Le armi l’amore di Emilio Tadini

Questo romanzo, il primo di Emilio Tadini, uscì nel 1963. Coevo, in parte omologo al lavoro della neoavanguardia ma insieme autonomo, Le armi l’amore, a ormai venticinque anni di distanza resiste benissimo alla rilettura, non solo per l’impatto emotivo ma per i modi dello sperimentare. Resiste, dico, nell’unica maniera possibile: trasformando, senza smentirsi, ciò che voleva dire quando fu offerto ai lettori e a un momento culturale.

La “bella ingenuità” o naïveté che si suppone in ogni autore giovane, approdato a una prova d’impegno dopo esordi positivi in prosa e in verso, ha forse infuso al testo una doratura, che lo isola adesso da tanti altri prodotti letterari, anche rispettabili, di quegli anni, e dei successivi. Sicché la sua perentorietà di unicum risalta molto più al lettore del 1988 che a quello del ‘63 – senza pregiudicare beninteso ciò che Tadini scrittore è diventato nel corso di un’attività narrativa tanto coerente quanto misurata, con i due romanzi L’opera (1980) e La lunga notte (1987).

Anche il titolo dice qualcosa: prima di tutto con la sua morfologia, con il rifiuto dell’apostrofo (Le armi, non L‘armi...) che farebbe correre troppo la voce in una sorta di cantabile, con ovvio richiamo all’incipit ariostesco; e la parallela soppressione della virgola, così da essere invitati a leggervi non una successione ma una opposizione.

Un richiamo al titolo lo si troverà del resto in due punti simmetrici e opposti del racconto. All’inizio, alla partenza della spedizione da Genova, attraverso la sequenza volutamente facile, quasi strumento mnemonico, “donne, armi, bandiere, e amore, e dolore, coraggio”, capace di “ridurre ogni cosa in semplici immagini e sentimenti elementari” – compendio di ciò che il romanzo non sarà, non darà... Verso la fine, in una piega delle sezioni devolute al racconto del “possibile/impossibile”, dove compare come esatto calco del titolo e altrettanto criptico, anche in rapporto al contesto: a significare la vita e la morte, o piuttosto qualcosa che sfugge a entrambe?

L’asindeto in frontespizio garantisce solo una cosa: che non sarà per nulla agevole trasferire i segni, i simboli che gremiscono il libro in una catena discorsiva che li riconnetta a sentimenti riconoscibili, a interpretazioni precise e chiarificanti.

 Ciò che fa nodo nel libro è proprio la renitenza all’ermeneutica nel senso corrente, o corrivo – e con tanta più energia quante più interpretazioni il testo accumula a ogni passo. Al punto che la metafora che viene spontanea al lettore è quella di un lavoro d Sisifo, di qualcuno che inzeppi sempre più roba in un contenitore, senza mai riempirlo.

Tale renitenza si accoppia poi – e bisogna dirlo subito per non dare un’immagine sbagliata del romanzo e dei suoi effetti – con una seduzione di lettura innegabile. Una volta che accetti di collocarsi sotto il segno di questa contraddizione, forse più apparente che reale, il lettore entra a fare parte delle sinuosità, delle segmentazioni ostinate, dei ritorni e ripetizioni che sono la sostanza del libro. In certo senso, questo romanzo che sembrerebbe tutto di testa e di astrazione, implica da parte di chi lo legge un’assunzione che saprei solo definire corporea. È col proprio corpo di lettore che egli registra il raggiro della scrittura.

Ma Le armi l’amore non è poi un romanzo “storico” o addirittura “epico”?

La fabula direbbe di si: visto che vi si racconta un episodio di storia patria, passato addirittura in mitologia popolare con Luigi Mercantini e la sua La spigolatrice di Sapri: la disastrosa spedizione, anno 1857, del barone Carlo Pisacane, sbarcato con un gruppo di patrioti prima sull’isola di Ponza, poi sulla costiera salernitana, nella illusione di innescarvi una sollevazione contro i Borboni; e finita, come ognuno sa, nella sconfitta dei trecento e nel suicidio sul campo di Pisacane.

