I mille graffi di Milli Graffi

Voglio cominciare la mia presentazione partendo da una certa poesia di Milli Graffi, che sta nel volume Mille graffi e venti poesie,uscito nel 1979 – ma il testo compare già un anno prima in un volumetto collettaneo e multilingue, anzi gli dà il titolo: segno che anche l’autrice lo sentiva come punto qualificante del proprio lavoro. Il testo s’intitola: “La poesia è un luogo”.

Ho detto: punto qualificante, perché non presenta semplicemente un’idea o un motivo, ma un dato su cui si fonda il fare/non fare poetico. Tanto è vero che, se non ricordo male, Milli lo ha preso come tema di un recente convegno.

“La poesia è un luogo” è enunciato che io intendo così: che ogni poesia determina, apre, crea se volete (ma è un verbo che non mi piace molto) il luogo in cui essa avviene come poesia. Un luogo che non si dava prima e nemmeno si dà dopo. È il luogo istantaneo dove trovano spazio, e causa, per prodursi le armoniche lessicali, metriche, figurali della poesia.

Mi torna in mente un passaggio del Coup de dés di Mallarmé: “Rien / n’aura eu lieu / que le lieu”, che in italiano può tradursi letteralmente: Niente avrà avuto luogo all’infuori del luogo – che è molto brutto ma permette di restituire il gioco di parole, il rispecchiamento interno di parole: aver luogo... luogo. Difatti ogni poesia è un luogo, e questo luogo non è altro che un luogo (forse si dovrebbe dire: il luogo) che non ha bisogno di qualificazione.

Ciò è tanto vero che il testo di Milli Graffi fa seguire a una sequenza negativa (“Non è un luogo di solitudine... non è un luogo di scampagnate… non è un luogo di transito… non è un luogo di baratti... non è un luogo di filologie… non è un luogo di tensioni...”) una sequenza simmetrica e positiva (“È un luogo di affinità elettive… di capricci… di bastardate... di false magie... è un luogo di effimero gregariato… è un luogo di stabili illusioni...”)

 È pertanto un luogo che si definirebbe per attributi opposti: che vale quanto dire, che non si definisce affatto; un luogo che è e non è, in quanto vi avvenga, venga avanti, venga in scena una poesia.
Tale avvento è un avvento di felicità. Milli scrive: “La certezza delle incertezze reca felicità”. Questa “felicità”, che a scanso di equivoci metterei fra virgolette, è la felicità del testo, che, se vogliamo, è anche quella del poeta; e il lettore la percepisce come gratificazione del luogo che c’è. “Si ha la sensazione di dover scoprire, / ma non si ha la sensazione di stare per scoprire. / Eppure le operazioni recano felicità”. Tutto è legato all’incertezza, ossia al caso che, come prova anche il poema mallarmeano appena citato, è un elemento indispensabile della poesia.

Il luogo della poesia di questo libretto – ogni pezzo ha il suo luogo unico e inconfondibile, l’ha già detto – è il teatro di un moto continuo di scomposizione e ricomposizione della lingua. È davvero un “luogo di gibigianna” (cito Milli Graffi). Guido Guglielmi, in una nota introduttiva, accenna a un orientamento sul “livello ritmico del linguaggio, sulla serialità fonica, sulla scoperta di gerghi e soluzioni improbabili..” Che è giusto, ma coglie solo i primi strumenti del lavoro di Milli Graffi – il quale lavoro sfugge subito, è opportuno dirlo, al sospetto di essere un prolungamento di “avanguardismi”, come si dice con termine che nasconde poco il disprezzo – disprezzo che per altro non mi sento affatto di condividere.

Semplicemente, Milli Graffi parte dal luogo fondamentale che la poesia è un luogo: e tutto discende da questo: nei suoi effetti positivi e nuovi e anche, perché no?, nelle sue difficoltà.

“Lavoro per una ricerca della parola sulla propria origine” (cito di nuovo la nostra autrice). “La parola, come materiale è sempre una traccia, un sintomo, un segmento irriconoscibile di perdute munificenze e completezze”. Litura: luogo cancellato, parola cancellata – tanto per scimmiottare Lacan.

