Ugo Fracassa
PPP / P 55
Quanta parte del cippo, proteso e dolente come arto fantasma, ciecamente addita l’entità, l’interezza di una vita ridotta a moncone? L’effetto allucinatorio ci dice che la gran parte di quell’esistenza è rimasta incompiuta, perché la stele mutila ingigantisce il vuoto che la compie. A Siena, il duomo rimpicciolisce a paragone del corpo di fabbrica che dal transetto si estende a navata, facendo di quella eretta, a sua volta, transetto di un edificio invisibile e abnorme. D’altra parte, ciò che nell’arte non è rifinito, come pure i reperti smembrati della statuaria classica (quanto dei prigioni michelangioleschi emerge dal marmo, come la perspicua anatomia del torso apollineo di Nestore) precipitano lo sguardo sul particolare, enfatizzandone la perfezione parziale. Entrambe le esperienze estetiche si realizzano nella lettura di Petrolio, il “poema” pasoliniano pubblicato, con le dovute cautele filologiche, postumo e incompleto in forma di brogliaccio. Intanto, la materia narrativa si interrompe con l’Appunto 133, a meno di cento pagine dall’inizio della seconda parte, annunciata dopo le quasi cinquecento di appunti relativi a quella precedente. Da alcune dichiarazioni dell’autore, risulta chiaro che quanto giunge a noi non esaurisce neanche un quarto dell’opera progettata. Forte è perciò l’illusione di monumentalità, come di colonna cessata sotto l’entasi. Peraltro, nella congerie di annotazioni accumulate, spesso altamente frammentarie, incoerenti e provvisorie, spiccano rari episodi ad alto tasso di formalizzazione interna, tra tutti quello intitolato al “Pratone della Casilina” (il numero 55 nel dattiloscritto originale che reca sul frontespizio, in acronimo, nome d’autore e titolo ovvero: PPP/P), tessera rifinita con tale scrupolo da parere miniata.
Lo spiazzo erboso, di cui nel titolo, è il teatro, illuminato al margine della città da una luna estiva, dell’incontro tra Carlo di Tetis, protagonista (col suo doppio, Carlo di Polis) del romanzo, e venti adolescenti romani che, a turno e in cambio di danaro, gli concedono favori sessuali. L’Appunto 55, tuttavia, si interrompe inopinatamente al nono dei venti giovani arruolati – “Venti! Erano un piccolo esercito” – riproponendo nella microstruttura il peculiare squilibrio macrotestuale e consentendo ipotesi critiche circa il precario statuto di questo abbozzo romanzesco, sulle quali torneremo. Sintomatico, il nome di Viktor Šklovskij chiude un elenco di autori che Pasolini raduna attorno all’idea di Petrolio e, sottinteso in questa affermazione: “Il mio non è un romanzo a schidionata, ma a brulichio”, aleggia in una dichiarazione programmatica: “la mia decisione è quella non di scrivere una storia, ma di costruire una forma: forma consistente semplicemente in qualcosa di scritto” (non diversamente il carattere di Don Chisciotte era, per l’autore di Teoria della prosa, mero prodotto della costruzione del romanzo). Non sorprenda perciò la fortissima coesione, esterna ed interna, di questo breve testo in un romanzo nato sotto auspici formalisti, anzi, un’analisi appropriata dello stesso non ne sottovaluterà l’architettura fatta di parallelismi e simmetrie calcolatissimi pur tra le macerie trasportate da una narrazione alluvionale.
