Giancarlo Buzzi
da
“Micropascoliana.
I dubbi interventi del maieutico fanciullo” *
*Prefazione redazionale.
Giancarlo Buzzi è riuscito a inserire qualcosa di nuovo nella sterminata e in fase di continuo accrescimento bibliografia pascoliana. Alludiamo a un saggio, uscito qualche mese fa da BookEditore di Bologna, che si presenta con un titolo e un sottotitolo minimizzanti in chiave di ironica sprezzatura: Micropascoliana. I dubbi interventi del maieutico fanciullino. Ci limitiamo, non volendo questa nota essere una introduzione o una recensione, a indicare quali sono i temi, familiari alla critica, su cui si concentra l'attenzione di Buzzi: Il fanciullino, massima esemplificazione – insieme a una lettura del canto di Leopardi Il sabato del villaggio – della poetica pascoliana; le parziali consonanze de Il fanciullino con un energico, a tratti violento testo leopardiano, configurante anch'esso – meno intenzionalmente – una poetica, che polemizza con il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica di Ludovico di Breme (personaggio eminente del Risorgimento italiano, uomo politico, letterato di grande talento e di vasta fama, animatore fra l'altro di un importante periodico, “Il conciliatore”, al quale collaborarono parecchi fra i più vivaci intellettuali dell'epoca).
Per Buzzi la poetica del Pascoli non è convincente. Gli sembra addirittura una superfetazione non necessaria e non utile alla comprensione della concreta poesia pascoliana. Gli elementi principali che vi compaiono sono: la poesia è nelle cose, talché ciò che il poeta deve fare è scoprirvela e farla emergere; ma parlando del poeta si parla, appunto, del fanciullino, un'entità che il poeta porta in sé (come peraltro tutti gli uomini, nei quali però, se poeti non diventano, resta allo stato potenziale), connotata da innocenza e semplicità quasi adamiche, che guarda costantemente alle cose come se fosse la prima volta che le vede, e alle cose dà i nomi, in tal modo essenziandole ed esistenziandole; è questo fanciullino che scopre nelle cose il quid che nessuno vi vede, ovvero la poesia, e maieuticamente la fa venire alla luce, la rende percepibile e fruibile dagli uomini; costoro, ospitanti – abbiamo detto – entità ‘fanciulliniche’ rimanenti allo stato potenziale, nelle cose non vedono il quid in cui consiste la poesia, riescono a vederlo solo se un membro della élite ospitante fanciullini attivi, e quindi poeti, glielo addita.
Buzzi, convinto che il fanciullino e la sua maieutica funzione siano affabulazioni nulla aventi a vedere con la poesia di Pascoli, crede però all'importanza delle cose in questa poesia, sia perché Pascoli è un instancabile penetrantissimo osservatore delle medesime, sia perché è lungi le mille miglia dall'anche minimamente gerarchizzarle (discorso mille volte ritornante nella critica pascoliana, che riguarda un indubbiamente rimarchevole e innovativo atteggiamento del Pascoli: il potenziale poetico dell'insalatina campestre non è inferiore a quello dei vegetali floreali più famosi e considerati più nobili).
L'interesse anche metodologico del saggio di Buzzi sta in un esame di singole poesie (senza nessun intento di antologizzazione) per metterne in luce pregi e difetti, per valutarne la carica simbolica di matrice fantastica e intellettuale (della capitale importanza dei simboli in ordine alla riuscita della poesia pascoliana Buzzi non dubita), ma anche e soprattutto per verificarvi la presenza e la funzione di quel fanciullino di cui la poetica di Pascoli ci parla. La verifica risulta ampiamente negativa. Il fanciullino è assente o, quando Pascoli si sforza di addurlo e di giovarsene, non è significativo e non se ne cava nulla.
In taluni casi Buzzi parla specificamente della presenza velleitaria, dell'assenza o dell'inoperatività ‘fanciullinica’. In altri la dà per scontabile nella sua evidenza, come nella bella poesia che riportiamo. Sempre comunque le sue letture sono vivaci, stimolanti e ricche di spunti nuovi.
* * *
L’asino (“Primi poemetti”)
“L’asino”
I
L’asino… Parmi adesso: era una sera
d’ottobre, nella strada di Sogliano.
Cigolava per l’erta la corriera.
E lo guardavo dietro me, nel piano,
dove San Mauro mio già non appare
- oh! mio nido di lodola tra il grano! –
dove tra il verde luccica, e tra chiare
brecce di ville borghi città, drago
addormentato dal cantar del mare,
la Marecchia argentina. E quando pago
fui della vista, mi rivolsi e, nero
come uno scoglio per un roseo lago,
nero sopra un trascololar leggiero
di tutto il cielo, come un’ombra netta,
nero e fermo lassù come un mistero,
l’asino vidi con la sua carretta.
II
Non altro? No. Da non so qual pendice
veniva un canto di vendemmiatore,
veniva un canto di vendemmiatrice:
veniva or sì, or no, tra lo stridore
delle ruote. Sentii queste parole:
- E m’hanno detto ch’è morto l’amore… -
Io, sole queste; ma non queste sole
l’asino che lassù stava, annerando
dentro il morire fulgido del sole.
Pur non vibrava, vidi, a quando a quando
l’orecchie della lunga ombra per quello
stornellamento così lungo e blando;
sì le volgeva appena a un ritornello
or chiaro come l’anelante piva,
or aspro come l’avido succhiello…
Su la carretta il carrettier dormiva.
III
Russava nella strada solitaria
Schiuma, lo scalzo e rauco pesciaiolo,
tuo figlio, o di marruche irta Bellaria.
Lo prese e vinse il vino di Bagnolo
nel suo ritorno; è l’altro, a poco a poco
per non più fare la sua via da solo
(senza il bastone!), si fermò tra il fuoco
del vespro. Dietro, delle ondanti gote
egli ascoltava il buffar grande e roco.
