Arturo Schwarz
La potenza dell’idea

 

            Napoleone era un uomo troppo intelligente per non riconoscere che “l’idea è più forte della spada”. Non poteva ignorarlo, dato che furono proprio le idee degli Enciclopedisti che fermentarono i disagi della borghesia – allora classe montante e coltivata – dando il via alla rivoluzione del 1789 i cui sviluppi portarono al Termidoro e quindi alla conquista del potere da parte del tenente còrso. Così come furono le idee di Marx che sfociarono nella Rivoluzione d’Ottobre e quelle di Herzl che portarono alla fondazione dello Stato d’Israele. Però, sono le idee di quattro giganti del pensiero che hanno mutato radicalmente la nostra percezione del nostro pianeta nell’universo; della posizione che occupiamo nella scala biologica; della natura del nostro pensiero e di quella del mondo fisico. Così, con Galileo la terra  perse il suo ruolo di centro dell’universo; con Darwin, la nostra specie fu ridimensionata: da creazione divina diventammo un semplice gradino – anche se il più alto – di un lunghissimo processo evolutivo colmo di errori e fallimenti; con Freud le più alte conquiste della civiltà risultarono essere il frutto non più del solo pensiero cosciente bensì della pulsione sessuale che ne struttura la dinamica. Infine Einstein dette il colpo di grazia alle ultime nostre certezze con la teoria della relatività.

            Nei nostri giorni, come non notare la quasi concomitanza delle date di pubblicazione di due classici di Marcuse (Eros e Civiltà, 1955 e L’uomo a una dimensione, 1964) con lo scoppio, nel 1966, dei moti studenteschi di Berkeley, che, a loro volta, precorsero quelli del 1968 europeo. Ero, allora, a San Francisco per un ciclo di conferenze all’università di Berkeley e posso testimoniare che la protesta studentesca – partita inizialmente contro la guerra del Vietnam – si radicalizzò rapidamente per formulare rivendicazioni direttamente ispirate dalle idee espresse da Marcuse nei due testi precitati. Analogamente, a Parigi, nel 1968, gli studenti passarono velocemente da richieste settoriali a quelle di più largo respiro, adottando persino come parole d’ordine concetti di André Breton, scomparso solo due anni prima. Tra le tante ricordiamo, “L’immaginazione al potere” e lo slogan surrealista, “Sotto i pavé, la spiaggia!”. Ricordiamo anche l’idea di Muhammad Yunus (l’economista bengalese, vincitore del premio Nobel per la pace nel 2006) di concedere micro-crediti alle donne del suo paese per aiutarle ad avviare un’attività redditizia, idea che ha salvato dalla miseria e dalla fame migliaia di focolari. Sua anche la speranza che “un giorno i nostri nipoti andranno nei musei per vedere cosa fosse la povertà”. È anche sintomatico che sia stato un poeta, Victor Hugo, ad esprimere una verità, evidente quanto dimenticata, quando nel suo romanzo Les Misérables fa dire al protagonista: “Quelle che conducono e trascinano il mondo non sono le locomotive, ma le idee”.

            In risposta ad una rozza, ma imperante, interpretazione del materialismo storico marxista – secondo la quale la sovrastruttura ideologica è un riflesso dell’infrastruttura economica – forse si potrebbe affermare proprio il contrario: è l’infrastruttura economica ad essere, in ultima analisi, il riflesso della sovrastruttura ideologica. Se tale ipotesi fosse giudicata troppo ardita, riconosciamo almeno, ad entrambi questi fenomeni, un ruolo paritario. Allora, tra sovrastruttura e infrastruttura, il rapporto sarà attivo e complementare e non più solo di mero riflesso: passivo e unilaterale.
 