Il racconto procede secondo un evidente schema ad elenco, modalità apparentemente priva di sostanza retorica ma invece letteraria come ogni figura. Le tecniche utilizzate nella descrizione delle varie sessioni coitali puntano a rendere vario ciò che è costante e diverso ciò che è comune, per non incorrere nella noia, che Pasolini riconosce come attributo della pornografia1; ciononostante, non sempre lo sforzo risulta perfettamente dissimulato, per esempio non nel caso di quel ragazzo che con un ciao “personalizzava il suo turno” ma, nello stesso tempo, scopriva le carte dello scrittore come capita in un lapsus. Si trattava insomma di rappresentare il campionario di genitali, oggetto di minutissimi resoconti, variando sull’unica corda della dimensione, inevitabilmente ragguardevole in quanto amplificata dal desiderio di Carlo e dal turgore di rito. L’effetto si ottiene con l’estensione dell’idea di superlativo relativo oltre i limiti meramente grammaticali, tale che i nove elementi risultano nell’ordine – grande, più grande, bello grande, più lungo, medio ma pareva più grande, enorme, normale ma più duro, forse non più grande ma pareva il doppio ecc. Fondate ragioni economiche ed ideologiche, tra l’altro, misurano e decidono l’entità degli attributi virili. Secondo una mitologia tutta borghese circa la naturalità del proletariato - mitologia di cui il narratore si dimostra pienamente consapevole, come si evince dall’incontro dell’altro Carlo con Salvatore Dulcimascolo (“Egli si aspettava […] un membro come il suo, o come quello di qualche suo compagno di scuola, che aveva appena intravisto, ai gabinetti, o negli spogliatoi dei campi sportivi. Questo invece era molto più grosso, […] e come di altra materia: era un altro sesso, proprio quello che il mito del popolo faceva immaginare a Carlo”) – se nel drappello di fornai, meccanici, manovali, garzoni e muratori, radunato sul montarozzo del pratone, si nasconde un solo borghese (il parrucchiere Gianfranco), a lui toccherà farsi latore del solo membro inferiore alle aspettative. Gli altri giovani, non diversamente da quelli immortalati nei versi di Penna, si riconoscono a naso in quanto membri della classe lavoratrice :“dai panni di Sandro emanava un certo buon odore di farina”, la tuta di Sergio “odorava molto forte di ferro”. In quanto ad artifici a ridotto gradiente retorico, da notare pure lo stilema tipicamente pasoliniano che consiste nella giustapposizione di accrescitivo e diminutivo (palazzoni vs casette, cespuglietti vs pratone ecc.), tropo puerile che si addice ai “clienti” della Casilina. Da notare che il titolo ripete la stessa figura, grazie al falso diminutivo del toponimo (Pratone vs Casilina)
Tornando all’elenco, esso risulta altresì scandito in maniera iterativa da stacchi – il cambio di turno tra i ragazzi - che inanellano la teoria degli incontri sessuali con regolarità tale da governarne l’escursione emotiva dopo il climax di ogni orgasmo: “il primo che era venuto dietro a Carlo era Sandro” / “un altro si staccò, lui pure di corsa, dal gruppo che aspettava” / “Intanto già stava arrivando di corsa …” / “Quello che adesso arrivava, il sesto…”. A partire dall’ablativo assoluto dell’incipit – “Carlo, presi questi accordi, fece qualche passo avanti sul prato” - l’Appunto 55 si caratterizza per il tono quasi neotestamentario di queste interlocuzioni narrative – “Questo era pensato da Carlo” / “Dal gruppo veniva avanti Pietro” / “Il nome di questo secondo ragazzo era Sergio” – che contribuiscono a modulare la monotonia descrittiva dell’elenco. Con maggiore precisione, la lingua che vi risuona è quella di una traduzione ecclesiastica dal latino del sermo piscatorius degli evangelisti. Tale è la suggestione – indotta pure da un titolo del Pasolini regista – che la struttura complessiva del brano (litania delle erezioni, periodicamente interrotta dall’intervento del narratore onnisciente come voce fuori campo) si direbbe ad antifona. Naturalmente una simile scelta stilistica non è senza rapporto col contenuto della pagina che anzi, dietro un’apparenza blasfema, cela un’ispirazione religiosa fondata sull’esperienza sessuale come epifania del sacro. Per due volte viene evocato il “miracolo”, la prima in