Rosa Pierno
I contrari a favore dell’amore

 

Se Roland Barthes ha fra i suoi obiettivi quello di sbaragliare le coppie oppositive corpo e mente, cultura e natura,  spirito e materia, forma e contenuto, suono e senso, fine e mezzo, utile e bello, che ritiene essere una vera e propria mitologia che la società ottocentesca ha approntato per controllare i professionisti del linguaggio, noi riteniamo che l’obnubilazione di queste coppie concettuali non vada attuata, ma vada strumentalmente usata per l’apporto che danno nell’attività perlustrativa della realtà e della nostra collocazione in essa. Nella nostra indagine sull’Amore, lo diciamo subito, tanto parziale e ancorché limitata a pochissimi casi, ci misuriamo con tali coppie: amore platonico e amore fisico, eros e affetto, senso e mancanza di senso, ritenendo che esse vadano salvaguardate perché più che un’opposizione, disegnano una polarità dinamica e complementare.

L’amore, dunque, come terreno particolarmente fertile per l’osservazione di contraddizioni, di aporie nell’ambito di scontri e riconciliazioni, di unioni e separazioni, di bello e brutto, di piacere e dolore, non ultima la coppia interessato e disinteressato. Amore come terreno esperienziale su cui verificare che, all’interno di un discorso culturale, sopprimere le opposizioni equivale ad abolire uno strumento, il che non ci porta più vicino alla verità né a una più avvertita consapevolezza delle forme dogmatiche o di potere. Semplicemente ci priva di una dialettica con cui poter verificare, rovesciare, costruire in altro modo la nostra visione personale, non esclusa la loro completa sovrapposizione che porta, fra l’altro, lo stesso Barthes a parlare, in Frammenti di un discorso amoroso, di sentimentalità della sessualità.  


Sentimentalità della sessualità che crediamo di scoprire, ad esempio, in tutti gli autori qui presentati, in grado minore o maggiore  e proprio queste  diverse intensità, gradienti e pondi di concetti contrari vanno a costituire la trama della relazione amorosa,  che ci consente di catturare  quell’incessante divenire che si può definire come compresenza dei contrari sorpresi sul limitare della loro distinzione. E’ importante, dunque, non ridurre i contrari a dissoluzione, ma perforarli per ridurre  la loro impermeabilità. Senza di essi non si può trascendere, non si può dare senso all’infinito, non si può procedere allo sfondamento dei limiti, qui a maggior ragione chiamati in causa visto che insistiamo in quell’area che per antonomasia è il regno dell’estasi.

In ogni caso, se la nostra brevissima quanto limitata indagine è condotta su testi poetici, pure, non si recide il cordone ombelicale con la realtà: non fosse altro per il fatto che se non si è vissuto l’amore, della passione amorosa non si può scrivere. Né crediamo esista un problema  relativo alla incapacità del linguaggio di esprimere ciò che sentiamo, poiché, anzi, esso ci rende servigi insostituibili e portentosi, ma nella parzialità stessa, nei limiti fisiologici e mentali entro cui insistiamo: che è in fondo quello stesso coesistere dell’infinità entro il nostro corpo/mente,  a cui si dà, appunto, nella commistione di finitezza e di infinità, il nome di amore.

 
Prendendo in considerazione uno dei testi più strabilianti e coinvolgenti sull’amore che sia mai stato scritto: L’uomo seduto nel corridoio da Testi segreti di Marguerite Duras, notiamo che l’azione vi inizia con un tempo verbale condizionale, il quale è d’obbligo nei confronti di questa non certezza che è per noi l’altro. Soltanto dai suoi atti potremo capire se è innamorato. L’autrice, introducendo una donna, non sa dirci se ha gli occhi chiusi o socchiusi; nemmeno lei sa che cosa accadrà nel prosieguo.  “La donna ha un abito chiaro, di seta chiara, strappato davanti, che la rivela. Sotto la seta il corpo era nudo. L’abito sarebbe stato forse di un bianco smorto, desueto”. Il passaggio dal tempo verbale presente a quello imperfetto, rivela con violenza che la scena è accaduta, che non accadrà mai, che sta accadendo, che è solo immaginata. E se lo è, immaginata, è solo per scriverne. Qui, dinanzi alla crepa apertasi, il lettore non può affidarsi a nessuna convenzione letteraria. Egli deve seguire l’autrice non credendo mai a quel che dice, o sapendo che deve immaginare con lei.