            È proprio questo fatto – l’importanza primaria dell’Idea – che ha assicurato il predominio dell’essere umano sui suoi fratelli e cugini del regno animale. Per Freud, infatti, “nulla contraddistingue meglio la civiltà del fatto che essa apprezza e coltiva le più alte attività psichiche, siano queste intellettuali, scientifiche o artistiche, attribuendo alle idee una funzione guida nella vita umana”1. Jung, a sua volta, osservava che “per determinati gruppi di uomini, l’idea assume il massimo rilievo tanto da rappresentare per essi un maggior valore di realtà e una maggior importanza vitale che non la realtà delle singole cose […]. Il fatto che l’idea sia invisibile non ha importanza di fronte alla sua straordinaria efficacia, che è appunto una realtà”2. Con il suo profondo senso pragmatico, Jung però avvertiva: “L’idea come semplice concetto individuale non ha influenza sulla vita, perché in questa condizione non è molto di più che una mera parola”; infatti, egli precisa poi che soltanto “se l’idea acquista significato di complesso autonomo, opera attraverso l’animo sulla vita della personalità”3. Nello stesso passo, Jung spiega che, perché l’idea possa produrre un “complesso autonomo”, occorre “la cooperazione dell’animo”. In altre parole, solo quando l’idea penetra nella coscienza delle persone, come precisava anche Marx, essa può diventare una forza creativa.

            Durante il primo quarto del secolo scorso, la potenza illuminante dell’idea assunse tutta la sua forza dirompente anche nel campo delle arti figurative. Infatti, sino alla fine dell’Ottocento, la storia dell’arte era stata prevalentemente quella di un’evoluzione di carattere stilistico e formale. Ad esempio, per gli Impressionisti – che proclamavano “non si fa l’arte con le idee” – il problema era quello di evadere dallo studio del pittore per raggiungere, in assoluta fedeltà alle apparenze del reale, un estremo naturalismo. La qual cosa fece nascere le pedantesche ricerche dei divisionisti e dei neo-impressionisti. Per i Fauve, che vennero subito dopo, all’inizio del secolo scorso, il problema non era di carattere mimetico. Per loro, il colore aveva invece una valenza autonoma, sciolta da ogni adeguazione passiva al manifestarsi cromatico della realtà esterna e quindi, tanto più l’accostamento delle tinte era esacerbato e infedele all’inerte fenomenologia della visione, tanto più si sentivano vicini ai loro ideali espressivi.

            Per i Cubisti, invece, richiamandosi alla lezione di Cézanne, l’importante non era il colore ma la struttura e i volumi – da qui la tavolozza volutamente povera, con colori sommessi, che esploravano tutte le sfumature dei marroni e dei grigi. Ma se il colore e la forma potevano assumere un così valido significato artistico, perché non fare a meno di un oggetto esterno di rappresentazione? Giungiamo così agli Astrattisti e ad un nuovo linguaggio pittorico in cui il modello divenne puramente interiore. Anche i pittori legati alla rappresentazione del mondo visibile non sfuggono a questa ansia di rinnovamento formale. Riallacciandosi alla folgorazione di Van Gogh, al misticismo stravolto di Munch, al grottesco di Ensor, gli Espressionisti – perché di loro si tratta ora – si servirono dell’oggetto esterno per esprimere la loro angoscia esistenziale.

            Fu soltanto con André Breton e i Surrealisti che l’Idea divenne un elemento portante anche nella poesia e nell’arte. Fedele all’esigenza espressa da Marx nelle sue celebri tesi su Feuerbach, “I filosofi sinora hanno interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo”, e alla parola d’ordine di Rimbaud, “Cambiare la vita”, la riflessione surrealista trovò la propria ragione d’essere nell’attuare queste due premesse ideali. Breton lo disse espressamente: “‘Trasformare il mondo’ ha detto Marx, ‘cambiare la vita’ ha detto Rimbaud: per noi queste due parole d’ordine fanno tutt’uno”4. Già nel primo manifesto, pubblicato nel 1924, Breton precisava che il Surrealismo aveva l’ambizione di essere innanzitutto uno strumento di conoscenza che si proponeva di raggiungere una migliore comprensione dell’essere umano – premessa inderogabile all’azione – attraverso l’esplorazione del mondo sommerso rivelato dalla psicanalisi freudiana (e più tardi anche junghiana).

            Con Marcel Duchamp, ritroviamo l’esempio paradigmatico dell’importanza che l’idea assume nell’opera d’arte. Egli precisava, infatti, di avere voluto, sin dall’inizio della sua attività artistica, allontanarsi “dagli aspetti fisici della pittura”, aggiungendo: “M’interessava molto di più introdurvi di nuovo delle idee […] volevo riportare la pittura al servizio della mente […]. La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione”5. Esempio classico di un’opera strutturata proprio dall’idea, è la sua Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (1915-23), a proposito della quale mi sono lungamente fermato nel libro citato in nota.

