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Adele Desideri



Lesa sul Lago Maggiore, 8 dicembre 2013

Carissima Adele,

grazie di “Stelle a Merzò”: fin dai primi testi attrae una complessa qualità di scrittura che si distacca nettamente, in particolare per la poesia d’amore, da certi attuali piagnistei fatti passare, anche da buoni editori o critici, per poesia.

Poiché dovrei poter pubblicare questa breve lettera nel prossimo numero di “Testuale”, alla rubrica Letterale, mi corre l’obbligo di informare i nostri lettori in merito alla storia (l’idea che mi faccio è quella di un poemetto). Nulla di più facile a questo fine riprendere alcune righe del chiaro commento di Tomaso Kemeny: «”Stelle a Merzò“ si origina dalla trasposizione per frammenti lirico-elegiaci di una storia d’amore appresa dalla “viva voce della protagonista”. Come in un diario, resoconto di una passione estiva, il testo trova il suo incipit il 28 luglio 2009 a Merzò, per concludersi, circolarmente a Merzò (dopo passi contestualizzati ad Airola, Milano, Ponte di Santa Margherita, ecc.) il 31 ottobre 2009».

Ciò detto va sottolineato, ovviamente per la poesia in particolare, che al di là delle storie e dei loro contenuti (le vicende d’amore da Saffo in poi sono sempre uguali – felicità, dolore, distacco e morte vera o presunta!), vale principalmente per il lettore l’attenzione coinvolta, perciò anche rapita e commossa formalmente. È la forma della scrittura a fare (poiéin), originariamente e sostanzialmente, la poesia. E in proposito non puoi non essere d’accordo, considerata la materia scritturale che qui esibisci con maestria e… tanta concettualità.

Ci sono testi, in questo poemetto, al di là degli eventi o anche, ciò può essere vero, alla ragione presumibile dei fatti medesimi, che aprono spazi inusitati, alieni ai criteri banali della comunicazione, bensì aperti alla visione albale della scrittura. Alla coinonìia, per dirla con gli antichi fra sensi inconoscibili e silenzi misterici, ambiguità conturbanti e dismisure sensitive, biologiche sovente incontestuali. C’è, fra gli spazi e i ritmi, la dismisura dell’inconscio, dell’inafferrabile. Mistero e sogno: l’amico Ottavio Rossani assai correttamente disse una volta della tua poesia (lo ricorda il postfatore Paolo Lagazzi) «La sintassi si fa spesso onirica sfuggendo al controllo della ragione». Della ragione, non della raffinata costituzione strutturale, di una poesia che sorvola (vola sopra…) il soggetto per farsi oggetto autonomo. Aperto, per l’appunto, ma non modificabile nella sua energia fondativa, diffusa in una coerenza di rara ritmica continuità.

Posso fare un esempio fra i più pregnanti, tolto dai testi più brevi (quelli più lunghi forse s’arrendono talvolta alle misure impoetiche del racconto). Dico di 17 agosto, Merzò:


La sacra aureola lancia fiamme / invece di luminarie. I piedi calpestano / mine nascoste. Sui fianchi / appaiono livide cifre. / Il volto è corroso, macerata / la carne in unguenti di olio, / rosmarino e salvia - non c’è il pepe.


Voi folli – uomini semplici - / come rovine nel mondo siete ammassati. / Però, se vi ascolto, se vi prendo per mano, / mi sorridete – ballando - / mi lusingate – sudando.


Ma voi, sapete degli astri il cammino, / delle nuvole rotte lo scherno, / dell’orgoglio lo strazio?


Continua qui, dolorosa e beffarda, quasi cannibalesca, la condizione bruciante e odorifera della poesia precedente, 17 agosto, Airola, il cui incipit, rivelandosi paradossalmente nella generale istoria d’amore, descrive una assurda situazione espressa forse con rabbia, tra parentesi: (Cuocendo l’arrosto). La rabbia del dolore immerso nella banalità quotidiana, o dalla stessa rammentato. La carne è macerata in unguenti d’olio, con rosmarino e salvia, ma senza la bruciante energia del pepe. Ecco che, tuttavia pur senza violenza gustativa della spezia pungente, un arrosto (umano?) sul fuoco si fa sacrificio, come ci annuncia la sacra aureola. La fiamma, senza purificazione, con crudeltà, lascia lividi (livide cifre… in quanto enumerabili drammaticamente) sul corpo macerato, e corrode il volto. Potrebbe trattarsi, volgarmente intendendo, dei fastidi dolorosi che tormentano la massaia davanti ai fornelli, alle piastre roventi necessarie per la cottura dell’arrosto: ma il fastidio doloroso, il rossore, la conta delle scottature, in verità tormenta con la carne la disperazione trattenuta. E c’è il timore delle mine nascoste che rendono rischioso ogni movimento. Tutto, tra i fornelli e nel cuore, nella mente, potrebbe esplodere.

Mentre fuori, nella festa di mezzo agosto, apparentemente le luminarie presumono qualche incosciente felicità.

L’ingenuo dramma domestico si apre con qualche speranza e molta paura agli uomini, folli e semplici. Che non sanno tuttavia sentire che l’odor bruciaticcio dell’arrosto è in realtà la fiamma che corrode il mondo, ammassandoli a loro insaputa fra le rovine del bruciante sacrificio. Gli uomini semplici si lasciano prendere per mano, sorridono e ballano… Ma sudano, faticano inebetiti dalla festa, come la cuoca che brucia davanti ai fornelli, travolta silenziosamente, in cuor suo corrosa, oltre ogni lusinga, da quella fiamma, apparentemente felice (la fiamma della festosa cucina, della saporita cena antropofagica), tragicamente sacrificale.

Ecco allora che, la cuoca saggia, e dolorosa di fatiche, di calori insopportabili, colei che ben conosce i segreti culinari, le bruciature della pelle esposta al dolore, si fa, davanti all’ara domestica, profetessa. E rimprovera agli uomini innocenti l’ignoranza delle metamorfiche dismisure cosmologiche, dello scherno del cielo senza pietà, che castiga l’orgoglio con lo strazio del fuoco. Un fuoco senza purificazione.

Questa poesia, salvo qualche enjambement o qualche allitterazione, non si addentra e non si esaurisce in forme retoriche,: si sviluppa invece in misteriose fantasmatiche immagini, in sarcastiche analogie. In impauribili onirici vaneggiamenti. La itinerante storia d’amore (che naturalmente va colta in tutta la sua ossessiva narrazione), respinge l’Altro – uomo di minime ire… grano ed erba mala… in questa farsa giullare - ma infine sempre ascolta la sua necessaria presenza (come la presenza degli uomini folli e innocenti):


Non mi ingelosire coi tuoi guizzi furfanti, / non perdere l’azzurro allegro / della tenerezza contrita, / che impallidisce quando scorgi / - nell’inguine che lusinga la vita – la vita.


È la metamorfica e risorgente qualità della poesia. È la poesia medesima a rispondere alla domanda di Russell (citato da Chomsky): «Com’è che gli esseri umani, i cui contatti con il mondo sono brevi, personali e limitati, hanno la capacità tuttavia di sapere tutto quello che sanno?» - di conoscere e capire le lusinghe, anche dolorose, della vita.


Scritta a Adele Desideri, “Stelle a Merzò”, Moretti & Vitali, Bergamo 2013