della tua vita (e della vita del lettore). Cercherò in breve di cogliere il senso di queste domande a partire proprio da quelle perplessità che in verità tormentano sempre tutti noi e il poeta in particolare.

Nel 1979 scrivi, per l’appunto: … Peggio ancora toccherà all’ipocondria / della fantasia sottopelle, (sai, / come fosse un dispetto sessuale) / che è pur sempre una dichiarazione d’amore.

Verso la fine (2000) in La casa in parte parzialmente concludi: …

tutto questo ha valore solamente se accade / là dove la parola non si spegne. Enigma / nell’enigma, luce sfogliata tra un’eco d’ombra / e il fiato di una parte di vita dimenticata.

È nell’ipocondria (stasi del pensiero prammatico, paresi della mia memoria ) che tutto ciò si rivela. E la stessa dimenticanza produce il suo senso (infinito). Una dichiarazione d’amore alla propria anima. Così si risolve la perplessità dei due studiosi che ho citato: la parola come amore. Il Nulla come verità. La verità non è dichiarabile, ma solo intuibile. E i tuoi versi liberi, piani, talvolta dolcissimi segnano quella parola che malgrado tutto non può spegnersi. Anche se infine è illusoria,

La lettura di questa tuo Regesto arricchisce i sogni come realtà e la letura si fa facile nella sua vitale complessità. Scrivi ciò che in realtà sentiamo, anche segretamente, entro la nostra viva nullità (paradosso, vita come paradosso) dell’essere.

Questa è infine una amichevole chiacchierata tra noi due, perché ciò che dico è assolutamente ovvio alla tua presenza umana e poetica: ma lo scrivo perché, se sei d’accordo, vorrei pubblicare il breve testo in “Testuale 54” in lavorazione, Prendi il tutto come un modo comunicativo per la conoscenza, e lo stimolo, del lettore.




Egr.Prof.

Paolo Ferrari

O barra O Edizioni

Via Stromboli 18

20144 MILANO


Paolo Ferrari, “ I colpi del Nulla/ Poesie dell’inconoscibile ” (ObarraO, ed, Milano 2014)


Lesa sul Lago Maggiore, 19 novembre 2014

Caro Prof. Ferrari,

grazie del suo volume antologico che sto sfogliando, soffermandomi sovente, con grande piacere per le sue forme e in particolare per le sue poetiche-filosofiche umanissime significazioni. Impossibile sintetizzare anche solo criticamente le 767 pagine che compongono il volume. Un elogio particolare va offerto al comune amico Flavio Ermini che nell’introduzione ci apre le porte critiche e storiche e sentimentali, oltre che formali, di quest’opera che ci rivela la vicenda fascinosa di una vita. Della vita di un poeta.

[ Mi permetta, con tutta modestia, un inciso che testimonia i motivi vivissimi che mi coinvolgono: dei Colpi del Nulla seppure in altra maniera formale e significante, con altro titolo, può trovare prova concreta nei miei saggi La ragione poetica (Mursia, Milano 1994) e – oltre ad altri scritti distribuiti in varie antologie e riviste e relazioni in convegni – nel numero 47-48 della rivista “Testuale” – analisi riprodotta integralmente anche in internet al sito  www.testualecritica.it ].

Questo volume imponente e raffinato (poeticamente e editorialmente) inizia la sua parziale storia letteraria nel 1989 e termina nel 2014. Lei percorre straordinariamente tutte le vie che (anche con l’attività inarrestabile della sua Fondazione culturale) si sono incrociate durante la ricerca del Secondo Novecento, non trascurando nemmeno l’esperieza della visual poetry. Non mi basterebbero altre 767 pagine, e oltre, per muovermi – smarrendomi – in questo labirinto. Valgono forse con… oscura-chiarezza i suoi esergo che cita Ermini: “ dico(il)niente ” e “ La poesia / nel muovere ora lieve / ora rapido / il passo del suo dire” . Presenza e assenza, commenta l’amico Flavio.

Tuttavia devo pur percorrere per minimi esemplari la via che lei ci indica (via, che ripeto, mi è assolutamente congeniale): ciò in quanto, se non ha nulla in contrario, voglio segnalare opportunamente seppur brevemente questa ventura ai lettori di “Testuale 54” in lavorazione. Penso che rivolgendosi alla sua Fondazione chiunque incuriosito e affascinato vorrà, potrà acquistare il volume. Rivolgendosi alla carissima intelligentissima assistente Anna Lafranconi (cell.3407168998). Colgo io stesso l’occasione per ringraziarla e affettuosamente salutarla. Mi scuso per il ritardo con il quale entro in argomento, ma purtroppo negli ultimi sei mesi sono stato colpito da disturbi fisici che mi hanno vietato di lavorare, persino di camminare e di leggere con l’attenzione che l’opera richiedeva. Ora va un po’ meglio e mi sforzo di esprimere qualcosa di sensato!

Mi permetto una facile astuzia (ma mi è difficile trascurare qui tutto quanto avviene nel frattempo: ogni testo andrebbe esaminato, anzi vissuto con la dovuta, per ora a me impossibile, se non per letture sparse, acribia formale e sostanziale): cito la prima poesia e l’ultima (sebbene infine una attenzione importante dovrebbe essere offerta anche alle traduzioni). Scusi la mia generale trascuratezza critica, da riferirsi per ora solo a questa breve lettera – di segnalazione, ripeto, per i lettori della nostra rivista.