            L’importanza dell’Idea – come del concetto duchampiano ora ricordato – nell’arte contemporanea è dimostrata ampiamente dal fatto che gli artisti protagonisti dei principali movimenti artistici che si sono alternati nel dopoguerra non sono più alla ricerca di un nuovo stile formale ma sono invece preoccupati di giustificare concettualmente il loro lavoro. Ricordiamo, gli uni e gli altri, in ordine cronologico: Arte nucleare, Milano (1951: Baj e Dangelo); Arte cinetica, Parigi (1955: Agam, R. Bury, Calder, Jacobsen, Soto, Tinguely); Happenings, New York (1957-58: A. Kaprow, J. Dine, C. Oldenburg e R. Rauschenberg); Azimuth, Milano (1959: Manzoni e Castellani); Nuovo Realismo, Parigi (1960: Pierre Restany con Arman, César, Dufrêne, Hains, Y. Klein, Raysse, Rotella, Spoerri, Tinguely, Villeglé); Fluxus (1961, Colonia: Maciunas; Wiesbaden: Vostell; New York: G. Brecht, La Monte Young, C. Moorman, N.J. Paik; Nizza: Ben, Filliou); Minimal Art, New York (1964: Carl André, R. Judd, Sol LeWitt, A. Martin, R. Morris, R. Ryman); Installazioni, New York (1965: B. Rose con D. Judd, R. Morris, R. Serra, R. Smithson); Conceptual Art, New York, 1967 (Barry, Huebler, Kosuth); Art and Language, Londra (1967: T. Atkinson, M: Baldwin, D. Bainbridge, H. Hurrell; New York: D. Graham, J. Kosuth, Sol LeWitt); Arte Povera, Genova (1967: Germano Celant, con Boetti, L. Fabbro, Pascali, G. Zorio); Body Art (1965, Vienna: R. Schwarzkogler; 1967, Londra: Gilbert & George; 1969, New York: Vito Acconci; 1971, Parigi: Gina Pane); e infine la Transavanguardia, Roma (1979: Achille Bonito Oliva con S. Chia, F. Clemente, E. Cucchi, N. de Maria, M. Paladino).

            Ma torniamo al termine idea. Il vocaboloderiva, molto appropriatamente, dal verbo greco che significa vedere. La complementarità – per non dire l’identità – tra idea e materia è intuibile sin dalle prime espressioni del pensiero filosofico. Infatti, per Platone – che fu il primo a definire tecnicamente l’idea (eidos) ­– questa non era diversa dalla “forma” (ous). L’Idea, quindi, oltre ad essere una visione o un’intuizione intellettuale, era, secondo Platone, il fondamento ontologico della realtà, costituiva cioè il motivo che fa essere il mondo, anzi, era la “forma” con cui il demiurgo aveva plasmato il mondo. Così l’aristocratico ateniense, allievo e amico di Socrate, attribuisce al suo tutore il concetto che l’idea era una unità invisibile nella molteplicità materiale e perciò ne era anche la sua specie. Coerentemente con questo pensiero, Platone fa dire a Socrate, nel Parmenide: “Io credo che tu creda esserci una specie unica ogni volta che molte cose ti appaiono, per esempio, grandi e tu puoi abbracciarle con un solo sguardo: un’unica e stessa idea ti pare allora che sia in tutte quelle cose e perciò ritieni che il grande sia uno”6.

            La complementarietà tra l’idea creatrice e la materia emerge poi anche nella Scolastica giudaica. Filone – in conformità con il testo della Genesi dove il demiurgo crea il mondo attraverso la parola che materializza l’idea – attribuisce a questa un ruolo attivo e creatore considerando l’Idea come “la potenza incorporea” di cui Dio si serve per formare la materia7. Anche Plotino, con i neoplatonici, riprese la concezione dell’Idea che era stata formulata da Platone, per il quale questa era non solo trascendente ma anche immanente. Dato che l’Idea era la forza che “plasmava” gli organismi dall’interno secondo un fine prestabilito, era anche la ragione intelligente del loro costituirsi. Così, Plotino la identificava con l’intelligenza che, per lui, non si distingueva dall’essere: “Sono la stessa cosa l’Idea, la forma dell’essere e l’atto dell’essere”8. Il concetto unitario, che postula l’identità tra idea e materia, è ribadito anche nel Rinascimento, per esempio da Francis Bacon9.