L’uno dormiva su le ceste vuote,
vidi passando: e l’asino, St! dorme!
parve accennare alle sonore ruote.
L’un su le ceste, e su le sue quattro orme
l’altro, non meno immobile del primo.
Soltanto l’ombra sua, lunga e deforme,
pasceva al greppo un vago odor di timo.
IV
E l’uomo, con la cara anima invasa
d’oblio, dormiva nella via amestra;
ma già la moglie l’attendeva in casa.
Fosse andato pur là dove è maestra
gente in far teglie, sotto cui bel bello
scoppietti il pungitopo e la ginestra;
a Montetiffi; o dove, a Montebello,
passero solitario, ancor per uso
torni nel solitario tuo castello;
già l’attendeva; e la capanna al Luso
più non udiva dell’industre moglie
il trememondo vortice del fuso;
c’hella destava il fuoco già, con foglie
secche, e stacciava, e poi metteva il piede
fuori, e le donne assise su le soglie
interrogava ad or ad or: Si vede?
V
Ma l’uomo era lassù, lungi dal mare,
sul monte azzurro; e nol sapea: pian piano
credea seguire il suo tranquillo andare.
Anzi, calava d’un buon passo al piano:
già balzellando si sentì di sotto
le tue selci sonanti, o Savignano.
Anzi, a Sa Mauro s’era già condotto;
e sentiva sonar l’Avemaria,
grave e soave, tra il fragor del trotto.
Anzi, alla Torre: e nella nera ombrìa
del parco udiva un ultimo fringuello,
mentre al galoppo egli svoltò la via.
Anzi, era giunto: urlava: Arri! Mio bello.
L’aria marina gli opungea la fronte,
e la rena legava: Arri!... Ma quello
era là fermo, su l’azzurro monte.
VI
Schiuma, la rena lega! Uomo, la rena
lega le ruote! Il po’ di via che resta,
si farà certo con un po’ di pena;
ma è l’ultimo! l’ultimo! Ma questa
è la mèta, è il riposo! Odi: col canto
delle mille onde il mare ti fa festa.
Avanti! Si va piano, ora; ma quanto
s’è corso prima! O Schiuma , ecco Bellaria!
Avanti! ecco la gioia, uomo! – Frattanto
l’asino è fermo, e l’uomo sogna. Svaria
quel gruppo nero sul purpureo cielo.
I pipistrelli sbalzano per l’aria.
Viene un suon di campane dietro un velo
di lontananza; e tutto si scolora.
Laggiù chiede una donna al mare anelo,
all’ombra muta: Non si vede amcora?
L’utilizzo in questa poesia da parte di Pascoli della sua esegesi della Comedia è evidente. Mi sembra che in questo caso si debba dare ragione a Perugi, al quale faccio riferimento e che uso sinteticamente e molto liberamente nella prima parte del mio modestissimo esame, senza citarne partitamente brani del dettato.
Il carrettiere pescivendolo Schiuma (Scciomma o più semplicemente Sciomma in dialetto) ha smarrito la via maestra, la diritta via, quella che mena alla beatitudine, ovvero alla contemplazione di Dio. È nella selva oscura (antitesi della foresta viva purgatoriale), nella selva cioè del peccato originale che il battesimo – morte ma rigenerante, morte che salva da quella morte che è il peccato – cancella, sì, ma non del tutto. Pascoli ce lo spiega ne La mirabile visione: «Il peccato originale è [Tomaso, Summa] languor naturae. Ora il battesimo toglie tal languore? […] no. Se il battesimo sanasse questa malattia e questo languore, con il peccato originale sarebbe abolito anche ogni specie di peccato attuale: poiché il peccato originale portò nel mondo la possibilità degli altri peccati, se quello non era, questa non sarebbe. Ora il battesimo toglie il primo e non toglie la seconda; toglie quindi la labe, non toglie il languore». Ciò che libera e illumina il volere umano è il battesimo, ma «anche dopo il battesimo la volontà umana in conseguenza dell’umana colpa, deve faticare per conservare, diciamo, quel lume e quella libertà, provando sempre difficoltà e ignoranza».
Nella selva oscura il pesciaiolo è come un parvolo, non d’età ma d’animo, è «l’anima semplicetta che sa nulla» di cui parla Marco Lombardo nel sedicesimo canto del “Purgatorio”, a cui è stato dato «lume a bene e a malizia, / e libero voler». Ma il libero volere dev’essere «notricato», l’anima semplicetta ha bisogno di guida e freno, di un lume e di un volere altrui che l’aiutino a non disviare o a rimettersi sulla retta via se disviato ha. È ciò che necessiterebbe anche a Schiuma, né vivo né morto, dormiente nella selva oscura. È spento in lui l’amore per la sapienza. Meglio non sta l’asino, simbolo dell’appetito vegetativo e sensitivo, che è fermo, privo della prudenza che lo guidi (nella fattispecie il bastone). Il sonno del carrettiere è ripiombare nella notte dei sensi, il suo sogno è excessus mentis (l’excessus nella Rachele di “digitale purpurea” corrisponde alla gustazione del fiore di morte, qui a generosa libagione di vino di Bagnolo). Il pescivendolo si vede nel sogno giunto alla mèta (di beatitudine sapienza amore – a Bellaria, dove abita) per percorso abbreviato. Non è scorciatoia trascurabile: egli insomma riduce il tempo del servaggio a Laban, pretendendo di sposare Rachele prima di Lia, il che equivale a credere che si possano intendere le cose vere prima di operare le giuste. Non potrà, il simpatico Schiuma, risparmiarsi il cammino lungo e faticoso. Dovrà sfangarsela, la strada: innanzitutto mortificare, come Giacobbe presso Laban, con sette anni di servaggio i sette peccati capitali (quelli puniti nell’Inferno ed espiati nel Purgatorio) per ottenere perfezione di vita attiva allegorizzata in Lia (nella Comedia Lia/Matelda); servendo poi altri sette anni otterrà perfezione di vita contemplativa allegorizzata in Rachele (nella Comedia Bratrice). Al termine della prima tranche del viaggio – ch’egli spera, appunto, di scorciare – Lia lo attende, in persona mulieris suae, ansosiosamente mettendo ogni tanto fuori di casa il piede (simbolo della vita attiva: il piè fermo di Dante, il piede zoppo di Giacobbe, il piede debole del veglio di Creta).
