Fausta Squatriti
Dal concetto di avanguardia
all’arte multimediale

 

A proposito del libro di Claudio Cerritelli “Critica in dialogo, dal concetto di avanguardia all’arte multimediale” edizione Mazzotta

            Più che interviste io definirei conversazioni, quelle contenute nel libro di Cerritelli, mirate alla raccolta di opinioni di alto livello teorico, e l’autore ha avuto la pazienza, specialmente  nei testi provocati e raccolti alla fine degli anni ’70, di porre ai suoi interlocutori quasi sempre le stesse domande.

            Domande che erano, in quegli anni, davvero cruciali, mentre oggi forse non lo sarebbero più, anche se siamo sempre, almeno io lo sono, innamorati dell’avanguardia, anche ossessionati.
Ma l’avanguardia, movimento del pensiero creativo che si viene a creare all’unisono nelle diverse arti, e che diventa la punta avanzata del valore di un’epoca, si crea quando vuole lei, e negli anni successivi, quando l’avanguardia, breve per sua stessa definizione perché non si può stare, lancia in resta, perennemente sulle barricate, si riposa nella accettazione delle proprie istanze che diventano, malgrado fossero eversive, perfino moderate,  vive di rendita, rielabora le conquiste declinandole, manieristicamente, fino al loro esaurimento.

            Il termine - avanguardia- è di tipo militare, uno sguardo in avanti, per scrutare, in questo caso non il nemico, ma la brezza del nuovo che avanza, essendo, il nemico dell’arte, la quieta ripetizione  che pone l’artista o i gruppi che la praticano, ai margini della ricerca, magari bravissimi, ma non essenziali a determinare la passione innovativa di un’ epoca, tanto più importante quanto più sovversiva.

            Il critico, sempre negli anni sessanta e settanta, lo si amava definire -  militante -   mentre ora non si parla di militanza. Il critico dei nostri giorni è anche un agente, per gli artisti che difende, e dei quali si serve per essere lui stesso autore. La piramide autoriale, artista, critico, mercante, museo, collezionista, è crollata.

            Anche l’arte si crea e si diffonde con le stesse logiche di altre merci pregiate da lanciare nel mercato, e non è detto che sia negativo, che ci appaia opportuno o no, fa parte del sistema, è uno specifico in sintonia con il modello di società occidentale che si va diffondendo ovunque, desiderato da chi non ce l’ha.

            Non sempre l’avanguardia artistica corrisponde a quella sociale, e viceversa. Basti pensare che il Futurismo fu certamente un’ avanguardia, per quanto riguarda i linguaggi delle arti, ma leggendo quanto Marinetti nel 1908 scrisse nel manifesto: … glorificare la guerra — sola igiene del mondo — il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.» si evince che la sua idea del nuovo, nell’ambito del sociale, era quantomeno contraddittoria.

            Se pensiamo a come si vestivano, futuristi, dadaisti, e anche surrealisti, e confrontiamo le ghette bianche di Marinetti, i baffi, i capelli impomatati, le immancabili cravatte, i vestiti alla caviglia delle signore, i cappelli e i guanti, con una foto di Duchamp, Man Ray e altri, con le loro rispettive compagne a seno nudo distese sull’erba durante un normale pic-nick, dobbiamo constatare che  a Parigi l’aria che si andava formando, emanata dal nuovo che incalzava, e la militanza della avanguardia, non erano solo di trincea.

            I futuristi erano ancora impregnati di simbolismo, e le loro opere lo dimostrano, occupandosi di temi nobili, progresso, velocità, dinamismo. Lo facevano attraverso soggetti normali, borghesi: madri, sorelle, qualche cantante, tavolini del caffè affollati, città, locomotive, poche sommosse. Sono opere i cui soggetti assennati, le fanno del tutto prive di ironia, anche se lo stile è innovativo.

Nel dopoguerra l’appartenenza a un gruppo di ricerca, se non a una avanguardia, era una presa di posizione combattente, perché ne escludeva radicalmente altre, dividendo i progressisti dai conservatori.