Mi riferisco innanzitutto a UNIVERSALI / Evoluzione 1:

I corpi nessuno escluso,

emettono un fischio acutissimo

oscuro all’orecchio

è il gemito sommesso e perenne

di uomini e cose


Quel sibilo terrifico

è ammansito

da ogni fonte

di luce.

La morte della follia vive nella luce, la luce della poesia (e dell’arte): posso dire che il mistero di questa illuminazione preannuncia una disposizione mistica? Ma quanto misticismo c’è sempre nel silenzio della parola poetica! Il fischio acutissimo è oscuro all’orecchio… La vita, la materia, nel loro farsi e disfarsi sono oscure persino alla coscienza. Parola poetica come coinvolgimento silente. Che dire senza dire e senza ascoltare? Ma il problema non si pone per il poeta che dice (il)niente … Ma c’è la fonte di luce che anch’essa non visibile apre il senso dell’essere. C’è sempre, è un vizio, chi cerca il senso di una poesia . Il significato! Non c’è senso se non nel segno della parola, scritta o detta che sia. Invisibile e inudibile… Ma presente nella luce.

Una delle ultime poesie (a pag.728), Il far poesia riconferma il “Il colpo del Nulla”, anche dopo, durante la visione scientifico-psicanalitica ampiamente sviluppata in vari testi:

Poesia - Ποіησιç

Tutti i raggi di luce

che dall’infinito distacco

del niente lontano

convergono nel cerchio

del sole suadente

e qui si ritrovano a far festa

nell’apparire al nuovo senso

d’un ritmo speciale

pronto a tessere l’intreccio

dei versi

in direzione d’un nulla

centrale, vuoto del

tempo, in mancanza

di spazio, a sostentamento

d’un esistere umano

oltre le tracce da loro

stessi segnate.

Il nuovo senso , un ritmo speciale , l’intreccio dei versi , le tracce , la mancanza … Si raggrumano unitariamente, il Tutto del Nulla, dando prova di quella dismisura che si esprime nell’unico senso possibile: il non senso della parola e dei suoi silenti spazi .

Ma, ripeto, molte altre visioni (mistiche!?) vanno dette, ascoltate, invasive di una coscienza senza limiti e senza risposte. Se non in sé.



A

Luigi Cannillo

Milano


Luigi Cannillo, “Galleria del vento (poesie)”, ed.La vita felice, Milano 2014


Lesa sul Lago Maggiore, 20 agosto 2014

Caro Luigi,

bene conclude la sua prefazione Sebastiano Aglieco quando ribadisce il titolo di questa tua delicatissima eppur coinvolgente raccolta di poesie sorte dal dolore, sommesso, tuttavia totalizzante (vorrei dire universale ), della perdita della madre .

Aglieco ricorda che entro la galleria del vento , la galleria del nulla, che ci ostacola e insieme ci spinge oltre, siamo sempre «esposti alla dispersione, ma anche alle possibilità della vita sotto i colpi di “un capitano [che] naviga il destino”». Così la navigazione non è senza meta in balìa del vento, la nave sopporta la tempesta perché domina il dolore abbandonandosi ad un viaggio, tangibile, della memoria, nel vuoto vivo paradossalmente vivo nella mancanza. Le cose, quelle cose , pur ora nascoste, non se ne vanno con la madre:

qui ogni parete aspetta / di aprirsi al ritorno. / Adesso intanto si difende rapida / confina un territorio, lo nasconde / e vedova [la casa] si chiude nel dolore…

Dobbiamo andare, vieni, / ci ha fatto strada e stende / una notte senza mattino / / Così il tempo che ci seguiva innocuo / accelera e sorpassa verso il vuoto…

Dobbiamo affidarci a quel nocchiero che ci conduce nell’assenza, che ci offre tuttavia le possibilità della vita che continua nell’universo perpetuo, comunque, per noi ancora con la madre. Tutto ancora ci aspetta nel nome della madre che ci ha generati perché generassimo, riconoscendo un senso, il senso , il senso vero, là dove

dobbiamo scrutare il traguardo / il cuore rovesciato del futuro

Al capitolo Il rovescio del corpo , nel viaggio guidato dal destino, prendi coscienza del mistero che

apre un quadrato nel tempo / per la nostra impresa / amore caduto su un pianeta ignoto…

Nello stesso capitolo insisti sulla inspiegabile eppur reale metamorfosi:

La trama del corpo si mostra / al rovescio e l’unica maglia / intreccia il reciproco assedio: / il mio desiderio verso le tue mura / il tuo esserci al mio desiderare… // … E ancora il laccio si ritorce in cappio: / spinge spietato verso la tua assenza / e mozza il fiato all’appuntamento .

È, nella galleria del vento, in cui si contrappongono il dolore e, tuttavia, nel dolore la certezza dell’appagato reciproco desiderio, che si manifestano sorprendentemente le (irr)agioni di quel nulla in cui si rivelano le opposizioni fra il possesso e la perdita, là dove la vita si offre per amore alla morte.