Sulla questione dell’esserci e dell’essere cancellato, ci sarebbe da dire. Adesso vorrei attirare la vostra attenzione su un altro aspetto di Mille graffi e venti poesie. Mi osserverete, forse, che indugio un po’ troppo su questo primo libro di Milli. È un libretto che io amo molto, – ma questa non sarebbe una buona ragione: qui non si tratta delle mie preferenze ma della poesia di Milli. È tutto pervaso da una inventività, da una gaiezza verbale: instancabile nei suoi calembours, al punto che la sua lettura potrebbe essere commentata in parallelo da quella del Motto di spirito freudiano.

Dunque, io attiro la vostra attenzione su quell’enunciato complesso che sta in copertina, e che è costituito dal nome dell’autore e dal titolo del libro: Milli Graffi. Mille graffi e venti poesie.

 Che cosa ha fatto qui l’autrice? Mutando una lettera finale del proprio nome (Milli vs Mille) ha prodotto un piccolo Witz, un piccolo gioco di spirito, che rilancia il titolo della raccolta dal centro, direi dal cuore del proprio nome.

Questo però è solo il primo più semplice, ovvio rilievo. Possiamo aggiungere, considerando l’enunciato con un po’ più di attenzione, e nello spirito – è il caso di dirlo! – di quanto si è elaborato finora, possiamo aggiungere che con tale artificio Milli Graffi ha, in qualche modo, fatto funzionare il nome, il proprio nome, rendendolo attivo, poeticamente attivo, là dove (la copertina di un libro) esso è di solito un mero avviso indotto dalla pratica.

Ma qui l’insieme nome/titolo non è un semplice paratesto, rappresenta la prima parola del testo, e come tale, come testo insomma, va considerato.
Attivare il nome (proprio) Milli Graffi fino dalla prima parola, farlo entrare anch’esso nel lavoro della poesia, significa che il nome interviene a produrre il luogo dove agisce la poesia di Milli Graffi.

Faccio notare che nel processo il nome proprio ha patito una doppia modificazione: Milli è stato surrogato da un numerale, mentre Graffi è stato per così dire scoronato della sua maiuscola, passando a nome comune.

Evento di non piccolo rilievo. Il nome proprio non rinvia a una cosa, a un fatto, a uno stato, ma esclusivamente a sé stesso: è un’insegna, un simbolo, una tautologia che fonda un’identità. La maiuscola in qualche modo è il collante di una sequenza di lettere, sequenza autosignificante e insostituibile. La sua caduta dà il via a un processo di frammentazione, di disseminazione di lettere: il che giustifica il detto di un analista di ingegno “che ci sono solo lettere minuscole” – nell’inconscio, s’intende.

 È ciò che accade anche in campo poetico. I nomi, tutti i nomi non corrispondono a cose della realtà sensibile: sono significanti muniti di un valore in proprio, che si frammentano, si ricompongono, si incrociano, si trasformano, spalancano vuoti e li sutùrano.

Andiamo a consultare Mille graffi per cavarne subito un esempio. “Criavola” è un testo che opera esclusivamente sul ricorso del gruppo fonematico “sf”: (citazione: “sfiocina aggettivi / sfascia le vocali” etc pag.22) secondo una programmazione insieme rigida e gioiosa. Una pagina più in là, “Larve a salve” non gioca solo sulla tastiera delle assonanze e consonanze, della “variatio”, ma proprio sul regime del nome, “larva” / “larve” che, assoggettato a una ripetizione ossessiva, si sfarina in lettere che emigrano attraverso tutto il testo come spore generative del pensiero poetico – frammenti di nome che, paradossalmente, proprio nella ripetizione sembrano volersi ricomporre non in un nome comune, con l’iniziale minuscola, ma in un nome proprio (con la maiuscola), simbolo, formula magica.

Ci si accorge dunque come in una stessa composizione, intorno al nome e alla lettera, si producano effetti opposti.