La certezza è ineliminabile dal testo, l’autrice sa esattamente quanto sanno i suoi personaggi: tutto. E’ nell’ordine della totalità che questo testo si inscrive, reclamando un valore imperituro, quello dell’immagine definitiva, a cui, vedremo, solo il paesaggio potrà opporsi, ma contemporaneamente la Duras mostra la difficoltà con cui lo si compone, la consapevolezza con cui si costruisce ciò che si può con ciò che si sa.  Nulla di tutto questo, quando descrive l’atto sessuale, che sgorga vivido e vero, emozionante, mai disgiunto dalla passione e dalla perdita, dal bisogno e dalla soddisfazione, dalla tenerezza e dalla violenza. Allo stesso  modo, magistralmente descrive lo stacco e il distacco dopo ogni avvenuta congiunzione carnale,  la stasi tra l’amore e il non amore, tra il tutto e il niente: “La forma è là, scomposta, lontana da lui”. Sarà pronunciando “Ti amo. Amo te” che “il piede avrebbe premuto sul corpo” e il tempo si sarebbe dilatato, confondendosi “nell’immensità indefinita”.

Questo è il punto in cui il paesaggio aperto coincide con l’interiorità dei due amanti. Amore sarebbe appunto immensità indefinita che si protrae unicamente nel desiderio dei due amanti. È l’autrice a guardare loro, il loro piacere e il paesaggio.   Gli presta le proprie parole, non evitando alcun aspetto implicato dall’amore, nemmeno il nauseante odore, o la bruttezza del corpo. La Duras si spinge a sondare ogni contraddizione: “L’uomo. La testa avulsa dal corpo geme, abbandonata e gelosa. Il suo lamento grida, chiede di venire, di tornare a lui, grida la torturante contraddizione di un simile amore. A lei, alla donna, questo non importa. La sua lingua scende verso quell’altra femminilità, arriva là dove quella si fa più segreta e poi pazientemente risale fino a riprendere e trattenere ancora nella sua bocca ciò che ha abbandonato”.  Il paesaggio  risulta essere quasi un terzo personaggio: toglie costantemente il primo piano ai due protagonisti e ne devia il senso, lo ribalta nell’aperto, nel farsi e nel disfarsi dei suoi fulgori viola, quasi un riposizionamento nell’ordine delle cose: infinito, quello che sta al corpo in amore, e finito,  quello che fa riferimento alla variabilità contro l’immagine statica, ma indica anche ciò che inerisce alla provvisorietà contro la credenza dell’amore eterno e ciò che riguarda l’ineluttabilità del desiderio rispetto alla volubilità aerea, delineando paradossi irriducibili quanto veri, se la verità può consistere in un paradosso.

Discorso parallelo per le poesie presenti nella raccolta curata da Guido Ceronetti Un’ombra fuggitiva di piacere Adelphi, 2004 di Constantinos Kavafis, poiché se il corpo è ciò da cui non si può prescindere, è ad esso che si agganciano i piani astratti del senso. Dal corpo all’amore, dal corpo alla storia. Dal corpo alle voci altrui, presenti e passate, tutte compresenti. Giacché l’atto erotico possiede in sé rimembranze e antecedenti, che si riverberano in conseguenti fertili, coi quali sembrerebbe possibile fare a meno del corpo. Ma è solo per poco: al di fuori della relazione col corpo tutto questo decade a stanza buia e silenziosa, dove nemmeno la vecchiaia può far più paura. Non essendo essa che l’indice di una impossibilità: l’amore senza corpo è un non-sense. Tuttavia, gli dei sono sempre presenti, a significare la casualità, l’arbitrio: come altrimenti indicare che è innestata nell’amore la possibilità che esso possa terminare? Chi lo decreta e perché? Meglio deporre però queste insondabili questioni e vivere! Corpo e mente, dunque, ora parrebbero non scindibili: sarebbe come separare la polpa dal seme nel melograno, frutto  paradossale. Per questa via, pertanto, non si possono separare nemmeno i vivi dai morti.  Eppure, tutta addossata dal lato dei percetti, delle sensazioni momentanee, appare la relazione, spesso ridotta alla durata di un solo incontro, mentre raccorciata pare la parte della conoscenza altrui, della comunicazione, della relazione intesa come incontro di due persone: “Fu il saziarsi una notte una soltanto, / E il raggiante risveglio di un mattino”. Presente anche una amarissima riflessione sulla contrapposizione tra due elementi contrari: corpo e anima, poiché l’ideale non appartiene al corpo amato, sebbene: “Ogni altrove non è che questa riva”. Dover riconoscere che la totalità che si desidera non trova riscontro nel corpo frequentato è il dramma irriducibile, a cui l’esistenza non pone rimedio:

