Memoria di Giuliano Gramigna

Memoria di Giuliano Gramigna

Giuliano Gramigna ci ha lasciati nell’aprile del 2006. È nato a Bologna nel 1920, ha esercitato a Milano per quasi l’intera vita l’attività di critico letterario per le pagine culturali di alcuni importanti quotidiani (Corriere d’informazione e Il Giorno) e poi, per oltre vent’anni, del Corriere della Sera e la collaborazione a riviste prestigiose italiane e straniere, prima fra tutte Il piccolo Hans, il periodico milanese di psicoanalisi e letteratura di cui Gramigna fu presenza fondamentale nella redazione. Parigi e la letteratura francese, in particolare, la psicoanalisi da Freud a Lacan, hanno influito profondamente sulla sua poesia, la sua narrazione, la sua ricerca critica di altissimo livello internazionale. Uomo discreto eppure culturalmente rigorosissimo e mai arrendevole, con la sua poesia ha segnato il secondo Novecento, certamente non meno, solo per fare qualche nome illustre, di Zanzotto, Sanguineti, Luzi, Erba…

Per la vicenda del romanzo del secolo XX non possono essere dimenticate, per invenzione narrativa e ricerca scritturale, opere che stanno alla pari di quelle dei maggiori autori del Novecento: L’eterna moglie (1963), Marcelritrovato (1969), L’empio Enea (1972), Il testo del racconto (1975), Il gran trucco (1978), La festa del centenario (1989).

Fondamentale fra gli altri i suoi testi critici La menzogna del romanzo (1980), Le forme del desiderio (1989).
Molte le raccolte (organiche) di poesia, fra le quali, solo per ricordarne alcune delle più significative, La pazienza (1959), Robinson in Lombardia (1964), L’interpretazione dei sogni (1978), Annales (1985), Coro (1989), L’annata dei poeti morti (1998), Quello che resta (2003).

A livello critico va sottolineata la posizione di Gramigna di fronte alla poesia, al testo poetico. È nota la sua idea di un poema interminabile. Idea che differiva da quella di Eliot: Eliot diceva di un poema interminabile riferendolo alla creatività europea, o comunque occidentale. Gramigna considerava interminabile il testo poetico in quanto scritturale, segnico processo biologico, senza finalità e senza fine. E proprio per questo aperto (per riprendere la ben nota definizione di Eco) non tanto ad arbitrarie interpretazioni, bensì a coerenti e conseguenti sempre nuove letture. Poiché il testo poetico prolifica per sua stessa natura. Per ambiguità e per in-leggibilità. In quest’ambito Gramigna era pienamente cosciente dell’accusa di arbitrarietà, e si chiedeva espressamente: che cosa suggerisce una lettura simile se non che l’inconscio del testo può parlare del suo indecidibile, una lettura lineare occulta sotto un discorso senza residui? Avventurandosi in questa lettura archeologica – nel senso che alla archeologia dava Freud – si avverte, ribadiva Gramigna,  di essere meno lontani dal bersaglio proprio quando si arrivi a scavalcare le grandi figure, le strutture fantasmatiche canoniche, le sceneggiature profonde, per attivare ciò che sembra muto e vuoto. Ribadiva: «Riappare il problema dell’arbitrario. Esso non si scavalca se non si abbia il coraggio di farne una categoria o meglio un passaggio della lettura analitica…». Così si possono sintetizzare alcune linee ineludibili della vicenda originalissima della poesia di Gramigna. E in ciò si può fare riferimento a Stefano Agosti, uno degli interpreti più acuti del testo di Gramigna.

La illeggibilità dell’opera aperta che si protende appunto verso la in-leggibilità: viaggio nell’in-significante. Per dirla proprio con Agosti: «la parola autentica del Soggetto sarà quella che si situa all’estremo opposto della parola semantica più piena e più vera, con la quale permane in contatto o di negazione o di distanziamento o di stravolgimento».

Vale inoltre il valore costruttivo, perciò insistito e illimitatamente arricchente, della citazione e del meta-discorso, che avvia la propria poeticità nell’alveo del poema interminabile, inteso come autoformazione e metamorfosi genetica della parola in assoluto.

«La costituzione… [di una]… lingua del residuo, di questa lingua che parla per sottrazione del dire…». Qui è ancora Agosti che nota citando anche Contini: «Una parola tendenzialmente portata a quei minimi di senso […] tuttavia depositari, per il Soggetto, dell’unica garanzia di autenticità…». Ma, si può osservare, quei minimi di senso sono la totalità dell’essere, inspiegato, inspiegabile, ma tangibilmente vivo. Il testo poetico presente tra le cose presenti… che vengono da lontano…

I riferimenti formativi, citazionali – elementi liquidi (lemma caro a Gramigna) della struttura idraulica di questo sistema – sono dichiarati esplicitamente da Gramigna e il semplice elenco può essere chiarificatore in maniera totale e insieme metamorficamente ambigua: Eliot, Pound, Dylan Thomas, Perse, Brecht; e ancora Montale, Sereni, Caproni, Contini; e sempre Lacan e Freud («il punto di virata», com’egli affermava). La conseguente rilettura di Baudelaire, di Joyce, di Valery, di Zanzotto. E infine – ma senza fine –, come osserva lo stesso Agosti, l’infatuazione radicata e duratura «del molto ammirabile Stephane Mallarmé, convitato di pietra, letto, riletto, venerato e sempre impraticabile».

I saggi che qui abbiamo proposto  sono attraversati, come si può vedere, da alcune di queste suggestioni, oltre alle quali va notata la misura ragionativa, tipica di Gramigna, secondo cui partendo da una citazione apparentemente minima e accidentale si giunge, passo passo, per associazioni, a conclusioni sempre provvisorie di grande peso e respiro. Vale a dire a un sistema aperto di lettura.

(G.F.)