relazione ad un incontro sessuale che sta per compiersi, l’altra a una penetrazione in atto; vi è poi la “semplicità quasi santa” del più ingenuo dei ragazzi assoldati. Un discorso a parte merita una scelta lessicale, inusitata, che Pasolini compie relativamente alla rappresentazione della dinamica dell’orgasmo, fenomenologia ampiamente codificata nella narrativa pornografica (alla quale Pasolini eccepiva esclusivamente su base estetica): in luogo di bagnato, umido ecc. l’autore di Petrolio scrive “unto”. Il vantaggio consiste nel guadagno connotativo che l’aggettivo assicura per gli automatismi che lo associano, in ambito religioso, all’ “estrema unz2ione” o al sintagma: “unto dal signore”. Ecco, perciò, che il pene detumescente di Sandro, “lucido del seme”, appare “unto” e: “quell’unto aveva qualcosa di sacro”. Ma qui la contraddizione pasoliniana tra cuore e viscere trova una composizione metafisica se l’aggetivo, sempre associato nelle numerose occorrenze all’ambito sessuale/sacrale, in una sola eccezione qualifica invece l’essere proletario: “Pietro vi era come insaccato [nella tuta], benché la ‘saracinesca’ fosse tutta aperta, fino al cavallo, e, sotto si intravedesse la maglietta rossa, resa oscura anch’essa dall’unto dell’officina”.
L’ambientazione concorre, complice Dante, all’interpretazione “religiosa” del testo, in virtù di straordinarie condizioni atmosferiche: la scena si apre sotto un cielo “con qualche nuvola spennellata appena nel suo indaco profondo; la luna in mezzo a quel cielo, che da rossa stava diventando di una luce fresca e purissima, con accanto, altrettanto luminosa la fedele piccola stella del crepuscolo (…) Tutto il cosmo era lì”. Neanche Leopardi può dirsi estraneo a “quella luna” che, transitata qualche pagina prima dal suo zenit, assiste ad avvenimenti che sospendono sulla terra il progredire lineare del tempo e lo rendono “relativamente infinito”: “Anche stavolta la cosa fu lunga oltre ogni possibile immaginazione. Anche stavolta la luna, con la sua piccola compagna, mestamente scintillante, parve essersi visibilmente spostata nella volta del cielo”, come fa avviandosi al suo tramonto. Il sentimento panico di armonia cosmica viene amplificato, a sua volta, dall’esperienza carnale dell’essere posseduto: “Visto con l’occhio incollato al terreno, il cosmo era ancora più assoluto”. A poche righe dall’ interruzione dell’Appunto, finalmente leggiamo che quella notte era stata “secca e odorosa come un mezzogiorno”, ovvero che il macrocosmo partecipava dell’ambiguità fisiologica di Carlo, insieme maschio e femmina, con una straordinaria lunazione meridiana. Quattro “momenti basilari del poema”, infatti, danno conto delle cicliche mutazioni sessuali dei due Carlo, mutazioni che tuttavia pare di poter riferire ad un ambito di significazione allegorica, ben attestato nella materia narrativa di Petrolio. Carlo è maschio e femmina nella stessa notte, come accade, per condensazione, nel lavoro onirico, e con lo stesso effetto di inconfutabilità tipico del sogno. Anche in questo caso, infatti, la meccanica di una penetrazione particolarmente laboriosa e malagevole - “voleva estrarlo completamente, ci provò e non riuscì poi più a infilarlo di nuovo (…) un po’ annaspando con le mani, riuscì a infilarglielo”, “Dopo alcuni minuti, benché a Carlo paresse impossibile, egli sentì il cazzo indurito cercare e spingere tra le sue cosce, [cercando] l’orifizio alla cieca, come i cani” - svela la natura sodomitica dell’amplesso, nonostante qualche pagina prima, a proposito di Fausto si leggesse: “sciogliendosi dentro il ventre di Carlo e fecondando forse per una delle prime volte della sua vita”, annotazione immediatamente contraddetta, in clausola, dal motto finale dell’adolescente borgataro, evidentemente estraneo alla logica allegorica : “- Che ber culo che ciài - disse infatti alla fine rialzandosi”. Almeno altre due occorrenze lessicali insistono su questa anfibologia, precisamente: la “smania quasi isterica”, con la quale Carlo aspetta ordini da Erminio, riconduce in etimologia all’utero (hystéra); “la glande”, curiosità verbale che merita una postilla filologica del curatore, di nuovo chiede legittimazione al femminile etimologico di “ghianda”.