IMMUTATO SPAZIO

Casa e dintorni: i caffè, il quartiere
Anno per anno giro là, li vedo

Ne sono il Demiurgo:
Tra gioia e pena
Ho creato quei casi, quegli oggetti

E per me tutto questo è diventato
Anima

E, ancora, “Fraintendimenti della mente sviata” i quali accastellano rovine, ma anche mente capace di riaccendere il corpo nel ricordo dell’amante, riagitato che sia il sangue e infuriando la sensazione del toccare. Si può, in questo caso, affermare che questi non sono reali contrari, ma appartenenti al medesimo genere, che potremmo chiamare amore. Ove corpo e mente da che separati erano, divengono una medesima declinazione, l’articolazione di una legge generale. Nel trapasso tra disgiunzioni assolute  e relative, non vi è sutura che regga, la ferita fa saltare i punti, sanguina, generando tormenti e piaceri insieme. L’eccesso dell’amore, se sembrerebbe installarsi esclusivamente dalla parte fisica, producendo estasi, non lascia intatta la parte spirituale. Poesia ha il potere di allargare l’orizzonte e di inserire nei tormenti una piccola oasi di pace. Il suo potere, che si pone anche al di sopra della saggezza, è appunto la capacità di tenere le redini del dilemma, raggiungendo quella consapevolezza che regge le aporie e le distinzioni come le unioni nei soli versi. Ciò che, appunto, non è componibile per sola via riflessiva: “Trascorre nei caffè la sua giornata / Trascina nel marasma il crepacuore / Per la bellezza in afferrata / LAVORA, ADESSO, MENTE, COME PUOI”. Solo i bagliori emessi dalla capacità sintetica e lenitiva, cicatrizzante e profetica, conglomerante e esplosiva del verso poetico riescono a dare conto delle polimorficità e irriducibilità dell’esperienza amorosa. Nella forma, è individuabile dunque, il nesso tra corpo e mente, tra natura e cultura, tra presente e passato, tra miseria e lusso. La forma che appartiene a cose di differenti sostanze, e che pare per questa via potersi agglutinare a quell’unica essenza che, a tratti, al mattino, ne “L’impeto di energia vitale che ne emana”, sembra a Kavafis di ravvisare in un dio: “E a volte di una forma indefinita / Di adolescente rianima i tuoi colli / L’essenza, che li percorre / Vertiginosa”. E si sarà così compreso che nemmeno per la forma è possibile fissare alcunché, che anch’essa dilania il visibile con l’invisibile, quello che può dirsi con l’inesprimibile. Anche se leggendo le fastose, avvampanti poesie di Kavafis, non crediamo che esista l’inespresso.

La contiguità formale tra Constantinos Kavafis e Gio Ferri non passa soltanto per un paganesimo dichiarato, ma anche per il crinale elevato a oggetto di disamina tra le sfere del carnale e dello spirituale. Scritto sotto la folta chioma degli Amori di Ovidio, una delle cinque sezioni introibo all’interno della silloge di Gio Ferri Nozze pagane edita da “All’antico mercato saraceno” in coedizione con “Myself  Print”, 1988, non teme di mimarne il passo. Di recuperarne il vocabolario. Leggerla vuol dire raccogliere il lieve velo che si forma sulla superficie e lì approfondire, non distanze e differenze, poiché proprio queste strenuamente non si vogliono mettere in evidenza, ma uguaglianze e recuperi: come di cosa non sorpassata dagli eventi e ancora in grado di  essere utile, al pari della poesia contemporanea. Ecco il forcipe che serve a estrarre il senso primario di quest’azione poetica. Naturalmente senza insistere nella prospettiva di Gèrard Genette che con i suoi Palinsesti ci ricorda che tutta la letteratura figlia continuamente da se stessa e attraverso questa rinascita si rinnova, perché è appunto regola generale, vogliamo provare a suggerire quello che si recupera da un’azione letteraria che così platealmente s’innesta in un’azione letteraria precedente. E forse ancora con una formula generale. Una voce che risulti provenire da un mondo passato, anacronistico, crea in primis una sorta di spazio neutro, vuoto d’aria in cui divenga possibile una decompressione: ove cioè sia possibile abbandonare le paratie stagne, le vie già ferrate, disponendosi a una maggiore apertura, a una riconfigurazione che inglobi il passato non solo come materiale attuale, ma come avente una qualità particolare, poiché il senso vi appare stratificato, ancor più semanticamente connotato.  E il secondo motivo, ci sembra, sia quello di mettere in evidenza la carnalità della lingua, il suo essere corpo vivente in tutte le sue parti: basta usarlo senza pregiudizi. Andare a scovare nei recessi del corpo vere e proprie vene d’oro, dimenticate solo perché non è agevole e immediata la ricerca, ma che rivelano la complessità, la profondità e la ricchezza della lingua. Inoltre, in misura ancora maggiore rispetto ai due autori che abbiamo precedentemente trattato, Gio Ferri si accampa sul terreno della disputa linguistica, convergendo verso l’idea che il linguaggio amplifichi e sostanzi ciò che viene percepito e vissuto dal corpo.