Il tuo canto poetico (che pare in sé tragico) ha la composta saggezza della verità, della inequivocabile coscienza: il pacato riconoscimento della universalità mai eccepibile del dolore, della perdita, per giungere a quella scomparsa che segna in realtà, per la memoria viva, il ritrovamento delle motivazioni di sé – perché rimane pur sempre una traccia:

E nonostante giri a sfinimento / la casa è scomparsa dietro ai muri / Unica traccia del commiato / la scia della bicicletta sull’asfalto

E una traccia indica pur sempre una direzione, a manca o a dritta, verso comunque quel futuro che viene dal passato, dalle sue memorie vive. Perché le memorie incarnate in noi sono vive, per la nostra ricerca l’unica certezza.

Il capitolo dei dodici segni zodiacali indica, secondo la valenza della coscienza e della conoscenza rivelata dalla verità, l’unica certezza di cui s’è detto, il senso universale (cosmico, oltre il dolore individuale), dell’essere oltre l’esilio del vivere e del soffrire la perdita:

Nel nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio / noi stessi madre tramandata / nella consolazione, la marea / che sutura e riapre la ferita…

La pacata offerta dei tuoi versi dalla prosodia così contenuta, e così di contro totalizzante dona una parvenza (coinvolgente) di universalità – talvolta quasi mistica – dalla quale, senza protervia, senza retorica emerge quel senso nascosto, ma ben esistente, che andavamo cercando. Quando la presenza pareva essere scomparsa, quando, invece, pur uscendo dalla casa ci indica la traccia, rivelandoci una povera, modesta, scia di bicicletta: l’indice di un destino sempre presente che non ha bisogno di spiegazioni o raccomandazioni, perché è in noi. Figli di una maternità che anche oltre i muri non ha fine… di figlio in figlio. Di memoria in memoria – oltre la stessa possibilità di verificare in ogni momento il dato memoriale. Appare possibile che il linguaggio, per il senso e per il segno, si generi e si trasmetta biologicamente per via materna – per via femminile.

Così la madre è in noi:

… la parola madre che flagella / i tendaggi, affila tutti gli aghi…

Il valore della memoria, come manifestazione biologico-sentimentale, ancorché in effetti inconscia, risponde al senso della maternità universale origine e quotidianità e continuità del mondo. Gerald M.Edelman in “Il presente ricordato” (tr.it.Rizzoli, Milano 1991) nota, anticipando ovviamente molte altre considerazioni scientifiche: «Ho suggertito… che la memoria sia il potenziale specifico di una capacità di categorizzazione già stabilita…». Noi ricordiamo nostra madre per le tracce che ci ha lasciato, ma in reatà quelle tracce sono incarnate in noi dai tempi della prima maternità. Prima del Prima . Nella Galleria del vento , il vento ci trascina, o ci ferma, su quelle tracce che valgono per tutti e non solo per la quotidianità di ciascuno.

Questo è il senso che, umilmente, traggo dalla tua notevole prova poetica: là dove la poesia va oltre ogni (ir)ragionevole sentimentalismo.





A

Flavio Ermini

e agli Amici di Anterem



 Lesa sul Lago Maggiore, 24 maggio 2014

Caro Flavio,

il n.88 (maggio-giugno 2014) della vostra prestigiosa rivista, che sto sfogliando con grande interesse, è forse uno dei numeri, quanto meno a mio avviso, fra i più stimolanti. Il titolo Per crescita di buio dai versi di Ungaretti, mi riporta – forse mi sbaglio? - a certe mie elucubrazioni sul Nulla (il buio) della storia finalistica, della utilitaristica quotidianità , dal quale nasce per accesa contraddizione, l’illuminazione della primigenia (sempre primigenia ad ogni prova di scrittura) Parola poetica. Un altro esergo, quello del tuo editoriale ripreso da Musil, è quanto mai pertinente: «Si potrebbe dire che abbiamo due destini: uno mobile e senza importanza, che si compie, e un altro immobile e importante , che non si conosce mai».

In realtà i due destini (uno mortale, l’altro vitale) convivono come notava Roberto Sanesi in Interno a Petworth (prima pubblicazione in “Testuale” n.8/1988). Sanesi commentava un’opera di Turner (1835/1837) dal medesimo titolo: una caverna, esattamente una cripta, quasi indistintamente oscura che si apre verso l’esterno in una abbagliante esplosione di luce. «Ciò che conta in questo teatro è l’ambigua collocazione della soglia, la non definitiva indicazione del suo centro. E tutta l’opera è il suo centro, irrequieto, pulsante». Si rivela, nella convivenza, la preziosa ‘irrequieta’ ambiguità della poesia. Quando ambigere s’intenda il dire dialettico e inconoscibile nel condursi intorno alla dismisura di un evento primigenio, qual è la nascita della parola tanto totalizzante quanto, all’opposto, più muta invece di verità nell’ambito menzognero di ogni nonsenso prammatico.