            Con gli Empiristi, e in particolare con John Locke, la prospettiva platonica del rapporto tra l’idea e il mondo sensibile è, seppur confermata, rovesciata: le idee non sono più all’origine della sensazione, bensì il contrario, sono il riflesso delle impressioni prodotte dal mondo sensibile. Per Kant, invece, le idee non vengono dall’esperienza, ma nascono dall’attività critica dell’Io. Dunque, diversamente da Platone, l’Idea nasce dalla ragione e non dall’intelletto. Spieghiamoci meglio, l’Idea, per Kant, consiste nel collegamento che la ragione opera tra più concetti, per cui conoscere significa collegare, pensiero, questo, che ritroviamo nell’espressione comune “farsi un’idea” di qualcuno o qualcosa, sulla base di più nozioni connesse.

            Dopo Kant, l’Idea si presenta nell’accezione dell’idealismo tedesco che presuppone la supremazia dell’idea e del pensiero sulla realtà. Ritorna così la concezione platonica che faceva dell’Idea il fondamento sia gnoseologico sia ontologico del mondo. Per vie diverse, anche Schelling concepisce l’Idea come trascendente, intuibile solo nell’unione immediata di Spirito e Natura, nozioni, queste, che corrispondono ai concetti neoplatonici di pensiero ed essere. A differenza di Platone, l’Idea, per Hegel, non è trascendente, bensì immanente alla logica, essendo il risultato di un processo dialettico. Conseguentemente, l’Idea non è più l’unione immediata di pensiero ed essere, ma il prodotto della ragione – un processo in divenire, anche se ancora soggetto al fondamentale concetto unitario, come in tutte le altre tesi precitate. Così, Hegel vede nell’Idea “il vero in sé e per sé, l’unità assoluta del concetto e dell’oggettività”10.

            È nel grandioso schema olistico di Spinoza – dove questi stabilisce la corrispondenza tra l’Idea e la realtà, cioè tra la forma del pensiero e la forma dell’essere – che possiamo scoprire più compiutamente sia la dimensione dinamica dell’idea sia la sua omologazione con la sostanza materiale. Infatti, in una lettera al suo corrispondente Heinrich Oldenburg, Spinoza afferma esplicitamente la “potenza infinita del pensiero”11, mentre altrove precisa che “la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima sostanza, che è compresa ora sotto questo, ora sotto quell’attributo. Così anche un modo dell’estensione e l’idea di questo modo sono una sola e medesima cosa, però espressa in due maniere”12. In altre parole, tra l’idea e la sostanza materiale, la differenza è soltanto una differenza di densità, dato che entrambe appartengono ad una stessa realtà. Infatti, Spinoza afferma anche l’inscindibile rapporto tra l’essenza dell’uomo e l’Idea: “L’idea è la prima cosa che costituisce l’essere della mente umana”13. Cosa che gli permette di asserire: “L’uomo consta di mente e di corpo, e il corpo umano, così come lo sentiamo, esiste. Da ciò non solo s’intende che la mente umana è unita al corpo, ma anche che cosa debba intendersi per unione della mente e del corpo”14. A questo proposito, ricordiamo che, nella seconda parte dell’Etica – dove Spinoza estende il concetto olistico dal livello cosmico a quello umano – egli spiega che l’individuo non è un essere doppio composto da due entità eterogenee: lo spirito e il corpo. L’essere è invece un insieme in quanto spirito e corpo ne sono parti costituenti, sono un tutto indivisibile, e solo assieme essi realizzano la perfezione. Così Spinoza non adopera mai il termine anima – che potrebbe rimandare a una realtà indipendente – ma sempre e soltanto mens (spirito). In questo senso si esprime quando, il 20 novembre 1655, nella lettera citata prima, scrive a Oldenburg: “La mente umana è questa stessa potenza […] e, in quanto finita […], comprende soltanto il corpo umano”15.