Lo stesso travaglio del pesciaiolo Pascoli vede per sé – carrettiere e ciuco a un tempo, accidioso, mancante di possa e virtù, inetto al camminare (non solo per il verace difetto a un dito del piede che tanto lo angustiava, lo faceva tribolare con le scarpe e gli complicava la deambulazione) e al vivere.
Trovo molto bella questa poesia, che a mio avviso meriterebbe grande attenzione e privilegiata collocazione nelle future antologie pascoliane (ne sono già uscite parecchie e altre certamente ne usciranno). Perché mi piace? Non solo perché, come in tutti i suoi componimenti più riusciti, Pascoli vi parla, con lieve mascheratura, di sé, ma perché i dati che non direi (sarebbe un dire sciocco e arrogante) negativi, ma problematici della sua personalità sono trattati con sorprendente tersità e con fresca ironia. L’ironia, come ho ripetutamente detto altrove, non è proprio fra le qualità eminenti del nostro poeta, anzi si segnala per scarsissima presenza. Qui c’è garbata e aggraziata, in misura sufficiente per farci quindi dimenticare lo sfibrante vittimista e piagnone, lo strenuo giustificatore di se stesso, il cerebralmente incestuoso assiduo costruttore di castelli nidici a copertura della sua nevrotica ingorgata dirottata sessualità, il finto buono intriso di rancori e di invidie, il finto umile roso da brame di successo gloria e persino “onor del mondo”. Pascoli è capace di sorprendere, e quando lo fa è un megasorprenditore che sbaraglia (li ha sempre sbaragliati – per sua fortuna e disgrazia – i suoi lettori e critici, compresi quelli incomparabilmente più agguerriti del sottoscritto, sgusciando dalla stretta delle loro mani e offrendo di sé facce sempre nuove, spesso provocatoriamente e sanamente ambigue).
A fronte di una poesia come questa vien da dire che “non c’è niente da dire”. Il che è duro, più che per il lettore comune per il critico. È difficile il riconoscimento di una necessaria adesione. Le opere più gradite e più confortanti dei poeti sono spessissimo quelle che lasciano un margine alla disapprovazione, che suscitano magari un po’ di dispetto e per qualche aspetto deludono. C’è un consenso di insoddisfazione come c’è una delusione da soddisfazione. L’arrosto più gratificante per il commensale non è quello perfetto, ma quello offrente qual tanto di manchevolezze che consente di commentarlo mischiando riserve a elogi. Qui Pascoli convince, silenzia e irrita perché convince, perché mostra una capacità d’essere (non sempre) qualche metro avanti del suo inseguitore e interlocutore, perché dà l’impressione di alzare inopinatamente l’asticciola del salto necessario per raggiungerlo.
“L’asino” è un componimento controllatissimo, privo di eccessi, con l’ironia che funziona da efficiente legante. I colori, il loro svariare, i loro accostamenti non lasciano a desiderare. La musica – e il ritmo – ha momenti più e meno intensi ma mai bruschezze, lascia solo sospettare il suo costo di fatica. Nemmeno qui Pascoli arriva alla tragicità che strappa le viscere: egli non è un grande tragico, gli manca intensità metafisica per esserlo. Siamo, sì, a una dimensione tragica ma modesta (tale è lo sviamento che allontana la mèta della contemplazione, per così dire, del faccia a faccia con Dio). La tragedia - non certo di altezza eschilea o shakespeariana – si giova dell’allegoria e, aspetto interessante, dell’ironia che la sussume e rendendola in qualche modo scontata ne consente una comunicazione rigorosa e composta, liberandola dal pericolo dell’oratoria (molte delle composizioni pascoliane che puntano alla tragicità sono, oltre che azzoppate da insufficiente tensione metafisica, insidiate dall’oratoria). Colpiscono la levità e la discrezione di un testo di cui la musica evita ogni slancio sinfoniale, ogni virtuosismo canoro e si stacca solo quel tanto che basti dalla prosa intesa come aria di asciuttezza e precisione (la musica comunque è un continuum senza pause di riposo e senza episodi assimilabili a recitativi). Non mancano ovviamente nèi e stonature, di cui mi limito a citare, per una sorta di, se si vuole assurda, doverosità critica, alcuni esempi: il «Parmi adesso», v.1; il «di tutto», v.14; il «come un mistero», v.15 (perché il mistero deve essere nero e fermo? Può essere candido, splendente, vertiginosamente mobile, e che bisogno c’è di esplicitare – didascalicamente – il motivo coglibilissimo della poesia?); tutto il verso 1 di II; il «ondanti gote» di II,8 (troppo marchiano ricordo delle lanose gote del Caronte dantesco); il «buffar grande e roco» di II,9 (caricatura eccessiva); il «sonore ruote» di II,12 (aggettivo di noisa banalità); il «cara anima» di IV,1 (stucchevole omerismo: con gli stilemi omerici Pascoli esagera); il «fremebondo vortice» di IV,12 (eccesso facilone); il «sonanti» di V,6 (aggettivo trito nella sua associazione a pavimentazioni di qualsiasi genere); il «grave e soave» di V,9 (la paronomasia non rende meno fastidiosa la dolciastra aggettivazione); il «mille» di VI,6 (precisazione numerica ovvia e piatta); il «suon di campane» di VI,13, aggravato dal banalissimo «velo di lontananza» (bisogna dirlo senza ambagi: la campanomania del Pascoli a un certo punto riesce più che stucchevole disturbante: troppo spietato adduttore egli è di operosità sacristica – erano di norma i sagrestani o sacristi a tirare le corde delle campane-, anche se tende a presentarci il suono campanaro come voce dell’aria, quasi non bisognosa di azionamento manuale o meccanico dei bronzi, un po’ come la voce uccellina). Si tratta comunque di nèi, che non pregiudicano l’insieme e si direbbero imputabili a una pigra abitudine di attingere a un patrimonio lessicale e stlematico non amplissimo.