Proprio l’esclusione del protagonista dall’universo culturale di cui sono espressione i venti giovani, renderebbe necessaria – secondo un’interpretazione antropologica - la mediazione omosessuale, allo scopo di instaurare una comunicazione, seppur degradata (agli occhi dei giovani il comportamento di Carlo è sinonimo di umiliazione: “Nel ‘lavorare’ egli cercava di far sentire a Sandro la sua solerzia e la sua umiliazione”), capace tuttavia di aprire un accesso, secondario e temporaneo, al loro mondo. Uno di loro è una recluta e spesso la metafora militare fa del manipolo una squadriglia; la caratteristica di questi giovani è la condivisione di una socialità, fanno gruppo e usano in modo inconsapevole del terribile potere di es/in-clusione in quanto maschi (“ le donne non hanno prestigio bastante per simbolizzare ai suoi occhi [dell’omosessuale] la società che l’ha escluso; poiché sono gli uomini a fare la legge e si arrogano il diritto di giudicarlo, soltanto la sottomissione può riscattarlo, umiliando davanti al lui il suo sesso tutto intero” – J.P. Sartre, Santo Genet, commediante e martire). A conferma dell’interpretazione, si ripete nel testo quella che potrebbe definirsi minzione rituale: “[Claudio] si sbottonò i pantaloni, e tirò fuori agilmente il cazzo. Non per divertirsi subito con Carlo, però, ma semplicemente per pisciare (…) E pisciava proprio in direzione di Carlo, mentre nel suo sorriso c’era ora un’espressione insolente, di sfida”. Così pure Erminio, non a caso caratterizzato come minaccioso e più adulto rispetto agli altri, “voltandosi [pudicamente] verso il fondo del prato, cominciò a pisciare”. Non meno emblematico, infine, l’iniziale imbarazzo di Gianfranco, il borghese della comitiva, ovvero il meno integrato col gruppo dei pari, malevolmente sollecitato da Carlo a rispettare il protocollo: “ – Piscia -, disse a Gianfranco. - Nun me scappa - rispose il ragazzo”. è stata Ida Magli ad obiettare alle tesi di André Leroi–Gourhan (circa la definizione di cultura basata sul concetto di proiezione, di esteriorizzazione al di fuori dell’organismo biologico) che, prima della mano, il pene è il membro capace, con la stazione eretta e le sue conseguenze paleontologiche sullo sviluppo dell’apparato cerebrale, di proiettare fuori di sé un getto (sperma, urina), separando e designando l’oggetto colpito come altro da sé. A questa interpretazione antropologica del processo di costruzione della cultura l’Appunto 55 risulta particolarmente coerente.