Le altre quattro sezioni della silloge, anch’esse parlano di amore, ma sono tutte scritte con registri stilistici diversi, le cui forme designano un diverso portato espressivo. “introibo” parla più apertamente delle altre di amore carnale, anzi descrive un atto sessuale. Dunque, a maggior ragione, “introibo” si serve di un particolare registro al fine di velare letteralmente la scena proteggendola da un realismo che la immetterebbe su binari prefigurati. In un certo qual senso, l’oggetto di cui si parla viene sospeso, sottratto alla volgarità che avrebbe se scissa dalle altre componenti umane, per essere sospinto verso una zona in cui può riacquisire una consona valenza, appunto quella dell’amore a tutto tondo. L’atto sessuale, dunque non è spogliato dalle connessioni affettive, percettive, relazionali di cui anzi è strumento espressivo, venendo così sottratto alla riduttiva esperienza che lo trancia dall’immaginazione e dall’ideazione, dal progetto e dalla proiezione, in altre parole dall’amore. E quanto sia raffinatissima la  risonanza che innesta in noi lettori lo lasciamo alla vostra valutazione, riportandovene alcune strofe:

Ella, quando s’ostina
la puerile protervia
d’ardua normalità

le ricade l’orpello
nel rissoso registro
ancor l’ansie ripesca.

Disperata mistura
epperciò si richiama
quello sperduto poggio.

 

Quando vienimi al
mio fianco ritrovato
quell’alveo vivacceso

io mi pongo le labbra
ivi risucchio vitule
mentr’ella ansa e chiama.
Ed io ancor altro non
merto se non qui,
slabbro arido ristoro.

 

Io vorrei che lacustre
e’ mi s’offrisse sparto
il bosco ceduo di

profumi arsi et
ombrose vive insanie
anco l’ardita indagine.

Così, quando si vuole
la glandeola carezza
e dianzi ancora il senso.

Che il corpo debba essere riposizionato, col ruolo centrale dei piaceri nuovamente sistemato al fine di disinnescare l’imbarazzante questione del disinteresse kantiano, è invece la questione intorno a cui ruota l’ultima sezione della silloge, con un peraltro significativo rilancio della questione del dialogo, in cui diverse voci vengono a tratteggiare un teatro interiore, innescando la sostanziale necessità della sfera conoscitiva, anche in ambito estetico. In una prosa che riconnette quanto separato, a partire dal dato fisiologico, il piacere, il corpo con i suoi dettagli (la vena, la voce, il piede, i gesti) e che s’interpola con le interrogazioni, il dialogo, il ricordo esperito nella presenza, andando a tessere un non lacerabile tessuto d’intenti, e tanto più non analizzabile quanto più promiscuo e non omogeneo. Si tratta di un dialogo d’amore dove nulla è trasparente, poiché l’amore è detto, conosciuto, non solo provato e  goduto. E s’intesse con l’Altro, figura dell’opacità per eccellenza:

Mi cerchi e mi trovi. Come? Allora, un poco, ti trattieni. Sai di lacci e lacerazioni. Certo, so. Vivo il mio discorso, diuturno. Chi? Ancora chiedi, infine. Un richiamo franco, fianco a fianco. Così temi imbarazzi e ritrosie. Propongo, anzi suggerisci, e io rapido recepisco e astuto trattengo, una corrispondenza che lenisca con l’abitudine, perché e dove, bene sappiamo quando nei meriggi – opachi – dell’appartato distacco (dove sei, e dove sono allora?) aleggia il battito dell’inutilità. Questo è il segno, e la viva ammissione della nostra, improponibile, necessità. E allora? No, no, non adontarti! I pericoli, i doveri. Sì gli impegni, i programmi forzosi. Allora?   