Il linguaggio e lo stile non presentano differenze sostanziali da quelli di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (e lasciamo perdere le date e le priorità, sapendo come sappiamo che Pascoli lavorava contemporaneamente a componimenti sistemati poi in raccolte che avrebbero dovuto avere caratteristiche diverse, e in tali raccolte disposte a posteriori in un certo ordine mirante a organicità di discorso). Non posso però non citare l’interessantissimo saggio di Giuseppe Leonelli (‘L’asino’ del Pascoli.Storia di un poemetto), in “Paragone/Letteratura”, ottobre 1987) che, a sua volta avvalendosi di un egregio studio di Maria Serena Ricci Peterlin (Intorno a un testo dei ‘Poemetti’ pascoliani, in “Studi e problemi di critica testuale”, n.7, 1973), condotto sulle carte dell’inesauribile archivio del Pascoli, fa la storia, appunto, del componimento in questione, risultante già in cantiere nel 1886/87 (una chiara testimonianza si trova nel citato testo di Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli: Maria racconta di un viaggio a scopo consolatorio e distraente, in quel periodo, con Giovanni, a Sogliano, a fare visita a zia Rita; durante il ritorno «ad un tratto il vetturino, piegando molto sul cilio della strada, disse: “Bon viazz Scciomma!” […]. Un carretto attaccato a un asino era fermo in mezzo alla via […] Questa visione creò il poemetto L’asino che il martoriato poeta non poté far subito, sebbene lo cominciasse. Vide la luce parecchi anni dopo».
Non è qui il caso di seguire la lunga elaborazione della poesia, pubblicata in capo a un decennio ne “La vita italiana” nel 1897 ed entrata poi nei Poemetti nel 1900. Merita solo di notare la differenza fra la penultima versione articolata in sette sezioni, di cui la sesta sarebbe sparita, e l’ultima. E meno male, visto il suo piglio oratoriale e trombonesco. Vi si trovano terzine di questa fatta: «Uomo, sogna ne l’ombra! Uomo, va, vola / naviga il cielo! Il tuo pensier ha l’ale, / e suo vivo alitare è la parola»; «Oh! Come romba il tuo voler possente / sopra le intatte cime! Avanti, avanti! / È in vista il buono e il placido oriente».
Niente più di questa paccottiglia superomistica nella redenzione finale (la navigazione del cielo, il pensiero alato, il volere possente e rombante sopra le intatte cime, ecc.). Il discorso riguarda pur sempre l’umanità, ma vista nella concretezza di un suo modestissimo rappresentante, un pescivendolo russante su un carretto trainato non da un cavallo (sia pure, magari, ronzino) ma da un sobrio e umile somaro (umile sì ma salvatore, non dimentichiamolo – insieme al porco, agli ovini e ai caprini – della civiltà mediterranea, nella quale bestie di maggior pregio erano roba solo da ricchi). Quanto alla gioia che attende Schiuma, è una modesta casa a Bellaria e una moglie popolana. Con tutto ciò la sua vicenda è parente povera (giusto il richiamo di Leonelli) di quella dell’”Alexandros” dei Poemi conviviali, la cui mèta smodatamente, anzi mattamente ambiziosa rivela, una volta raggiunta, la sua vanità inducendo l’interessato a chiedersi se non sarebbe stato meglio «ristare, non guardare oltre, sognare». Non c’è naturalmente ad attendere Alexandros una moglie del popolo, ma una madre nobile e ambiziosissima, e sorelle filanti la «vermiglia lana», ma nobili anch’esse con contorno di sollecite ancelle.
Alla calata della vicenda da un contesto aulico a uno popolare corrisponde uno sliricizzarsi del dettato che si situa al di sopra – ma non troppo – della prosa, più rispondente alle esigenze di una narrazione. Questo non significa che i modi del Pascoli siano qui cambiati: sono gli stessi, e lo strumentario è il solito, di accorgimenti e figure retoriche (chiasmi, giochi con segmenti fonici, allitterazioni, assonanze, enjambements, anafore, iterazioni, antitesi). Le allusioni simboliche e i sovrasensi allegorici sono continui, chiari essendo il valore emblematico di Schiuma (la sorte dell’uomo, vanamente andante nel sogno); l’asino (l’anima platonicamente e agostinianamente immobile); la terra («rena») che «lega», impaccia; il posizionamento della gioia, che si situa in una luce successiva al tramonto del sole, quindi altra dalla piena luce solare. Ci sono momenti in cui il simbolismo e l’allegorismo sono un po’ più velati, per esempio nel richiamo di uno stornello tratto dalla raccolta di Gianandrea: «M’è stato ditto, che l’Amore è morto. / Vo’ maledir le nôve, e chi le porta; / M’è ditto ch’è morto l’Amore, / Vo’ maledir le nôve e’l portatore» (la morte dell’amore adombrando verosimilmente quella del Cristo: Nadia Ebani ricorda opportunamente un’agenda di Pascoli che in una pagina reca un disegno del poeta che raffigura un orante dinnanzi a un crocefisso con una testa asinina).