Negli anni ’50, fino ai primi anni ’60,  era forte la netta differenza tra -figurativo- e -astratto - tra chi osava, professando uno dei tanti modi dell’astrattismo che, a distanza di cinquant’anni dalla sua apparizione ancora faceva discutere, dividendo chi si faceva forza di una tradizione figurativa secolare che nel cubismo, e nelle varie declinazioni del ritorno all’ordine, esalava, anche splendidamente, i suoi ultimi respiri, e chi si attestava sulle ricerche astratte discendenti da Suprematismo e Bauhaus.

Ma l’astrazione che fece, se non avanguardia, movimento, corrente, fu l’Informale, che raccolse tutte le incertezze di chi, nel dopoguerra, si trovò a scegliere da che parte stare, e scelse la parte più intimista, quella non schierata ideologicamente, perché a causa delle ideologie, si era sofferto già troppo. L’astrattismo freddo, che si occupa di rapporti cromatici, di piani e superfici, che mette in ordine, ebbe meno seguito, gli artisti che vi si dedicarono, furono sempre ai margini del sistema dell’arte, sia pure noti e stimati. Il senso era, bravi, continuate così, idealisti, ma la vita vera pulsa diversamente altrove.

A Milano nel 1947, Fontana fonda il "Movimento spaziale" e, con altri artisti e intellettuali, pubblica il "Primo Manifesto dello Spazialismo", seguito dal  secondo l'anno dopo.

Lo spazialismo si colloca tra l’informale e la necessità di non ignorare le ricerche scientifiche, che erano in gradi di fornire una diversa percezione dell’esistente. Fu la genialità di Fontana ad assimilare due tendenze opposte, dando luogo allo spazio in senso cosmico, servendosi di segni, gesti, materia, con un occhio al futuro di cui lui è sempre stato innamorato.

            Dal valore dato all’introspezione, alla realtà psichica accreditata dalla psicoanalisi, derivano dunque quelle correnti astratte gestuali, liriche o drammatiche, informale e action painting che, accettate da artisti e critici, avevano finalmente meno bisogno di essere difese, anche grazie al lavoro dei galleristi che stavano costruendo il mercato dell’arte toccando un pubblico  di nuovi amatori, collezionisti e nuovi ricchi, cui si schiudevano i misteri e i piaceri del collezionismo.

 Informale, tachismo, action painting, preceduti dalle esperienze di matrice surrealista definite come pittura automatica, pittura eseguita per trascrivere l’energia dell’inconscio anche con l’aiuto di droghe, hanno lasciato vaste tracce anche quando sono stati superati, se così si può dire, da movimenti assai diversi, e mi pare di potere osservare che certi esiti della pittura monocroma, mai del tutto uscita di scena, quelli che non rinunciano alla trama, alla sfumatura sia pure a pieno campo, al monocromo crepuscolare e di atmosfera, si possono ricondurre alla sensibilità estrema conferita alla materia, senza forma, stesa sul supporto come se si trattasse di un abbandono della parte meno razionale dell’artista, pronto a mettersi a nudo, abbandonando  grammatica e  lessico della forma. 

Molte cose accadono negli anni ’60, compreso l’uso delle riprese video sviluppatesi dal ’64 in poi, che ci fanno capire che fotografia e cinema cambiano il concetto di verosimiglianza che era stato per secoli alla base della cultura occidentale, conducendo all’azzeramento della diatriba tra figurativo e astratto. Si accetta, si dimostra, che il vero sia semplice documento (questo in via semplicistica, perché è ovvio che il cinema serve anche a creare verità traslate dal comune senso di realtà, ma lo fa sempre in modo visibile, credibile, ingannevole, dunque realistico).

Nelle sperimentazioni dei primi video-artisti la video camera è usata senza  perizia,  sul modello del cinema-veritè, per parlare di vita nel suo stesso farsi, e di tempo, facendocelo assaporare fisicamente. Ne fu anticipatore il film di Warhol “Empire” del ’64 che riprendendo a camera fissa per 24 ore la stessa finestra che inquadra l’Empire State Building, simbolo della città di New York, mette in opera il senso del tempo e per farlo si serve di un mezzo che, nato per ripetere il movimento, qui riprende la stasi, salvo i minimi cambiamenti di luce che dalla finestra si fanno avanti verso il riguardante, nella interminabile ripresa.