Con Luigi Trucillo, la questione del conoscere viene invece posizionata al centro dell’arena, e messa in discussione. Le Amorose, “Quodlibet”, 2004, sono riforgiati strumenti del conoscere: “Alcuni lo trovano illogico / (ma la logica non è / la mancanza di voglia di alcuni), / sostengono che la parola / non è un frutto / e quindi non ha bucce, / ma se la polpa fosse nuda / chi ascolterebbe?”. In un gioco al massacro che, investendo qualsiasi assunzione, e usando solo apparentemente un andamento sillogistico, in realtà ne slabbra forma e uso.  Le Amorose sono un gioco crudelissimo condotto fino in fondo per amore. L’apertura, l’accoglienza massima verso ogni più piccolo elemento, pregante o insignificante esso sia: nel paniere di tale giardiniere verranno raccolte anche le mele bacate, o i colori  più intensi utili per i sordi, gli acini rinsecchiti e le foglie tarlate, poiché solo quello che non capiamo “a volte ci cambia / fino in fondo”. L’intuizione può funzionare da viatico per accogliere ciò che difficilmente entrerebbe fra le maglie di un filtro  razionale. Tant’è che per le fessure, le crepe, i crepacci dei sistemi si infiltra l’immaginazione. Ma qui è più acconcio parlare di visionarietà, se da tali poveri scranni si lanciano strali che arpionano il cielo. O se si dipartono storie impreviste, al limite del non-sense: “e mentre spazzolavi / i nodi dal groviglio / ci scappava accanto / come una lepre /che sbuchi / sanguinando / da un arazzo”.

Se immagini si susseguono furiose - e certo Trucillo è poeta d’immagini - egli non mai rasenta il bordo del gesto casuale che fu dei surrealisti. Si tiene per salda corda sul bordo del burrone e da lì perlustra i margini, quel che ancora se ne può trarre senza perdere la bussola. Sarà per questo che la sua poesia è di salda costituzione, di costrutto controllato, di perfetta calibratura nella messa a fuoco del regime del senso: “tra lezione e sgraffio; / l’impacco perverso, / denso di passeri, di albume / e di pullover / con cui ti slavi, / tossisci le pretese”. Ammantate di nostalgia, di desiderio già in scacco, alcune poesie possiedono una virulenza melanconica, ma più in generale, anche l’amore non è mai assoluto, è sempre impiastrato da concrezioni, da ricordi che s’intrecciano alle visioni del presente e rendono le cose tanto più relative quanto più sono complesse. Non si ama soltanto con il corpo. E quando la mente è temperata dall’esperienza, quanto più succulento e parziale ne è il frutto! Tanto meno assoluto e tanto più esteso. Più variegato e meno monolitico.  Poiché Le Amorose nascono dall’incontro con le donne amate, sono versi che  si fanno amanti. Delle donne, pertanto, non certo una, vengono snocciolate le imprese quotidiane al limite del percettibile, le domestiche azioni rituali, il loro semplice esistere, non esclusa, di fatto, nemmeno quella ideale: “e la tua ombra subito / cerca una fedeltà alla vita, /proprio come è straziante / perdere / ciò che non si è mai / trovato”.

Sapienza stilla e non se ne può disconoscere la causa nella maturità, in una raggiunta capacità di guardare alla preziosità dei più repentini lasciti, dei meno attinenti particolari. Sono essi che disegnano la camera delle meraviglie, lo stato poetico per antonomasia, il carattere narrativo dell’impresa costituito dai singoli atti irripetibili, quali sono quelli dell’unione fisica, i quali spalancano le caverne dei tesori, costellanti la notte, altrimenti insipida della vita.  La saldatura si attua tra incompossibili: “dove il tuo stesso pronome personale / viene dettato dai movimenti / d’acqua: / blu quando diventa / più profondo, / azzurro fin dove è possibile / toccare”. Se donna è colei che si ricombina “in nuove figure”, e se colui che scrive e colui che legge sono assediati da un medesimo incombente timore: l’oblio, Le Amorose, sono poesie che hanno raggiunto l’obiettivo di rendere memorabile l’insensato dell’amore.