“La parola invisibile è divisibile” (cito da un’altro testo di Mille graffi): il lettore scopre che dietro la parola scritta, nella serie delle omonimie, delle paronomasie, dei lapsus, non tanto si nasconde ma funziona in latenza una “parola invisibile”, anzi, una lettera invisibile. Ne “Il ferocissimo oliatore universale”, proprio in chiusa: “tracascia nel trespero incascio”, perché non cedere alla tentazione di misleggere in “incascio” la forma deforme di “inconscio”?

Ho forzato i testi, con questa lettura? Me ne rallegro. Milli Graffi, per fortuna, come poeta non è uno spirito forte, cioè pesante, ma uno spirito leggero: che non ci impone un codice determinato rigorosamente in ogni suo aspetto, ma la possibilità, l’ipotesi di un codice, la cui incompiutezza e forse incompletabilità è in funzione di una scrittura/lettura contemporanee. Come dire, che ci offre tutto lo spazio necessario per diventare lettori – intendo: lettori utili.

Tuttavia i due libri successivi di Milli Graffi, Fragili film (1987) e L’amore meccanico (1994), sono lì a provare che si dà spostamento, cioè movimento, sviluppo in una poesia (o poetica) che sembrava così felicemente inchiodata a se stessa.

Fragili film recupera qualche testo del primo libretto, e continua la dispersione combinatoria della lettera con esiti di incongruità imperterrita (“strugio ammanticolo e ismorata gravipendula”). “Poemetto sulle ombre” interseca movimento (scambio) di lettere ma anche di lingue; in “Fiore del suono” i salti verbali/mentali sono semplici ed eufonici ma senza scrupoli, intendo dire che non si lasciano comandare dall’obbligo di un senso, sia pure possibile. (E si vada a leggere la sezione “Il fiore all’occhiello” con l’inopinata apparizione di un erbario attraverso le deformazioni, gli slittamenti dei nomi (propri o comuni?).

 Ma nel libro (e mi pare che lo testimoni la nota finale della scrittrice) si profila un elemento nuovo: un’attenzione alle strutture, “strutturazioni basse, da architettura antisismica” (è una citazione). Ricorro malvolentieri al termine struttura, ormai consumato all’osso non solo nel linguaggio letterario ma quotidiano: qui voglio intenderlo come il modo particolare di una poesia di articolarsi alla costituzione di un luogo. Ne L’amore meccanico, l’opera più recente, il lettore vede comparire un procedimento più complesso di dare forma al luogo. È ciò che si potrebbe chiamare lo stile attorcigliato, dove più sequenze si incastrano, meglio ancora: si attorcigliano l’una all’altra. Indico un esempio in “L’improvvisa seta” o ancora nelle “Proposte del laburista onirico”, che considero, insieme con “Su una poesia di Corrado”, un testo altamente significativo del libro.

Proporrei, con qualche precauzione (e approssimazione) terminologica, di segnalare nello sviluppo del lavoro di Milli Graffi il passaggio da uno Spazio del Numero, che è quello dove si giocano le combinazioni e le sostituzioni della lettera, allo Spazio delle Architetture (verbali) – che non sono due momenti in opposizione o in esclusione reciproca.

Così la frammentazione/disseminazione della lettera che, come ho cercato di mostrare, impronta un libro come Mille graffi e venti poesie, si rinnova ne L’amore meccanico, innestando il dis-ordine del significante nell’ordine legale, prefissato della sestina (“Sestina minima”), che muove dalla lettera alla catena verbale pseudo organizzata.

Mi fermo qui. Ma mi preme di ribadire che con questa chiacchierata non mi sono proposto di offrire il diagramma di un lavoro poetico che avanza di tappa in tappa, fatalmente, da A a B, a C; ma di restituire un’immagine dei movimenti, degli sconquassi di una gaia scienza/incoscienza del linguaggio.
Mi rammarico di non essere riuscito a escogitare una forma espressiva più omogenea all’inconvenzionalità dei testi, di quanto non concedano i cari, vecchi strumenti che la pratica critica ci mette fra le mani.
Ma basta con le usurpazioni. Adesso il luogo tocca di diritto all’autore.