Se la militanza dei critici che dovevano sostenere il nuovo, garantendolo con la loro capacità analitica del fenomeno, oggi non ha più ragione di esistere, è perché l’arte si può permettere proprio tutto, certa che il pubblico dell’arte, e gli stessi addetti ai lavori, essendo  diventati onnivori, non ne contesteranno i risultati. Forse il linguaggio dell’arte è oggi così sofisticato da non avere neppure più bisogno di essere arte nell’ epoca post-moderna avanzata, quasi putrefatta al punto da impedirne studio, godimento, teorizzazione, essendone sparito il corpo. Per questo i critici preferiscono sentirsi storici dell’arte, quasi che essere solo critico sia riduttivo, una faccenda da anatomo-patologo su membra sparse un po’ ovunque.

Non esiste oggi un ambiente deputato agli artisti, una vita di gruppo dove le idee possano scambiarsi, influenzarsi, e forse non esiste neppure una vera contemporaneità sulla quale potere ragionare. Difficilmente gli artisti si incontrano sulle proprie opere con altri artisti, come poteva avvenire tra Fontana e Capogrossi, o tra Fontana e Calderara, portatori di correnti agli antipodi, antagonisti, nella calda difesa della propria poetica, ma non nemici. Quello che però Fontana non sopportava, era Manzù. Le difficoltà della esistenza, se fino a trent’anni fa portavano gli artisti fuori dagli studi, ora ve li rinserrano. Una grande tristezza, quando non mestizia, mi pare che scorra nel sociale degli artisti, le occasioni di convivialità ridotte al minimo. Non ci si diverte più, tesi allo spasimo verso la visibilità, nell’affollato circuito di gallerie, musei, pubbliche istituzioni.

            I critici militanti del dopoguerra dovevano ricostruire i postulati dell’esistente, del futuro, della speranzosa convinzione che dopo la guerra torna sempre il sereno. Per la maggior parte essi stessi poeti, o pittori che avevano messo da parte il dipingere, intendevano  liberare la critica dalla polvere accademica che contraddistingueva lo storico dell’arte prima della II guerra mondiale, il quale si occupava principalmente di secoli sicuri sia pure gloriosi e sontuosi, in quanto lontani dalla attualità. Erano Berenson, Longhi, Fiocco, Palucchini, Venturi, lo stesso Argan nella sua parte migliore, che con il loro pensiero sull’arte, la storicizzavano.

Per comprendere in tempo il fermento del nuovo, prodottosi con lenta preparazione, ma poi scoppiato in tutto l’occidente quasi all’unisono,  bisognava essere in grado di sentire sulla propria pelle il mutamento del gusto, delle istanze creative e di quelle sociali.

La militanza nell’astrattismo propriamente detto, che in Italia non arriva prima del ’35, parecchio in ritardo rispetto ai paesi cruciali europei, Russia,  Germania fino al nazismo, ma anche Francia, con artisti come Gorin o Herteaux, ha tuttavia grandi nomi, da Fontana a Melotti, Munari, tanto per parlare di tre geniali e profondamente sovversivi artisti. Ma prima, cubismo e futurismo e suprematismo, avevano avuto grande risonanza negli stessi anni in cui venivano al mondo.

La ricerca astratto-geometrica in Italia, non deriva dalla scomposizione futurista dell’ immagine, ma guarda piuttosto a modelli già astratti, di superficie, caso mai derivati dal cubismo sintetico, e attinti anche dal Bauhaus. Sarà ritardata dal fascismo con il suo ritorno all’ordine, che produsse opere importanti solo grazie ad artisti come Sironi, Severini, Carrà, architetti come Piacentini, Portaluppi e altri, che nella rivisitazione del classicismo romano ad uso imperiale portarono la qualità della  invenzione razionalista, e il retaggio gentile della decorazione.