L’amore è oggetto da esperire nelle sue riposte pieghe, nei suoi accessi più reconditi,  ne La verità, vi prego, sull’amore, “Adelphi”, 1994 di Wystan Hugh Auden. Non può esservi idea che non passi attraverso i sensi e allora l’amore a che cosa rassomiglierà di più? “È pungente a toccarlo, come un pruno, / o lieve come morbido piumino?”. E quali sono i suoi segni? Lo si vede nominato a bordo delle navi da crociera e scritto sul retro degli orari ferroviari. Ed è convertibile in musica? Ci si può liberare da esso, quando si vuole un po’ di pace?  Non è detto sia facile incontrarlo e come accade che lo si incontri? Soprattutto darà una svolta alla vita?”.  Si noterà come in questa carrellata di domande, si sia rimasti sempre ferocemente attaccati al mondo delle cose concrete, dei gesti, degli accadimenti, ogni volta però Auden ha avuto la capacità di spalancare una voragine inghiottente: qui, l’amore sembra non avere nulla a che fare con quella immagine di pensiero culturale, letterario, filosofico all’interno della quale siamo soliti inquadrarlo. In sovrappiù, il ritmo della ballata, così sonoro, rimato, sembra cavalcare in maniera serrata verso il precipizio in cui ci attende la rimbombante questione: “La verità, vi prego, sull’amore”, ove essa per il solo fatto di preludere a una definizione, a un concetto, già brucia ogni altra considerazione. Ecco l’inceneritore di qualsiasi chiusura, non certo nei confronti del caso singolare, ma della generalizzazione. Dire qualcosa sull’amore, sarebbe ridurne la forza e le metamorfiche apparenze. Lungi dai versi di Auden un simile proposito, poiché il poeta, dell’amore, vuole consegnarci il nucleo generatore non il prodotto impacchettato!

Ma quelle di Auden sono anche poesie tragiche: rispetto agli animali “noi i nostri amori li dobbiamo perdere”. Eppure, la Natura ci da dato la capacità di scegliere di amare, l’amore volontario, dove il regno animale se scatena in noi alcune considerazioni  le fa anche volgere nell’assunto opposto. In questo senso il rapporto con la realtà non è un piatto fondale, ma  il nostro ambiente umano, e le nostre considerazioni vi trovano una base salda in cui la libertà è un’esperienza da compiere. Intanto, già con la seconda poesia di questa raccolta ci siamo trovati dinanzi all’assoluta maestria con la quale Auden ha volto un oggetto in soggetto (quel cigno che da animale è divenuto a noi uguale): “ma devo benedire e celebrare / che tu, mio cigno, avendo / tutti i doni che Natura / impulsiva ha dato al cigno, / la maestà e l’orgoglio, / vi aggiungessi ieri notte / il tuo amore volontario”.  Nel mezzo del rovello, della frustrazione e della desolazione, Auden sembra avere la straordinaria capacità di tuffarsi in un pagliaio e di uscirne con l’ago fra le dita, mai peraltro abbandonando una postura morale esercitata come critica sociale ed economica. Ed è ancora l’amore, l’ago della bussola, l’indicatore del senso della vita. In una rigogliosa incessante foresta di immagini, che il poeta inglese fa sorgere come un prestigiatore, desideri e speranze, illusioni e disillusioni si sovrappongono, senza che ci si debba mai fermare a considerare che ci sia una verità negativa che possa avere la meglio su una verità positiva, in amore, o che la prima sia più rispondente, più esaustiva, poiché in ogni caso, essa non ha maggiori ragioni e più profonde, al suo arco, del desiderio di essere comunque in amore. Né la morte, né la colpevolezza, né l’oltraggio possono scalfire il valore  “dell’umano amore”.