A parziale sintetica soluzione rispetto alle vecchie diatribe su verità, poesia, filosofia, pensiero, ecc., alle quali abbiamo partecipato insieme noi e altri, trovo in linea teorica ‘soddisfacente’ (per quanto il campo della inconoscenza anche musiliana ce lo permetta), la tua condivisibile affermazione secondo cui è «ambizione di “Anterem” di corrispondere all’essenza della verità – nel suo occultarsi come nel suo manifestarsi – ponendo il testo poetico nelle condizioni di aprire la parola all’essere e di renderla ad esso disponibile». Perciò questo numero della rivista, tu ci avverti, «presenta poesie e saggi che non percorrono i consueti cammini del pensiero, non si accontentano di quanto a noi si mostra, vogliono andare oltre l’apparire: verso l’ arché , verso l’oscuro fondamento originario di quanto vive e respira nella luce. L’ arché è l’oscurità della notte da cui sorge il sole e in cui il sole si spegne…». Ma la luce, nel nostro tempo, è fievole e tu profetizzi che «in questa malinconia umbratile e lacerante, dopo il crollo di ogni certezza, il dire poetico si fa carico del problema dell' immobile e importante ”… dal punto di vista di una finitudine radicale, che si configura come un vero e proprio tramontare verso una notte che appare interminabile». La poesia si fa carico di questo compito e si manifesta propriamente in quella coesistenza ombra-luce che favorisce una in-spiegabile, in-dicibile dialettica. Tormentosa e tuttavia prolifica .

A questo punto, affrontando gran parte dei testi qui pubblicati si osserva che gli oggetti di parola e di senso, offerti da alcuni autori, per la verità superano ogni abbuiato pessimismo. Per l’appunto non del tutto abbuiato poiché l’epifania (un’ intima certezza) infine si palesa quando il poeta «tiene gli occhi bene aperti e non si affida ad un mascheramento per occultare il vuoto». Quel pessimismo che, per tornare alla seppur discutibile distinzione, riguarda in effetti la Storia immobile e senza importanza, destinata per sua accidentale natura sempre a tramontare. Tuttavia non può riguardare la verità inconoscibile ma resistente di cui tu stesso dici, con progettuale volontà creativa, rivolgendoti alla parola primigenia che promuovi a verità, proprio nell’incipit di questa tua prefazione. Si potrebbe scadere in una facile battuta: l’inconoscibile, in quanto inconoscibile, non può mai estinguersi! E la notte, il buio, il nulla silente, sono infine essi stessi il terreno oscuramente fecondo di quella verità non opportunistica, che è aperta non tanto alla dimostrazione (anche filosofica?) bensì all’ essere. Ciò a cui aspiri, ciò a cui aspiriamo.

Per inciso quelle fascinose buie illustrazioni di Giulia Napoleone sparse fra i testi, nel silenzio esaltate da stellari minimi inizi sono, anche per questo numero, di grande opportunità.

Poiché vorrei proporre questa missiva nella rubrica “Letterale” ai lettori di “Testuale”, dovrei con acribia, oltre che abbondantemente citandoti, segnalare e commentare – ma ciascuno capirà, riconfermato quanto sopra s’è detto seppure in sintesi: non c’è bisogno di commento per alcuni testi di esplicita veritiera presenza nella loro stessa materia formale significante e di senso.



Danielle Colombert da “Dire” ci propone:

l’unica cosa – ricominciare ancora – se possibile – ancora una volta parole l’equivalente di una morte – l’esatto contrario – o forse niente…

 La prima nascita ogni volta che la parola vagisce, stentata, indefinita, pausata dai trattini, segni di spazi ancora ombrosi, perciò dubbiosa fra l’essere e il non-essere…



È Giorgio Bonacini  a parlarci de “La natura incerta del suono”:

Ascolto uno spazio di armonici / chiusi – il rumore in un angolo / fermo, l’impianto che blocca / e circonda il momento in cui l’onda / si sposta, in attesa di un cenno…[…]… Ero un semplice concetto non / amorfo, un nodo a vortice infilato / a mio piacere tra le pieghe / di un mutismo spinto al limite / da un rombo controverso ma fidato…

Si introduce anche la rima ( circonda l’onda ) nel tentativo di dar voce formale, anche cantabile, al vagito. La parola, il suono della parola cercano l’uscita dalla caverna.



Adriano Marchetti, scrivendo del poeta Philippe Jaccottet, nota come nella sua poesia ci sia

… una preminenza della voce nella scrittura, di una voce più simile al mormorio che cerca di dipanarsi in delicati oscillamenti attraverso le apparenze e fragili equilibri, tra scoramenti e fuggevoli bagliori…



Rosa Pierno, continuando la sua oscillante individuazione del ‘momento’ amoroso (misura temporale), impercettibile tra “Simile e Dissimile” rileva che:

… Attrazione significa qualcosa, ma non è che è o non è legame. Confessa non è all’amante che stavi pensando, nessun gioco di parole ti può distrarre, mai esci da questo binario circolare. Sei già preda di una oscillante sfera. A nulla serve dichiarare e spergiurare: l’altro farà le pulci a ogni tua frase e crederà di trarne la disadorna verità finale…

… A riordinare le accadute cose si amplifica l’importanza degli accadimenti e della relazione che li lega. Si può credere, in simili frangenti, che d’amore si muoia, che l’adorazione conosciuta sia l’unica e assoluta. Eppure, non è destino o legge della specie, quella che attagli visceri e budella. Similmente si può metter su un altro castello in cui ragioni contrarie spazzino mari e affondino galee. Poi quello che resta è ciò che si è voluto: d’andar per mari sempre mi è piaciuto.