Ma altra cosa era l’avanguardia di un Terragni o, in pittura, di Mauro Reggiani, di Veronesi, che non si discostarono mai dalla ricerca geometrica laica,  poi definitasi  come  -concreta-  che per esprimersi compatta nel gruppo del MAC dovette attendere la fine della guerra. La astrazione geometrica, ma di matrice matematica,  si formò negli stessi anni anche in Svizzera, con Bill e Lohse, più giovani degli italiani, e più vicini al Bauhaus, con il quale erano rimasti in contatto anche in quanto a lui contigui per ragioni caratteriali.  La lotta per emergere fu dura, in Italia, questi artisti erano vittime dell’oscurantismo critico, se io stessa ricordo che alla fine degli anni’50  la critica d’arte sul Corriere della sera era affidata a Leonardo Borgese, per il quale anche il liberty era troppo moderno. E Balla viveva a Roma facendo i ritratti alle signore.

Va anche osservato che un po’ tutti i protagonisti delle avanguardie, una volta passata la febbre, se ne discostarono tornando a ragioni più blande o alla inevitabile ripetizione dei propri geniali canoni, rifugiandosi nello stile.

La spaccatura della guerra aveva allontanato dalla pur piccola ribalta il meglio della ricerca artistica del ‘900, allontanò perfino il futurismo, accusato di essere fascista. E se gli artisti futuristi furono fascisti, la loro ricerca non aveva nulla di politicamente adoperabile, anzi, e si formò parecchi  anni prima che il fascismo prendesse il potere.  Caso mai si potrebbe dire che nell’aria c’erano certi atteggiamenti che i futuristi abbracciarono, esaltarono nei loro manifesti, e che il successivo fascismo  perfezionò.

Nel dopoguerra si riparte da Picasso, drammatico e sconvolto come un bombardamento, ma capace di salvare sempre la figura umana e i suoi oggetti di contorno, simboleggia la rottura e la salvaguardia dei cocci, da rimettere insieme. E’ più rassicurante della astrazione geometrica. Alla fine, più comprensibile. E la ricerca astratta geometrica forse fu vista, credo inconsapevolmente,  come troppo ideologica, assimilabile all’ordine militaresco, alla disumanizzazione dei due terribili regimi, fascismo e nazismo che per organizzare il mondo lo hanno massacrato. Della fine che fecero le avanguardie russe, una volta sotto il regine sovietico, se ne riparlò nei tardi anni ’60, quando molte opere uscirono clandestinamente dal paese e furono mostrate dai mercanti più attenti.

La rivoluzione fa vittime, la rivoluzione è carne e sangue. Anche la rivoluzione in arte, fa vittime. Nel novecento, nei primi anni, si è consumata la carneficina del vecchio, del bello, del nobile, dell’elevato spiritualmente. Si prepara la rivoluzione comunista e nell’ideologismo dilagante, si preparano i totalitarismi. Il totalitarismo forse fu la drammatica soluzione per tenere testa al rapido sviluppo tecnologico, ai nuovi bisogni economici e sociali, alla incapacità della società democratica di organizzare il proprio mondo. Di fronte alla inadeguatezza, purtroppo si sente ancora dire che ci vorrebbe la maniera forte.

            La rivoluzione degli assetti socio-economici si fece avanguardia dando all’arte caratteristica di impegno ideologico, per una manciata di anni, prima che tutto degenerasse.  La rivoluzione, in arte, figlia e precorritrice allo stesso tempo di quella rivoluzione dei costumi e della politica sgorgata  dal nuovo che avanzava in tutto, distrugge le icone del bello, per ricostruirle, in una estetica completamente cambiata. Inizia anche il panico del vuoto, del nulla, del non significato. Quante volte, di fronte a un opera dadaista, ad esempio la tanto decantata “Fontain” di Duchamp, ci siamo chiesti che cosa voglia dire? Se l’aura riconoscibile fino ad allora nelle opere d’arte, anche in quanto uniche e irripetibili, nell’orinatoio non la si ritrova, dobbiamo ammettere che il dadaismo conferisce aura a tutto quello che tocca, dissacrando il sacro e consacrando il profano. Il risultato materiale del pensiero dell’artista è solo un tramite, quasi un esempio, tanto per farsi capire. La contemplazione, non è ammessa, non è desiderata. L’opera d’arte deve essere urtante, deve seminare dubbi per i quali non ha suggerimenti. L’arte è un rebus, la verità esiste, ma non la si trova facilmente.