Il virtuosismo pascoliano sembra tuttavia qui meno ostentativo e meno artificioso che in Myricae e in Canti di Castelvecchio: paradossalmente verrebbe da parlare di un virtuosismo di naturalezza. Penso alle immagini dominanti dell’asino «nero / come uno scoglio per un roseo lago, // nero sopra un trascolorar leggero / di tutto il cielo, come un’ombra netta, / nero e fermo lassù come un mistero», e ancora de «l’asino che lassù stava annerando / dentro il morire fulgido del sole», con la sua ombra che «lunga e deforme, / pasceva al greppo un vago odor di timo», per finire con «l’asino è fermo, e l’uomo sogna. Svaria / quel gruppo nero sul purpureo cielo. / I pipistrelli sbalzano per l’aria» (stupendo questo sbalzare per l’aria dei pipistrelli).
La musica è discreta, altalenante, con frasi protratte fino a togliere il respiro (ce ne sono che durano un’intera strofa) e clausole realmente concludenti. Ci sono momenti che fanno venire in mente la dissimulata arduità di certi brani di Mozart, la speciosa semplicità che pone a durissimo cimento gli esecutori. La si coglie bene, questa arduità mascherata, nella prima strofe, che comincia con una terzina (le terzine sono dantesche) atta a dare al lettore – vediamolo qui in veste di esecutore, magari pianistico – fiducia, a rassicurarlo. Il percorso si fa però mozzafiato e trappoloso, con quelle notazioni apparentemente parentetiche, quei periodi franti e però fusi, che procedono per arricchimenti precisatori continui, tutti da tenere alla stessa altezza tonale perché egualmente pertinenti, nessuno smorzabile e nessuno che consenta uno sforamento in acuto (questa non organizzabilità in variazione dello sforzo, questa costrizione a tenerlo uguale è un trabocchetto per l’esecutore, che rischia grosso se sbaglia anche di poco a valutarne la durata, e peggio se pensa di potersela comunque cavare con la sottolineatura di qualche elemento, magari con un aumento qua e là della tensione che potrebbe serivre al riposo). Le calate e le salite di intensità (molto tentanti) farebbero perdere alla poesia il carattere allucinato e allucinatorio che è aspetto essenziale del suo fascino.
Ma c’è anche in questo componimento qualcos’altro che non è troppo difficile da cogliere: un porre da parte di Pascoli il piede nell’area, che non gli è troppo congeniale anche se ne batte continuamente i dintorni, della non speranza. Il vino di Bagnolo è il segno del limite posto all’uomo, è figura della sua irrimediabile fralezza. Segna l’al di qua della conoscenza e l’impermeabilità del mistero, nonché l’appenante condizione umana – castigo? Condanna? Insufficienza agostiniana e dantesca del battesimo che cancella, sì, il peccato originale ma non la possibilità di un peccaminoso dopo-? Quale dolore può esserci maggiore della non conoscenza? Più terribile del male (e del suo essere necessario al e necessitato dal, inverante il e inverato dal bene) è l’irresistibile spinta a conoscere ciò che conoscere non si può, le sue radici e il suo significato. Siamo nella sfera dell’appasionante e tormentoso discorso biblico del Qohélet.
La disperazione implica e suppone la speranza. La non speranza è altro dall’una e dall’altra, è limite che connota il cercatore, la sua costrittoria tensione a penetrare il mistero sancito come impenetrabile. In essa fede è assenza di fede, utopismo e realismo, esasperazione e assenza di brama, percezione di un vuoto e bisogno di riempirlo, avvertenza di una ciclicità che si risolve e fissità convivono.
Pascoli, non c’è da dubitarne, si ritiene un accidioso, un ignavo e un mancante di coraggio. Ma ciò che, al di là della simpatia per la sua dolorosa condizione umana, in quanto lettori ci interessa è formulare ipotesi su come egli usi il suo avvertirsi e pensarsi portatore di tali debolezze per fare poesia. Le Lie, le Racheli, le Beatrici gli servono all’elaborazione di un discorso che si configura come tentativo di risolvere in chiave mistica un disagio viscerale e mentale che si traduce in sofferenza di tutta la persona. Questo è il suo incessante travaglio e il tema intorno al quale egli si aggira continuamente (forse, d’altronde, è il tema diversamente atteggiantesi e affrontato con varia consapevolezza, sul quale si affaticano tutti i poeti che meritano questo nome). Si pone già chiarissimamente in Myricae. Altro non è, in fondo, se non prima proposizione del tema quella cocciuta adduzione di gesti creaturali elementari banali indecifrabili, di ermetiche (oracolari secondo una felicissima e irrecusabile definizione di Bàrberi Squarotti) voci uccelline, di paesaggi i cui colori (fra i quali primeggiano l’azzurro e il rosso in tutte le possibili gradazioni) strapiombano o si ergono in oro e in nero. E poi c’è quel colore che non è colore perché assemblaggio e concentrazione di tutti i possibili cori, esasperazione di vitalismo in colorismo ma contemporaneamente segnacolo mortuario, colore di foglie secche e/o marcescenti. Segnacolo mortuario che la presenza più che memorica, quasi carnalmente sentita dei defunti rende più, alla fine, invadente, fino alla sopraffattorietà, La consapevolezza e l’attrattiva del mistero – arricchiti a un certo punto dall’intuizione della sua consistenza ambigua e contraddittoria – crescono in paura venata di sconforto, Pascoli si trova a mal partito sul pelago e cerca una ciambella di salvataggio. Gli se ne offre una, Dante, ch’egli afferra e non molla più. Questa ciambella è per lui l’offerta di un aiuto a penetrare il mistero (a intrare nel «miro gurge», dell’abisso): ma perché sia d’aiuto la Comedia deve essere tutta trasferita sui piani di una telogia mistica e di un inesausto allegorismo.
Oggetto, cosa primaria del componimento di cui sto occupandomi è effettivamente l’asino, elemento essenziale per la costruzione dell’allegoria e simbolo molto energico, dimostrazione anch’esso che la riuscita delle poesie pascoliane è tanto maggiore quanto più intensa è la carica simbolica delle entità materiche che vi compaiono. Schiuma ha anch’esso un ruolo protagonistico, ma innescato e prendente corpo da quello del ciuco. Pascoli sottolinea la natura e il ruolo umili della cosa ciuco, già ben presente nella tradizione classica: e basta citare la sua capitale e complessa funzione nel multifavolistico Metamorphoseon (o agostinianamente Asino Aureus) di Apuleio.