Tra la menzogna del comunicare e la verità dellacomunione koinonía ) si apre un abisso che solamente una verità poetica, con i suoi occulti misteri (misticismo della parola in-significante –nel senso di Giuliano Gramigna), può colmare… Solamente ciò che si è voluto apre alla verità inconoscibile e aurorale. Resta un … resto… È il piacere oltre la vanità dell’amore profano, il piacere d’andare, di sperdersi, di navigare al di là di quell’orizzonte mobile che mai è raggiungibile.



Madison Morrison. La nota, avete fatto bene a ricordarlo perché in Italia pochi lo conoscono, ci dice che è (era, poiché nel giugno del 2013 è deceduto in un incidente stradale) poeta, narratore e saggista. Autore di un poema epico in 26 volumi, “Sentence of the Gods”. Accademico di Yale e di Harvard, in cui si è laureato, ha dedicato la sua vita a percorrere il mondo tenendo centinaia di conferenze come visiting professor, dagli Usa al Giappone, dall’Inghilterra alla Francia, all’Italia, ecc., alla Cambogia, alla Thailandia dove viveva e dove è morto. Studioso delle tradizioni orientali, indiane, cinesi, greche, nordafricane, inglesi, americane… In “Anterem” 88 riportate un estratto, lo dico per i lettori che leggeranno questa lettera, da “Ognuno”, Capitolo 9. Una narrazione interiore di cui l’autore misura con la mente l’immagine evanescente dell’attimo, vivo di eventi minimi e di indichiarabili considerazioni senza risposta:

… Be’, cosa stavamo facendo ? … Ovviamente il tempo, così come lo spazio, coinvolge se stesso nel motivo e nella follia di ogni scena, luminosa e oscura, qui e là, l’intero che ha trasformato, attraverso la mente del lettore, la mente di Dio, per penetrare il mondo visibile, temporale, causale giungendo a… cosa? La risposta devo lasciarla a te, caro lettore – con tutto il suo mistero teologico-metafisico-ontologico, come anche l’annoso problema dell’episteme. Post-rivoluzionario, naturalmente. Post-filosofico, anche . Post-analogico, post-allegorico, post…



Caro Flavio, infinite altre cose ci sarebbero da dire, molti altri passi poetici o poeticamente prosastici da recepire con interessato coinvolgimento, molti altri autori… Ma per ragioni di spazio mi devo fermare a questi (solo quantitativamente) minimi esempi, che, quando vorremo, noi e il lettore, potremo far prolificare nei meandri della mente, nelle pulsioni biologiche del corpo.











A

Flavio Ermini

Verona



Flavio Ermini , “Essere il nemico”, Mimesis ed., Milano 2013



Milano, 28 ottobre 2014

Caro Flavio,

grazie del tuo Essere il nemico-Discorso sulla via estetica alla liberazione : sto leggendo trascinato dalla tua appassionata facondia! Come non essere d’accordo con te? Non per autocitarmi scioccamente, tuttavia penso che la mia risposta, tu e i lettori, possiate trovarla in quel n.47-48 di “Testuale” che contiene il mio saggio Vita Storia Poesia Nichilismo, documentato da testi per certi versi ben particolari rispetto all’ingannevole, se non idiota, senso comune che riempie letteratura e politica, in quest’epoca in cui la Storia (quella banalmente esaltata con la S maiuscola) è prigioniera della violenza della Tecnica (Vedano i lettori il sito www.testualecritica.it).

Quello che dici sul rapporto oppressivo fra tecnica e capitalismo, figli dell’anarchia del pensiero effettivamente non può che favorire la solitudine, anche quando – anzi per questo – debba costringerci alla disobbedienza. Certo il soliloquio dell’anima può rimanere l’unica salvezza, sempreché l’anima sia viva – ma non sempre lo è – e riprenda la sua seppur laica giustificazione. Proprio perché l’anima è in generale, e pur dentro di noi, debole rispetto alle lusinghe forti, violente della Tecnica, vale l’invito, antico in filosofia e in etica, a conoscere anzitutto se stessi. Cogliendo quei valori di verità primigenia (“il primo mattino del mondo” recita il titolo di un film francese famoso) che ci riscattano con la distanza, metamorfica, dalle cose… profane. Citi opportunamente Marcuse (il cui pensiero l’attualità prevaricatrice s’impegna a sminuire se non a cancellare come vano utopismo sessantottino), che chiama alla «rivolta dell’istinto di vita contro l’istinto di morte socialmente organizzato». Implori quindi un ribellismo, a partire dalla parola, e dai suoi significati originari riconquistati, contro l’organizzazione linguistica (e altro) strumentale dello Stato – direi quindi contro lo stato delle cose.