            Costretti, nel lessico ancora ora riservato all’arte, a dire – bello – quando invece di bello non c’è nulla, vogliamo l’oggetto da contemplare, anche se l’artista diventa – inutile – raffinato e impotente, in grado di volere fare della propria stessa vita un’opera d’arte, preparando la strada alle azioni dei situazionisti e della body-art, delle performances, mettendo a repentaglio la gradevolezza, il consenso, stracciando la residua – bellezza – pur di fare combaciare le ragioni concettuali che stanno all’origine dell’avanguardia con un anticonformismo più generale per quanto riguarda il comportamento sociale. Questo lo avevano già fatto dadaisti e surrealisti, e probabilmente molti altri, ma ora la provocazione sta nella sgradevolezza, nel sacrifico personale dell’artista che si mette ad agire dentro al mostruoso.

            L’operazione di riqualificazione è difficile, e sempre sull’orlo di essere vanificata da un ritorno indietro, come avvenne con la transavanguardia alla fine degli anni ’70, in anni nei quali pensavamo che mai più si sarebbe dipinto con il pennello, ripartendo da espressionismo, o metafisica, rivalutando il sogno, l’introspezione, la sensibilità del colore, della pennellata, del racconto. E’ stato un altro ritorno alla ragione.

            La raffigurazione dell’altra realtà, quella psichica, è padroneggiata dal surrealismo, quando non ne snocciola tutto l’elenco simbolico rendendo il mistero didascalico. Ma è dal suprematismo che deriva la capacità di lavorare sulla sintesi spirituale, che visto la materia altro non può essere che sintesi,  che condurrà al limite della zero, già con Malevic, che tuttavia si servì del problema del rapporto tra due zeri, con il suo bianco con bianco, fino ai monocromi degli anni ’60 inaugurati dal blu di Klein, che  salvava,  in quel quasi nulla, il senso panico del vuoto e la forza del blu purissimo, da sempre colore  accreditato alle faccende celesti ultraterrene. Non è casuale che Klein fosse cattolico praticante, Cavaliere di Malta e devoto di S.Rita. Appassionato di immaterialità, il provocatore artista fece anche un voletto, documentato fotograficamente e garantito per autentico da testimoni. Nelle prove dei prosecutori prevale invece la dominante fredda, tautologica. Ma dopo, una volta tolto tutto, rimane possibile solo la spiegazione di un colore, da dizionario. Rosso al rosso, nero al nero. Setaccio estremo da parte dell’artista che non riesce a trovare nulla da dire, nulla che non sia più difficile dello zero.

            Considerate così le cose, nella narcosi del benessere degli anni settanta già sporcati dal terrorismo, nell’impossibilità di prevedere una nuova avanguardia, si fa strada la transavanguardia, che piace a nessuno ma che tutti vogliono. Dopo la messe ricchissima delle categorie che si intrecciano in quegli anni di ricerca e se non di avanguardie di poetiche fortemente connotate, arte concettuale, arte povera, arte minimale, categorie che si servono dello strapotere del critico di schieramento, dunque ancora militante, del museo, del mercante, che condizionano pesantemente il collezionista timoroso di non essere aggiornato nel proprio gusto, intimorito dalla macchina dello spettacolo attorno all’arte e alle istituzioni espositive, si incollano, si cuciono i frammenti di una armamentario espressivo che non si è privato proprio di nulla., per arrivare allo stato attuale dell’arte, ampiamente esplorativa.

            Il valore del cambiamento, la geniale intuizione iconoclasta che ha caratterizzato tutte le avanguardie, la speranza, così fu per i suprematisti russi che lavorarono sul confine della rivoluzione del 17, di cambiare il mondo, hanno da tempo ceduto il passo alla macina degli ingredienti, alla prudente osservanza delle tendenze del momento.