All’importanza, in ordine alla riuscita poetica dei testi pascoliani, della carica simbolica attribuita alle cose, sia nuove sia risemanticizzate rispetto alla tradizione classica, si unisce quella della strumentalizzazione delle cose stesse e della valenza simbolica a esse attribuita da parte di Pascoli per parlare di sé. Qui sta anche il limite del nostro amabilissimo facitore di carmi. Che non è certo il piccolo grande poeta di cui parlava Croce, ma un sicuramente grande poeta, la cui grandezza è però compromessa dalla scarsa capacità o notevole difficoltà di uscire dalla sfera del privato (il che non significa ch’egli non si sia sforzato di farlo, e che anzi a partire da un certo momento – difficile da indicare con precisione, ma palese nei testi – questa fosse una somma ambizione). Grande poeta dico, ritenendolo in tutta convinzione appartenente al drappello di quelli la cui frequentazione è “necessaria”, magistrale, illuminante, vitalizzante e consolatoria, ma rassegnandomi malvolentieri all’uso di un aggettivo di cui si fa oggigiorno spreco per qualificare autori di versi che – pur non confondibili con gli amanti la poesia di un amore non ricambiato - meriterebbero semmai solo il titolo onorevolissimo di interessanti. Il problema della gerarchizzazione dei poeti (di coloro che meritano il nome, cioè che si situano al di sopra della linea che separa la poesia dalla non poesia – ma il discorso vale per tutti gli artisti-) esiste d’altronde da sempre, disturbante, insopprimibile e irrisolvibile: risponde, non cè da dubitarne, a una umana esigenza che tocca tutte le attività.
Scontata la grandezza, collocato cioè Pascoli nella sfera della magnitudo, mi azzarderò a precisare che si tratta di magnitudo, non di massimità. Perché? Per dirla in estrema sintesi, perché è troppo curante di e troppo occupato a fare i conti con se stesso. Gioisce (raramente), patisce, spera non spera, dispera, ambisce per sé cioè pensa agisce in termini eminentemente privatistici. Ciò vale, mi preme sottolinearlo, per le grosse questioni, per i megaproblemi (il male e il bene, la vita e la morte, il destino dell’uomo e quello dell’universo) – i due ultimi affrontati in quella che mi sembra una fra le più ambiziose e meno riuscite composizioni del suo canzoniere, “Il ciocco”). Non vale per problemi come la solitudine (v.”Lavandare”), o per quello elementare della ciclicità (il succedersi delle stagioni, la ripetitività dei fenomeni). Si direbbe che gli interrogativi più squassanti e più tormentosi dell’uomo in genere, non di quel singolo rappresentante dell’umanità ch’egli è, non lo concernano veramente o non sollecitino il suo più radicale impegno, benché egli faccia di tutto per far credere a se stesso e a noi il contrario, con le sue dichiarazioni d’intenti e con i testi poetici a partire grosso modo da quelli improntati da velleità epiche, facenti parte dell’articolato romanzo epico/contadino/garfagnino. I momenti che rompono felicemente questo percorso e questi intenti non mancano: “L’asino” ne è uno, le poesie che raccontano la vicenda d’amore di Rigo e Rosa ne sono un altro, e parecchi potremmo aggiungerne. Ma l’incapacità di Pascoli – frutto della sua nevrosi – di superare il proprio solipsismo non viene meno. Non riesco ad essere d’accordo con l’affermazione di Contini, che nella produzione pascoliana manca l’uomo, e dunque la storia. Di uomni pullula l’opera del nostro autore, ma l’attenzione ch’egli rivolge a essi è speciosa, troppo indaffarato com’è a occuparsi del proprio io, e a rivivere in chiave esplicativa e giustificativa non la storia, ma la propria storia.
Se poi gli uomini dei suoi testi sono persone del mondo antico (greco e romano, perché questi sono i mondi da lui carreggiati e assiduamente frequentati, e di cui padroneggia le lingue al punto di riesistenziarle addirittura innovandole, andando quindi molto al di là di una strepitosa attitudine mimetica), data l’impossibilità di oltre un certo limite entrare nelle loro menti e nei loro cuori, e di capire il contesto spirituale e materiale in cui vivono e da cui sono condizionati, due cose possono accadere, compromettenti entrambe il risultato artistico: che troppo, cioè con eccessiva disinvoltura sfiorante, se non la presunzione, la baldanza e l’indiscrezione, egli presti loro i suoi valori, i suoi connotati spirituali, mentali, viscerali, la sua filosofia e persino la sua telogia; che gli manchino la consapevolezza della necessità di reinventare radicalmente, e la forza di farlo, quelle persone e nel senso più ampio della parola il loro contesto vitale, rinunciando a insoddisfacibili fedeltà e verosimiglianze. È chiaro che i rischi diminuiscono quanto meno sottili e quanto più elementari, temporalmente e spazialmente non mutevoli sono i problemi, i valori e i sentimenti in gioco: per intenderci, i rischi che corre un manufatto come “Solon” sono di gran lunga maggiori di quelli che corre “Alexandros”. Osservazioni e riserve di questo genere non dovrebbero essere vissute – rischiano fortemente di esserlo da parte dei fanatici esaltatori di Pascoli – come scandalose e dissacranti (al di là della loro grande e ovvia contestabilità). A me sembra possibile farne proclamandomi al tempo stesso in vari modi intellettualmente e sentimentalmente sedotto (divertito, commosso, eccitato, attristato) da componimenti quali “Catullocalvos” e “Thallusa”, “Alexanfros” appunto, e “L’etèra”.
Ma non sono solo queste le questioni che solleva il volgersi di Pascoli all’antichità, e qualcosa aggiungerò nella conclusione del mio discorso.