Ma la parola dove può cogliere il suo riscatto se non nella estetica, nella poesia antiutilitaristica? Certo in una rivoluzione che, come dici, si 
muova dall’origine all’oltrafuturo, là dove si possa concepire prima di una rivoluzione un processo di liberazione (ognuno per ciascuno di noi) quale sentimento che perciò precondizioni l’uomo e la donna alla libertà, alla solidarietà fra gli esseri umani. E ti riferisci a Heidegger quando insisti sui valori e disvalori del rapporto verbale: il rapporto verbale con l’essenza del mondo si forma già nel linguaggio della comunicazione. Ma si amplifica nella parola poetica. Infatti cosa più della poesia è l’ esposto dell’essere? Tu che scrivi hai il dovere di arrischiare il linguaggio per ottenere la misura dell’abitare poetico. Ma bada bene: questo non dev’essere solo un programma, ma nche una prassi. E ricorri appunto a Heidegger: «In tale mutamento si nsconde un esule espatrio del modus fondamentale delle ore e delle stagioni rimasto in vigore fino ai nostri giorni».

E citi anche Novalis: «finirà il regno della prosa… poesia sia il carattere del reale che verrà… consumatasi l’era interminabile della prosa». E ti riferisci a Sartre quando fornisce la regola della novella, «Ho scelto per avvenire un passato di uomo illustre e ho tentato di vivere alla rovescia» ! Permettimi di insistere su una mia tesi neuroscientifica e poetica insieme: la verità primordiale e nel nostro rettiliano (sede degli istinti primigeni), passa al limbo, spazio della memoria e delle esperienze recenti, e di lì – evidenziate le ragioni occulte del nostro essere viventi – siamo pronti ad opporci alle ragioni impositive della corteccia. E’ nella nell’andare alla rovescia partendo dalla corteccia soverchiante che può darsi finalmente una estetica della liberazione. La logica, lo affermi anche tu, sebbene possa essere un utile strumento, non promuove mai la verità. Solo l’immaginazione (misteriosa sovente) può liberarci dalla prigionia in cui siamo costretti. Liberati dalla emarginazione potremmo finalmente cogliere i valori della solidarietà, fra gli esseri e gli esseri e la natura – di conseguenza la gioia, la generosità, l’amore totalizzante. Che già la parola, quando si manifesti nella sua purezza primigenia, sviluppa in noi stessi. Poetando il nostro riscatto.

Certamente la tecnologia, come legislazione di un ordine imposto e prevaricante, rivela ad ogni pie’ sospinto la nostra schiavitù, al di là della nostre pulsioni libertarie.

Lascia che mi ripeta: come possiamo non essere d’accordo? Tuttavia dobbiamo anche essere coscienti di quella immensa energia prodotta infine dalla contraddizione fra la volontà d’avventura e scoperta e la quotidiana realtà della prassi socio-politico-economica. Dici: Il miglioramento del genere umano come può ragionevolmente (attento! non appellarti ancora una volta alla ragione!!) passare attraverso la scienza e la tecnica?.... Cerchiamo di essere chiari (attento! sei un poeta e la chiarezza non fa parte della tua visione del mondo!!): contrariamente all’idea corrente, la tecnica non è assolutamente un sistema di mezzi nelle mani dell’uomo; all’opposto è l’uomo il mezzo della tecnica, il mezzo di una potenza che lo spinge a rigettare la propria istanza più umana. Permettimi, qui, una contraddittoria perplessità: sei poeta e filosofo, ma tuttavia gestisci una casa editrice che non può che reggersi attraverso i mezzi della tecnica, ti poni problemi tecnici di scelte, di costi, problemi di vendita – anche se non punti certo al primato del mercato, sebbene infine il mercato altro non sia per la poesia che il consumatore che legge poesia… Bene o male anche la parola poetica diviene parola-merce… Non parliamo poi della mercificazione necessaria della musica, del teatro, dell’architettura… Tutte manifestazuioni del poiéin in senso lato che partecipano bene o male del cosiddertro progresso dalle tecniche diverse.

Sostieni che la via estetica alla liberazione implica una discontinuità molto forte. Va oltre i rapporti economici. Nasce dalla capacità di far contare nella vita di ogni singolo ciò che lo accomuna agli altri. Ma gli altri come possono essere avvicinati e seguirti senza adottare gli strumenti tecnologici di ogni natura? La grande poesia del Georgiche trova la sua radice propriamente nelle quotidiane e stagionali tecniche agricole. Sono d’accordo ovviamente sull’imperativo che ci deve spingere a non farci schiavi delle strumentali misure del fare, e del vendere oltre il fare (poiéin). I semiologi e Umberto Eco in particolare dicono di una Struttura assente: è quel distacco di cui parli? È quel nulla primigenio di cui varie volte abbiamo discusso?

Sta di fatto, dicono i semiologi, che «la semiologia è costretta a verificare le sue ipotesi non solo là dove l’esistenza di convenzioni comunicative è riconoscibile e riconosciuta (codici, lingue, scritture digitali…) , ma specialmente dove si suppone che vi sia solo natura, spontaneità, invenzione libera, nativa somiglianza tra i segni e gli oggetti, o addirittura la pura e semplice presenza delle cose che sussistono ma non comunicano» (U.Eco). Di contro la cosa che non sussiste ma tuttavia comunica (in forma di coinonìa) non è forse la poesia?

Il tuo passionale sermone (questa è la forma fascinosa di questo tuo libretto!), come tutti i sermoni – non sempre privi di utopistico misticismo – riporta all’energia inconoscibile dell’anima.