Sarà più immediato dopo Auden, per la sua lievissima e discreta capacità di accostarsi a oggetti e percetti, odori e sensazioni, considerare le pagine di Mario Fresa. Suadente la sua voce si leva dalle pagine della silloge Il bene, “Edizioni Marocchino Blu”, 2007, come un aroma, che provenga da osmotico passaggio tra cieli bagnati e vene, stretti insieme da parole di miele che richiedono rallentamento del respiro, tono affabulatorio. Un vero e proprio fiotto interrotto solo da proposizioni avversative che con la loro serrata frequenza incalzano l’apparente supina fissità di ciò che è: nulla che si percepisca e si pensi può riposare nella sua essenza: lo svolgersi incessante è esplicito riconoscimento che solo il divenire esiste.  La posta in gioco non consiste certo nella scelta fra i due versanti della medesima onda, ma si dispiega con scrosci e raffinatissima elargizione di sfaccettature, ambigue consistenze, tramate illusorietà, nella consapevolezza dell’infida posizione da cui si guarda al mobile teatro delle cose! Questo preziosissimo restare in equilibrio su impercorribili versanti, mentre si affondano i piedi nella materia molle delle parole nuove, rende  questa silloge sontuosamente bizantina: splendida nell’ora del tramonto, quando le cose si percepiscono vividissime per un lucore che proviene da consunta luce. “Tranelli” e “gallerie di soluzioni” proiettate con un sorriso su “pareti sacre” fanno affiorare nel lettore precisi contesti di riferimento filosofici subito scambiati come in un mercato nero con elementi provenienti da un mondo in cui non la volontà regna, ma specchi e riflessi “gesti iridescenti” e “ricami”: apparenze barattate con sostanza. Si inscena attraverso le parole un mondo straordinario, familiare e distantissimo, di sogni e  sorgenti, di calcoli e predizioni, quando fra di essi non esisteva frattura. La bellezza vi regna sovrana, domina menti e cuori, facendoci intravedere una via che non si oppone alla visione della volontà e della chiarezza, ma che la contiene: “piano delle armonie / che dicono e disfanno; che toccano e disfanno”.

L’amante, a cui il poeta si rivolge, ci sembra pretesto – personaggio introducente al mondo solo intravisto  –  per tessere le lodi di una visione incantata e decantante, di rara fascinazione.  Quasi l’amore, più che l’amata, sia il viatico per simili visioni, ardenti e supplici. Poiché il poeta vuole penetrare in questi interstizi di visione, in questi specchi labirintici, fra profili e cornici, fra offerte e inventario, fra veli e bisbigli: se mai qualcosa deve essere non può darsi che in queste forme: instabili e fugaci, di eccelsa fattura e incorporee.  E valga come dichiarazione di poetica la cesellata affermazione: “Poiché su questa corsa ho costruito un / desiderio di ferite e di digiuni, di un’infanzia / catturata dalle vere meraviglie, sempre / disposte al sonno, all’invadenza, al bene”.  Non esente da inganni e voltafaccia, benché sempre accolta con una messe di sorrisi – vero e proprio simbolo di accoglienza e accettazione del rischio e della sofferenza e di una consapevolezza responsabile e non lasciata al mutuo e libero gioco delle casuali proiezioni – pure, questa diversa disposizione, accoglie la domanda che scuote la rifulgente e rifrangente  costruzione:

Ma dimmi e ascolta: quale ventaglio di sonniferi
concederà la pace a questo vetro di visioni
che ci osserva, che ci ricorda l’arte di separare
il campo delle intese e delle feste,
quella virtù di prendere e lasciare?

Poiché sarà vero alfine che si debbono saldamente tenere le redini anche in un mondo di sogno: tutto può diventare tranello e mancanza, violenza e disarmonia, lì dove l’unione non è che proiezione di figura franta. Non esattamente con la ragione si opporrà resistenza al palesarsi di quest’altra faccia della medaglia: ma la si affronterà con le medesime armi: “E in questa tua caduta io mi / riparo; e mi divido; e mi trasformo nella tua veste / che dice allora d’imparare; di risanare e di / toccare”. La rinascita, l’incessante trasformazione, sono la medesima cosa della caduta e della distanza. Nessuna cosa mai definitiva, nemmeno il bene senza il male.

               Terminiamo qui, un viaggio inconcludibile. Ne abbiamo percorso qualche tratto con l’intento di mettere in luce ciò che ci è sembrato maggiormente adeguato al fine di sviscerarne la natura, guardando più alle sue trame squassate e tormentate, che alle placate stasi, più alle sue formule contraddittorie che a quelle evocative e risolte.