            Si può sintetizzare la visione spinoziana del tutto nella celebre frase che annulla la dicotomia tra creatore e creatura, dove stabilisce che esiste soltanto una natura che, a seconda delle circostanze, è creatrice, “naturante” (naturans),oppure creata, (naturata). Le conseguenze di questa ontologia dell’universo, esposta nella prima delle cinque parti che compongono l’Etica, sono rivoluzionarie. Anzitutto, questo concetto – fecondo e sovversivo tra tutti – eliminando lo iato tra un ipotetico creatore e la sua creatura, libera l’essere dal principio di autorità: non è più necessario ipotizzare l’esistenza di un ente superiore al quale dobbiamo obbedienza e venerazione, dato che siamo noi stessi parte di questa entità, siamo noi stessi, sia “naturati”, e cioè creati, sia “naturanti”, e quindi creatori. Da semplici oggetti di un disegno divino diventiamo così parte integrante e attiva di un disegno naturale, e dato che “natura” è soltanto un altro nome per “divinità” (deus sive natura: “dio, ovvero la natura”, secondo il fulmineo detto di Spinoza), siamo creatori e creature contemporaneamente. In modo analogo, idea e materia sono due modi diversi per definire una sola ed unica entità nelle sue due diverse modalità. Si potrebbe allora dire che il corpo è il modo di essere dello spirito, parafrasando il noto detto di Frederick Engels, per il quale il moto è il modo di essere della materia16. Per dirla con lo Zohar – il testo cardinale della Cabbalah che forse ha ispirato Spinoza − il rapporto tra lo spirito e il corpo è lo stesso di quello tra la fiamma e la candela, la prima non esisterebbe senza la seconda17. Nella visione olistica spinoziana anche l’arbitrario divorzio tra lo spirituale e il corporale – e di converso tra amore spirituale e amore carnale – scompare, se è vero, come propone il nostro filosofo, che l’essere umano è uno spirito cosciente del proprio corpo.

            E qui entra in gioco la potenza suprema del sentimento che lega due innamorati, ma parlarne ora mi porterebbe troppo lontano18 . Mi basti ricordare che, se l’amore diventa conoscenza del Sé attraverso l’identificazione con l’essere amato e se la conoscenza implica liberazione e quindi felicità, possiamo capire perché il fecondo disegno del nostro filosofo non sia soltanto fonte di speranza: esso colma anche la nostra sete di assoluto. Spinoza ricorda, infatti, che all’inizio era l’amore, il desiderio. Cosa che mi porta a condividere l’opinione di Karl Wilhelm Humboldt, il quale, scrivendo ad una sua amica, affermava: “Ciò che unicamente e veramente rimane nella vita sono soltanto le idee” e quindi, aggiungerei, l’amore.

                                                                                                            (Gennaio-Febbraio 2009)


1Il Disagio della civiltà (1929), in Il Disagio della civiltà e altri saggi,Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 230.

2 Tipi psicologici (1920), Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. 6, pp. 51-2.

3 “Considerazioni generali sulla psicologia del sogno” (1916/1948) in La Dinamica dell’inconscio, Opere Boringhieri, Torino, 1980, vol. 8, p. 357.

4 “Discorso al Congresso degli scrittori” (1935) in Manifesti…, op. cit., p. 172.

5 Citato da me in La Sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche (1969), Einaudi, Torino 1974, pp. 22-23.

6 Parmenide, 132a.

7 I Sacrifici di Abele e Caino,II, 156.

8 Enneadi, III, V, 9, 8.

9 Novum Organum,I, 23.

10 Enciclopedia,§ 213.

11 Epistolario,Einaudi, Torino 1951, p. 170.

12 Etica,II, proposizione 7-Scolio.

13 Ibid., proposizione 11-Dimostrazione.

14 Ibid., proposizione 13-Corollario e Scolio.

15 Epistolario, loc. cit.

16 Dialectics of Nature (1872-1882), Lawrence and Wishart, London 1946, p. 35.

17 Zohar,I, 83b.

18 Si veda in proposito, tra altri miei testi, l’ultimo: La Donna e l’amore al tempo dei miti,Garzanti, Milano 2009