A

Carla Paolini


 Paolini,Translalie-Racconti (ed.Cicorivolta, “Tema libero”, 2014


Lesa sul Lago Maggiore, 20 agosto 2014

Cara Carla,

mi sto piacevolmente arrovellando fra le tue Translalie . Mi rammentano una disponibilità avara di mia madre: quando, per tempo, si doveva organizzare insieme un viaggio, o insieme prendere la decisione per un acquisto, o simili necessità, difficilmente ci faceva conoscere ‘su due piedi’ il suo parere e calmava i nostri bollori (senza togliere, anzi, la tensione della nostra curiosità) esclamando: “È tutto sospeso. Si vedrà!”. Fin dalle prime pagine del tuo nuovo libro di racconti (ma sono proprio racconti?) sento (ma tu stessa mi lasci libero di sentirlo), che non devo farmi ragionevoli illusioni, perché non posso subito venire a capo di quella storia le cui scritture sono difficili da riconoscere: perciò subito mi sento curiosamente ‘sospeso’. Tra facili proposizioni, o peggio (o meglio!) tra illogiche conclusioni.

Certamente questa ‘incertezza’ costringe te e chi ti legge a riconoscere la fine del romanzo (o racconto) come prodotto che abbia un inizio e una conclusione. Partecipi e ci fai partecipare a quella tensione che fu provocata dalle scritture di molti decenni fa ormai (complice la metafisica dei primi anni del ‘900), quando ci si doveva render conto che la storia, quella vivibile e quella della fantasia, non possono aver fine. Non dico questo per asserire che hai qui seguito quella che è ormai la tradizione del ‘non finito’, dell’improbabile. Ma così ora operando dai meritevolmente una mano a gettare nel cestino tutti quei decadenti raccontini che riempiono gli scaffali delle librerie, alla ricerca di un povero lettore che non abbia capito ancora alcunché, pur dopo tante prove anche pregevoli. Ormai vecchio (quali sono anche molti giovani lettori), pigro e assai poco fantasioso, vuol sempre sapere vita, morte e miracoli (come avveniva nelle storie nel secolo XIX) di tutto, di tutto e di tutti. Ora tu rimetti in crisi meritevolmente una prassi narrativa che, complici le telenovelle e altre simili idiozie, ha invaso negli ultimi tempi (una trentina d’anni e più) l’insipienza dei lettori: pochi lettori comunque, ma comunque privi di fantasia, del piacere della personale scoperta. Della vicenda della scrittura, prima della insistenza in merito a ‘come va a finire?’… ‘Conclusione?’... ecc.

Di questo vizio ‘poliziesco’ – anche ridicolizzabile – trovi sentore in un pregevolissimo saggio di Giuliano Gramigna su ragioni e struttura del romanzo poliziesco (in “Testuale 53).

Ma tu sei prima che una narratrice una poetessa e ci insegni che la poesia, se poesia è, viene valorizzata essenzialmente dall’ ambiguità. Che vuol dire presa di coscienza del mistero della vita. E della sua fine senza fine.

Ma in merito a questo… impossibile ragionamento, vorrei invitare il lettore della rivista “Testuale” – non te ovviamente! - (sulla quale se sei d’ccordo pubblicherei questa letterina) a prendere in considerazione innanzitutto l’incipit del libro: P R E-sunzion dell’autore , alle pagg.9-12. Alcune affermazioni le ho già, modestamente intuite. Ma, sempre in aiuto al lettore, e a me stesso, vorrei riprendere fra virgolette, alcuni indici del tuo progetto. Che rispondono coerentemente anche ad altre tue sperimentazioni poetiche pubblicate in passato. Così vai dicendo … ma qui devo per forza di cose, essere sintetico e frammentario. Il lettore di “Testuale” completerà appunto la lettura, ma non è male attirare subito la sua attenzione, invitandolo a procurarsi il libro, mosso, confido, da inquietudine:


Traccio segni: sinopie irrisolte, campi espressivi aperti… propongo la suggestione del non detto, dell’intuibile… Rinuncio alla sbrodolatura… Mi va di costruire intrecci brevi da indagare, che abbiano il fascino dell’inespresso…Queste sono narrazioni dischiuse a mo’ di finestrelle su un orizzonte in continua mutabilità… Ho il “frivolo sogno” di immaginare il mio lavoro non come un frutto ma un seme… Riprendo, scatto… sono flash, che illuminano, isolano minime vertigini di esperienza… Mi figuro il possibile… mi raffiguro ogni possibile… nel corpo del linguaggio, inseguo la capacità evocativa… Tutto ciò [citi Platone] che rimane aperto all’indagine… rende la testimonianza umana inesauribile .

Vorrei avanzare solo una osservazione che non cambia la sostanza: non rinunciare alle sbrodolature - secondo la maniera di Proust - non significa, anzi il contrario, non aprire il flusso del linguaggio e della narrazione all’infinito… Ma solo Proust può trasformare le sbrodolature in poesia…!