Negli anni venti e trenta del novecento, grazie alla teorizzazione del Bauhaus,  l’avanguardia diventa laica, ma non ci riesce, perché  in arte, più togli sacralità, e più  ne metti. Perdendosi i soggetti delegati al sacro, perdendo l’iconografia della verosimiglianza, si intensifica l’iconografia del – vero – ritratto della astrazione. Sul versante dada invece, decisamente meno ideologico, si fa strada l’ironia, il gioco di parole-immagine, la negazione della raffigurazione, a favore di un particolare uso del  – vero - E cosa c’è di più vero che prendere l’oggetto reale e usarlo come icona di se stesso? Volendo essere dissacranti, si finisce per ridiventare sacri, e quegli oggetti veri, diventano finti.

            L’arte, oggi, è anche merce. Nata poco a poco l’industria culturale,  si è costituita  una società nella quale la cultura di massa sta dentro all’ attualità. Si è livellato il solco tra una élite dedita alla ricerca e l’opinione che il fruitore medio si può formare a  proposito del prodotto artistico, quello da appendersi sopra al divano di casa.

Paradossalmente, ma non poi tanto, il lavoro delle avanguardie storiche, quelle dalle cui invenzioni ancora oggi viviamo di rendita, è diventato sempre più elitario, lasciando il pubblico in balìa di plagi riferibili al passato, in pasto a una retroguardia che, mi pare, solo recentemente si è colmata grazie alla diffusione del design di massa, che ha fatto vivere la gente in case diverse, chiare, colorate, non solo razionali, ma con canoni del decoro molto diversi, aggiornati a stili di vita meno formali. Di necessità si è fatta virtù, per esempio aprendo, negli appartamenti sempre più piccoli, lo spazio chiuso della cucina per renderla partecipe del salotto, eliminando il più possibile corridoi e anticamere. Quello che nasce per esigenze di spazio, diventa moda, e lo si trasferisce anche in spazi larghi dove mostrare la cucina, ricca e disegnata, fa parte dello status-symbol.  Alla avanguardia artistica un tempo in cima al cambiamento, è succeduta l’attualità, la moda.

L’artista che la società dei consumi esige giovane anagraficamente, non può  preoccuparsi  di non sapere tutto quello che sarebbe bello sapere a proposito dell’arte e delle ricerche che ci hanno preceduto, e crea come può ma anche con successo, giudicato, acquistato, da gente che ha la sua stessa preparazione, o impreparazione. Non è un problema. E non proviamo a domandare all’artista che cosa significhi il suo lavoro, ne  escono complicati discorsi che sempre più ci allontanano da quello che vediamo. Il pubblico poi, raramente sa perché un dato oggetto d’arte gli piace, lo emoziona, e forse è giusto così.


            La garanzia che con lo stile si riesca a essere sempre uptodate, è data dalla moda, abiti, arredamenti, tecnologie, aperitivi, che si incrociano, la gente ne accoglie le istanze, vive sempre alla – avanguardia – dello stile e anche se questo è solo tangente alla ricerca dell’arte questa fratellanza tra alto e basso garantisce che l’artista sta dentro al proprio tempo, e nulla è più importante del sentirsi a posto dentro il proprio posto, in assenza di una ragionevole previsione di futuro.  L’avanguardia invece, sta scomoda nel proprio tempo, di cui già percepisce il declino.

Per questo le  tendenze del momento, in arte come in letteratura, sono lì, a seguire quello che si fiuta essere il trend non della creatività, ma del  mercato, in un giro viziato e triste, che vede il pubblico, il collezionista, il lettore, bamboleggiare con la critica, e la critica compromettersi con il mercato, e l’artista destreggiarsi tra tutti questi suoi  -padroni –

Andare costantemente dietro a quelli che si pensano i desideri del pubblico, del critico leader, imprenditore, manager, è la disperata attualità. Non importa se l’opera è propositiva, conta solo che possa, non si sa veramente bene come, piacere, essere considerata, venduta. Si attribuisce valore a lavori che sono più furbi che ispirati. E poiché della furbizia se ne è fatta una virtù, proprio come fede, speranza, carità, temperanza… aspettiamo che si trasformi in bellezza.