Riferendomi sempre all’elemento proposto da Contini, penso che uno dei più grandi innamorati di Leopardi e dei più accesi – amichevolmente e ostilmente – frequentatori delle sue poetiche, Pascoli, ne sia, non solo sotto i profili dei modi stilistici e del linguaggio, ma sotto quello dell’interesee per gli uomini, diversissimo, quasi perfetta antitesi. Apparentemente più privatistico, più egocentrico ed egoistico,
più recluso nel suo rovello il recanatese (Pascoli gli imputa – anche ai grandi è lecito dire qualche sciocchezzuola senza scapitarne la grandezza – di avere patito insufficientemente); in realtà Leopoardi è più angosciato dal e sollecito dell’universo e degli umani, più consapevole della e assillato dalla tragedia degli abitatori del frammento di stella che ci ospita, e a essi più compagnevole, più coscientemente, coraggiosamente, continuativamente teso all’affronto del mistero, più tetragonamente puntante a una conoscenza saputa impossibile e crudo (nei propri confronti) testimone della “sconfitta annunciata”. Leopardi riesce a parlare energicamente d’uomini parlando di sé, sentendo sé e gli altri sodali nella tragedia dell’universo. Pascoli parla di sé anche quando parla d’uomini, perché alla propria più che all’altrui condizione tragica e sensibile, di essa eminentemente è conscio e gli importa. È un suo limite, che non possiamo che accettare. Di conseguenza non stupisce ch’egli sia tanto più convincente e commovente quanto di sé parla più direttamente, decisamente e distesamente, privilegiando i propri problemi e la propria pena esistenziale (più efficacemente se dietro il velo del simbolo e dell’allegoria, sempre incerto ed esile, è in lui pressoché inesistente e le due figure del discorso sinergizzano).
Forse Pascoli era in potenza più di ciò che gli riuscì d’essere in atto. Viene a volte di sospettarlo leggendo certi suoi testi che sembrano, nella loro stessa nevrotica ansia, contenere tutto il necessario per uno slancio “oltre”, per una fuoriuscità da sé, per una più audace (fino alla spericolatezza e alla temerarietà) e assidua frequentazione degli immediati dintorni dell’abisso ospitante la verità che è sommità di ambiguità e contraddizione, e che l’una e l’altra compone in qualcosa che nessun mortale saprà mai. Quella fuoriuscita non avviene, la potenza di Pascoli non si spotenzia attuandosi per ricrearsi, e anche la potenza che la poesia pascoliana trasmette al lettore soffre di una non situazione, di una provocazione delusa. Tutto si consuma entro un cerchio dalla circonferenza infrangibile. Ma che mirabile consumazione e che mirabile testimonianza di singola vicenda umana! Di un “sogno di una cosa” che è oltre e più di tutte le cose, presente in tutte le cose e tutte le cose inglobante. Il magistero di Pascoli – che non si esaurirà mai – sta più nella proposizione di una vicenda umana e poetica parzialmente e dolorosamente fallimentare, che nell’avere fornito materiali e strumenti a successivi artisti, il cui valido uso di Pascoli si rivela nel loro essere (Debenedetti ha chiarito una volta per tutte la differenza) non pascoliani ma postpascoliani. Chi ha ancora bisogno e voglia di precisare o di negare il debito che i poeti venuti dopo hanno nei confronti di Pascoli non può ormai non meritarsi il titolo di perdigiorno storico e critico.
Ma torniamo brevemente a “L’asino”, a questa favola di cui ogni elemento ruota intorno al suo narratore, anzi fa corpo con lui. Favola che si svolge in un paesaggio la cui cifra ci è nota, perché la troviamo (prescindendo da inessenziali dettagli) in tutti i componimenti pascoliani. Non mancano i cartelli indicatori, uno dei quali (diamine, poteva mancare?) punta al nido. Che cosa fanno Schiuma e il somaro ci è chiaramente detto. Schiuma è fermo e sogna di muoversi, il somaro è fermo e con somarica concretezza e saggezza (banali) adduce come spiegazione la bloccanza della rena. Il pesciaiolico asinino narratore – somma di volontà e impotenza – sale sulla cigolante corriera l’erta, sulla quale ci pare di vedere le tre impaurenti e stoppanti fiere della Comedia. Certo è sviato in debolezza il narratore pesciaiolico, ed è vilmente autogiustificatorio in pseudoconcretezza e saggezza il narratore ciuchico, tutto sommato inetto a muovere a qualcosa che è altro da un nido, al pacificante mare della volontà divina di cui parla Piccarda nel dantesco “Paradiso” («E‘n la sua volontade è nostra pace: / ell’è quel mare al qual tutto si muove / ciò ch’ella crïa o che natura face», III, 85-87). Mare che qui è un lago in blandizie di colore rosa sotto smorente luce solare, ma blandizie nullificata dal nero asinino assimilato al nero di scoglio e rappresentante, non di per sé ma nella sua alterità dalla convivenza con il luminato colore, il mistero. È al mistero che la tensione dovrebbe essere volta, ma la gioia che l’uomo sogna non è il mare della volontà divina, è una realtà terrena, la tensione è volta a qualcosa che con il mistero ha poco a vedere. E pare che l’asino, non sognatore, vegliante, con la sua immobilità se ne mostri consapevole e denunci una rinunzia.