Ecco allora, venendo, a puro titolo di esempio, a certi incipit del corpo lingistico e psicologico preanninciati, o a certi finali non esplicitati, ad alcuni passi di queste Translalie :

La penna che pare non sappia vincere, forse, la battaglia con il computer…

Abel intossicato dai gas venefici sente modificare la propria personalità e cede alla violenza…

La parente povera che nel suo sdrucito zainetto tiene nascosto un talismano che lei non rivela ad alcuno: una incommensurabile splendente presenza apotropaica in forma di garbuglio di parole…

è sempre più snervante parlare con te, finirò per schivarti…

Per quanto scivoli all’indietro e più indietro ancora, fino all’ancoraggio primigenio, niente mi aiuta a ritagliarmi fuori dalla molestia di un pensiero che si stringe a trappola: non ho vie d’uscita!...

Senza idee: non è una condizione rara essere a corto di idee… vorrei [allora] prendere tutte le parole che scelgo quando sto a scrivere qualcosa, insomma quello che credo sia il mio linguaggio, e renderlo allusivo, inconoscibile, centrifugarlo, spiegazzarlo, dargli uno spasmo…

Metamorfosi: non se succeda anche ad altri, ma a me, prima dell’arrivo del sonno, capita di fantasticare che il risveglio mi veda in forma di qualcosa di magnificamente diverso…

J.Dee Wolken, “Non può essere vero”, ed…. Se vi venisse voglia di leggerlo, lasciate perdere, il libro non esiste…

Non so se quel nostro lettore, sfogliate queste paginette e disposto ai mie/nostri suggerimenti, possa essersi fatta una idea esatta delle tue Translalie . Io con questa lettera a te (e a lui) indirizzata volevo solo stimolarlo, perché voglia poter riconoscere l’inconoscibile.




A

Ivan Pozzoni

Roma



Glocalizzati”, antologia a cura di Ivan Pozzoni, deComporre edizioni, Gaeta, 2014


Milano, 29 ottobre 2014

Caro Pozzoni ,

grazie di Glocalizzati che sto sfogliando con l’attenzione che merita : una poesia va centellinata, letta e riletta. E grazie d’aver voluto ospitare anche un mio testo. L’insieme - oltre 30 autori – in buona parte a me sconosciuti mi offre la possibilità di prendere atto di quanto manca, ed è molto, alle mie conoscenze della poesia d’oggi. L’edizione è elegante e anche utilmente tascabile!

Della tua intelligente prefazione va soprattutto notato che tocchi situazioni non solo letterarie e poetiche, bensì sociali e anche prettamente filosofiche, che posso decisamente condividere: vale a dire il passaggio dalla fase solida a quella liquida della modernità… Dalla neoavanguardia (con le sue regole rigide immune ormai da quel disordine creativo che ha segnato la creatività (allora sembrava comunitariamente libera) del Novecento. Certo, se questo è vero, vuol dire che stiamo andando verso un soggettivismo che non sempre, purtroppo, fa la poesia. Ma tant’è. Come nota Nazario Pardini certamente c’è una crisi della ragione nel tardo modernismo, e le regole sono ormai quelle della tecnica e del mercato (sebbene non in quel senso fantasmatico che propugnava il futurismo): ma è qui forse che nasce allora la vera poesia (ma c’è una vera poesia?), «da quella realtà… che si è fatta nuova, e riadattata e forgiata dentro di noi dal fuoco dei sentimenti». Ritengo tuttavia che – come purtroppo avviene per alcuni poeti qui antologizzati – sia importante (anche se sembra ovvio o banale, ma non lo è) non scambiare il sentimento con un solipsistico sentimentalismo.

Per una antologia così ricca di testi, assai diversicati, mi è ovviamente impossibile entrare nel merito delle scritture secondo quanto mi richiederebbe la mission di “Testuale”. Devo limitarmi quindi a selezionare (senza nominare gli autori per non deludere gli altri, fra i quali si trovano opere qualificate, un paio di esemplari che testimonino in merito a quanto s’è detto:


………………………………

Dove stai andando?

A volte perdo la strada

consapevole del mio disorientamento.

Cammino senza neppure un pensiero.

Incosciente o saggia cerco una via.

Gli incroci sono trappole insidiose,

impongono scelte.

…………………………………

È la sensazione della parola silente, quella che vive vivida ma non può esprimersi. La parola muta dell’inconscio che non può esprimersi poiché andrebbe al di qua, o al di là della ragione. Della scelta, pericolosa.

Altrove (in Declinazione di altro autore), si declina appunto, nella irragionevolezza onirica, un ritmo ossessivo, tuttavia alla ricerca di una pacificazione:


Sottile consistenza

per ampiezza d’equilibrio

e di scompenso

linea lunga

essere andata

in utile maniera

in calme piatta e lucido risveglio

in matassa di consumo

in angolo dorato

Giorno che viene

che passa

che aggiusta le cose

che sommuove la marea

che inarca i visi

Dolce di fattura

doppio di misura

di periodo e d’indulgenza

nuocere al fatto

rendersi sano

d’orizzonte putativo

d’occhio e di scommessa

Sera garantita

tedio virato

pari dapprincipio

di durata e d’elegia

di calmo mare

e pretesa

Per solo cantico di ora

di sola limpida garanzia

per nostro suono

per ritorno animale

per accozzaglia gentile

per bisogno di fuga

e apice di stasi.