La bellezza, dalle avanguardie storiche finalmente distrutta, rivoltata, è sempre un valore di discernimento, tra quanto, in grado di emozionare con la sua incostanza, o fugacità,  ci tiene svegli, eccitati. Per questo che l’arte del passato piace a tutti, almeno in superficie. Perché la sua bellezza, digerita nei secoli del cambiamento, è diventata rassicurante, e tutti possono sentirsene partecipi, con la certezza di non doversi mai confrontare direttamente con lei.
            Il nuovo capita raramente. L’avanguardia, è bizzarra, fa di testa sua. Da parecchi decenni non abbiamo una avanguardia propriamente detta, e lo smarrimento, la mancanza di passione che ne deriva, si giustifica con l’utilizzo dell’arte come semplice merce, e non è soltanto imbarazzante, a volte è anche naturale, gratificante, fa cultura, se si considera che la cultura non è una scala di valori, ma è -sapere –

Il critico, a volte lui stesso autore, ipotizza un oggetto d’arte che gli artisti, i suoi artisti, realizzano. Una sorte di antica bottega? Gli artisti, che hanno bisogno di monetizzare il proprio lavoro, si attengano alle regole lavorando con quella buona fede che rimane dopo la sconfitta della passione.

In questo contesto di ansia da prestazione, l’opera d’arte non si crea soltanto nel rovello d’anima che rende l’artista sempre insoddisfatto, se non al momento del proprio inevitabile narcisismo, ma la fattibilità dell’opera si avvale anche della consapevolezza che un fazzoletto di carta abbandonato sul pavimento della galleria può essere arte, mentre è immondizia se lasciato sul marciapiede. L’opera si crea nella cucina degli ingredienti, a volte freschi, a volte precotti o surgelati.

            Transavanguardia, neo-avanguardia,  post-avanguardia. Entrano nel sistema istanze di ordine intellettuale più che creative, una opera si può costruire a tavolino, come genialmente fa Umberto Eco. Ma il sistema delle gallerie, così come quello degli editori, questi più marcatamente alla caccia del cliente, dimenticano che, in letteratura, per esempio, abbiamo già avuto Joyce, che era capace di comunicare, con il minimo possibile di narrazione, la realtà psichica dei suoi personaggi attraverso il flusso delle immagini evocate con le parole, senza che gli sia stato detto, di recente,  che doveva mettere ogni tanto qualche punto. Anche la ricerca sul linguaggio del gruppo 63, è stato messo tra gli sperimentalismi, e predominano poesie liricheggianti, piane, comprensibili, che sciorinano l’io in pantofole dei tanti che sono poeti solo perché in grado di commuoversi su se stessi.

Lea Vergine definì come – ultima avanguardia –  cinetismo, optical art, arte programmata o sistematica. In questi artisti operanti allo stesso tempo della Pop art, nei primi ani ’60, un po’ ovunque nel mondo occidentale, prevaleva l’impegno scientifico, o tecnologico, teso a razionalizzare la percezione del fenomeno ottico e percettivo, traducendolo in emozione pensante capace di fare progredire il riguardante nella conoscenza dei fenomeni della percezione di cui, anche senza accorgercene, siamo tutti influenzati e informati. Oggetto e  soggetto dell’opera coincidono. Molti degli artisti hanno rinunciato alla loro peculiarità, a favore della – causa –.

Oggi le macchinette, gli schermi ottici, le geniali invenzioni, gli ambienti (il primo'"Ambiente spaziale a luce nera" era stato creato da Fontana nel 1949) stanno tornando a piacere, perfino ad emozionare, ma i giovani artisti non ne proseguono la ricerca, perché ci sono poetiche che non fanno seguaci, contrariamente a tutte le altre del ‘900. Anche da Fontana, non si può prendere niente, se non la cosa migliore, la libertà e il coraggio.
            Nel nostro presente mi pare che l’artista, anch’esso in perpetuo movimento, in crescita numerica, in un suo sentirsi creatore di merce deperibile, prenda  il buono là dove lo trova, con una operazione che a me pare disperata, perché da lui si pretende spesso quello che non può dare, che non dovrebbe voler dare, e non si vuole quello che, coltivato, potrebbe preparare il nuovo.