C’è qualcosa di divertente e irridente in questo asinino gettare la spugna, e vestendo (anche) la pelle dell’asino Pascoli fa proprio il gettamento e irride se stesso. Vestendo (anche) i panni di Schiuma sembra insinuare che forse il vino di Bagnolo è qualcosa di cui ci si può contentare. Siamo quasi a un Qohélet privato della componente cupa, della sua severa a-consolatorietà a-alogicità a-speranzicità. Siamo a una indulgenza di Pascoli nei propri confronti, a una accettazione della propria insufficienza. Di solito la constatazione - o il forte sospetto d’essere impari al perseguimento e alla decifrazione del mistero gli provoca una sofferenza acuta, una sorta di fondo tremore, a lenire la quale e il quale non riesce se non a ritirare in ballo il ciò che di stroncatorio della possibilità di crescere è accaduto nella sua vita, la sequela delle sciagure famigliari iniziata con la morte del padre. Pascoli è un irrefrenabile accusatore di se stesso, un laboriosissimo spargitore di cenere sul proprio capo, e al tempo stesso un fervido autogiustificatore. Qui riesce – è quasi un miracolo – a sorridere dell’autoaccusa e a sorridentemente rinunziare a giustificarsi.
È un sorriso precario, episodico, ma qualcosa di diverso e di più di quello che accompagna i suoi vagabondaggi nel mondo uccellino: l’evidenza della possibilità di una almeno parziale vittoria (che non ci sarà) sulla sua nevrosi o perlomeno di una maggiore capacità di gestire la medesima. Avrebbe giovato, questa capacità, alla sua poesia, che sostanziata di nevrosi ci si offre? Non è per nulla sicuro.
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A guisa di stringata conclusione
Non lo ha detto solo Renato Serra, ripreso poi generosamente, che la poesia di Pascoli è nelle cose. Lo ha detto con energia lo stesso Pascoli, nei due accalorati saggi raccolti in Pensieri e discorsi , “Il fanciullino” e “Il sabato”, stranoti ai frequentatori del nostro autore. Talché tornarci sopra a questo punto dopo quanto ne ho detto sarebbe solo infliggimento di noia.
Non credo di aver commesso un arbitrio parlando di ‘cosismo’ pascoliano. Mi si potrà rimproverare d’essermi valso di un neologismo infelice e io accetterò remissivamente il rimprovero, sia pure non promettendo di non amplius peccare.
Che cosa comunque ho tentato di fare, restringendo la mia attenzione a un aspetto o probabilmente miniaspetto della immane problematica concernente Pascoli, affrontata validamente e fascinosamente da mille studiosi e da mille angolature, nell’insieme e nei particolari? Ho tentato di esaminare alcuni prevalenti nodi di Pascoli di trattare le cose traendone poesia. Ho concentrato l’attenzione sulle cose umili, su quelle cioè meno presenti nella tradizione poetica aulica del nostro paese o da essa assenti (il termine assenti è azzardoso e probabilmente eccessivo): perché l’estensione di cittadinanza poetica alle cose umili connota fortemente il lavoro pascoliano. La mia conclusione, implicita in quanto sopra detto, è che la poeticità della cosa pascoliana è direttamente proporzionale alla sua intensità e originalità simbolica.
Sul carattere simbolistico della poesia di Pascoli non mi sembra ci siano grandi dissensi.
Ho tratto i miei esempi (mi sono parsi offrire una varietà sufficiente) dalla produzione che ritengo nell’insieme più valida e avvincente, quella italiana fino ai Canti di Castelvecchio compresi. Quella di altre raccolte (per le ragioni già addotte non offrono il problema, reso da Pascoli frustrante, delle date di composizione dei singoli componimenti) mi sembra soffrire: in parte di pretese – epiche, vatiche, aediche, sociopolitiche, costumistiche, metafisiche, religiose, gnomiche, e chi più ne ha ne metta – non consonanti con la personalità di Pascoli e comportanti un frequente trasferimento del discorso poetico su un piano oratoriale, non necessariamente distruttivo ma pericolosetto, in parte di una complessa operazione di riappropriazione – previa procurata reviviscenza – dell’antichità. Di questa operazione, in atto con varia e moderata intensità in tutta l’opera pascoliana, con grande intensità ed evidenza nei Carmina, nei Poemi conviviali e nelle Canzoni di re Enzio, mi illudo di aver capito l’intento e il senso. È il tentativo di un ritorno a una condizione di armonioso rapporto fra l’uomo e il mondo, a un prima della conoscenza razionale e scientifica dell’universo, a un tempo della conoscenza intuitiva, della ricchezza e del dominio della fantasia. Questo tentativo ne vuole un altro: la ricostituzione – sostitutiva di un impossibile ritrovamento – mediante lo studium (altro modo non c’è) della «lingua che più non si sa», la lingua rondinina o di gitane, metafora della lingua poetica del fanciullo delle origini, dell’Adamo che mette il nome alle cose. L’operazione a mio avviso nel complesso non riesce per due elementari ragiono: proprio l’accettazione dell’ipotesi mitica di un’età primeva, di un uomo fanciullo adamistico, di un dominio della fantasia e dell’intuito, di una lingua non poetica ma poesia tout court (uno stare cioè al gioco di Pascoli) obbliga a riconoscere che l’antichità nell’ambito della quale si situa il suo discorso non ha nulla di quell’età albare o aurorale della storia della terra e dell’uomo, è un’antichità speciosamente e fragrantemente coincidente con un ieri e con un tutto avvenuto in termini di dominio della ragione; i modi del tentativo di Pascoli sono sfrenatamente e radicalmente astratti e intellettualistici, Ora, la poesia vuole l’intervento dell’intelletto – e molto se ne giova, tanto più quanto è grande poesia -, ma non la sua dominanza: sicché le riuscite poetiche, alcune ragguardevoli, in questa parte della produzione pascoliana nei confronti della quale esprimo, non credo temerarie riserve, si devono, mi sembra, a un episodico rompersi del radicalismo intellettualistico.
Queste mie aggredibilissime opinioni non sono significative e influenti, né in negativo né in positivo, in ordine al discorso di questo saggio. Conviene piuttosto chiedersi se ho, con il medesimo, sfondato porte o addirittura portoni aperti. Può darsi, e se così fosse non ne sarei né turbato né afflitto. Ma è anche possibile che mi sia riuscito di indicare, se non una strada maestra, un nuovo viottolo conducente alla constatazione variamente motivata di un connotato essenziale della poesia pascoliana.