L’inappartenenza di Carlo all’ethnos del lumpenproletariàt capitolino ha pure una sua misura linguistica, quella che divarica il suo standard dalla varietà dialettale romanesca, isolata da un cordone sanitario fatto di apici, per i termini regionali assunti nelle descrizioni - montarozzi, saracinesca, cigolini ecc.- e di virgolette, per le performances dei parlanti (per la verità, Pasolini aveva utilizzato esclusivamente le virgolette alte, senza distinguere tra gerghi, koiné regionale e dialetto, ma distinguendoli complessivamente dall’italiano di Carlo). Tuttavia, a testimoniare l’ efficacia e il rischio della comunicazione sessuale, certe precauzioni cadono proprio durante il rapporto, che risulta così linguisticamente non protetto. Se, infatti, il narratore riconosce in sede preliminare da certi segni che “era tanto che Sandro ‘non se ne veniva’ ”, la stessa locuzione, quando riferisce in tempo reale di un orgasmo in corso, interviene priva di profilassi tipografica: “[Fausto] Se ne venne3 come rapito in estasi”. Fatta eccezione per simili cedimenti, comunque, tutta la narrazione tenta di opporre alle accensioni emotive, capaci di attivare la funzione poetica, (“mise il naso a pochi centimetri da quel cazzo [sorprendente], e lo contemplò da vicino … contro il fondo del prato e il cielo sulle lontane tremolanti luci dei palazzoni, sprofondati nella luce azzurrina della luna”) tecniche di straniamento, affidate sopratutto agli interventi di un narratore onnisciente che non disdegna di appellarsi al lettore (“A questo punto, mio lettore, comincia intanto col non sorridere all’accenno al cosmo”) e non è alieno a certo paternalismo vagamente manzoniano (“Questo pressappoco pensava Carlo mentre era chino ad ‘accontentare’ il ragazzo).
L’appunto 55, da ultimo, come accennato già a proposito della scenografia cosmica imbandita intorno alla notte selvaggia del protagonista, per l’interna articolazione si pone come tessera altamente definita in un mosaico largamente lacunoso e conosce, oltre alla scansione antifonale individuata, uno snodo mediano – con precisione aritmetica, a metà del quarto dei nove incontri - che dista dall’interruzione finale dell’Appunto, approssimativamente, la medesima decina di pagine che lo separa dall’ incipit. Ecco la giuntura centrale, evidenziata da un segno di cesura: “In quel cazzo (…) egli vide quelli, che aveva per sempre perduti di Sandro Sergio, Claudio, mentre lo prendeva una voglia struggente di quelli che dovevano ancora venire” // Pareva che solo adesso egli si fosse ridestato come da un sonno o da una forma artificiale di ipnosi o apatia”. Insomma, nonostante il novero dei giovani corpi si esaurisca al nono su venti, la ventinovesima pagina del racconto è concepita come conclusiva, anzi, costituisce una vera e propria clausola: con l’evocazione di divinità infere, simili a quei giovani, e vaganti con essi per il pratone; col riferimento al culto di Penati e Lari, che inscrive la tematica del sacro in un contesto pagano e la colora, a ritroso, di toni funerei e demoniaci. Un’ipotesi circa la genesi di questa immagine conduce, infine, ad un’altura poco fuori Domodossola dove Gianfranco Contini, “scopritore” del poeta friulano, aveva sperimentato in prima persona una simile epifania: “Una volta credetti proprio di avere la visita di un angelo, passeggiando su questo Calvario e ricordo di averlo detto a Pasolini, pensando appunto che potesse capirlo. Insomma: l’idea dell’angelo da me visto lo seduceva”. La presenza immateriale (che nella teosofia rosminiana, cara al filologo domese, impersona il “principio corporeo”) si aggirerebbe dunque, proprio come fanno le divinità di Petrolio sui ‘montarozzi’ del pratone, in uno scenario naturale insieme funebre e sacro.
Nel nome di questi esseri “divini, ma nel tempo stesso umili, soggetti e fedeli come cani”, perciò, l’Appunto 55 è da ritenersi perfettamente compiuto. L’analogia delle proporzioni tra l’apparente incompletezza del “Pratone” (9 corpi su 20) e quella di tutto Petrolio (500 pagine su 2000 previste), invocata all’inizio, permette a questo punto di ipotizzare che il progetto del poema fosse in sé inesauribile e suggerisce di sottrarlo alla definizione di incompiuto, nella sua accezione classica, per attribuirgli quella, coniata per l’occasione, di romanzo privo di termine ovvero s-terminato.