Il disastro è inscritto subito nella grammatica – nella frase d’apertura: “Come se tutto fosse già cominciato…”, che situa I’azione nel periodo ipotetico, nella mera congettura, di là da ogni prova di realtà; o se si preferisca, nell’ordine del già consumato ab aeterno, dunque immodificabile – un impossibile (a riuscire) che si può anche scrivere in quest’altro modo: “ Vuoi che ti dica che niente ancora è accaduto?”

Con tale liquidazione preliminare, resta ben poco alla storia da offrire al romanzo, se non un canovaccio. Difatti, Tadini ne deduce appena alcuni punti per articolare la sua, di storia. Anche i pochi nudi fatti, i pochi personaggi (la moglie di Pisacane, per esempio o la giornalista inglese che potrebbe rinviare a Jessie White Mario) bruciano e si trasformano dentro la fornace del racconto, in figure unicamente riconducibili a una necessità interna del discorso narrativo.

Il quale si articola tutto intorno a un pronome, quello di terza persona: lui, che si intende riferito al protagonista della vicenda raccontata e dell’episodio storico: Carlo Pisacane. Ma quando dico “che si intende riferito”, chiamo in campo una conoscenza esterna al romanzo. Non c’è punto del libro in cui Tadini introduca il nome di Pisacane o un riferimento esplicito a tale personaggio storico; né d’altra parte qui si fa accenno in chiaro alla spedizione del 1857 o a una geografia più che sommaria: Ponza, l’isola, la terraferma, Londra, Lugano, Parigi ossia i luoghi dell’esilio.

Ecco enucleato un primo aspetto caratteristico di Le armi l’amore, e cioè la necessità per il lettore di disporre di un sapere aggiuntivo, se voglia percepire il testo come rispecchiamento romanzesco di avvenimenti reali. Tale sapere gli sarà fornito, eventualmente, dai suggerimenti del risvolto, dalle proprie memorie di lettura, dalla capacità di collegare certi aspetti narrativi con dati della storia eccetera; ma dunque sempre da qualcosa che sta fuori dal racconto.

Di per sé, il racconto si chiude strettamente su se stesso, ricusando di fornire informazioni che non siano quelle prodotte dalla sua qualità di testo verbale, dalle sue forme, dalle sue ragioni di testo – o al massimo ne fornirà di smozzicate, erratiche, deliberatamente ingannevoli.

Tuttavia questa va subito detto: che il rigoroso, quasi violento autoriferimento, è proprio quanto attira e lega il lettore al testo, creando un campo di tensione assolutamente autonoma e irrecusabile.

Il lui, intorno a cui s’impernia il racconto, sembrerebbe il massimo dell’impersonalità, essendo la terza persona, in opposizione alla prima e alla seconda, la non-persona per eccellenza – secondo le osservazioni (grammaticali) di Benveniste, che peraltro proiettano effetti ben al di là della pura grammatica.

In realtà, questo lui, messo al centro del romanzo, costituisce uno scandalo flagrante, una contraddizione vitale. Presentandosi come luogo vuoto, luogo dove potrebbero scorrere un’infinità di soggetti, o nessuno, esso è il punto in cui si condensa una carica violenta che dirama energia per tutto il racconto.

Importa poco – relativamente – che lui sia Carlo Pisacane, personaggio risorgimentale... Questo sostituto verbale rappresenta qualcosa di più: l’energia, il desiderio di raccontare. Non per nulla il romanzo gli mette al fianco il colonnello-poeta, la moglie, la giornalista inglese come interlocutori privilegiati, che gli rimbalzano il discorso, consentendogli di volta in volta di trasformarsi da lui in tu, in io.

Le armi l’amore è un romanzo in cui sono totalmente cancellati i nomi propri – dunque si direbbe una negazione radicale della essenza stessa del romanzo, che è in certo senso tutto fatto di nomi propri, di lembi di reale inconfondibili e irriproducibili, unici. Ma quanto ho cercato di dire, sia pure sommariamente, può lasciare intendere come Tadini abbia fatto di tale contraddizione di partenza, alla fine, uno strumento per reintegrare il suo romanzo nel romanzo.

Quanto alle contraddizioni: il racconto fa di lui/Pisacane, non so con quanta fedeltà storica, la figura di uno che più che nell’agire si assorbe tutto, si consuma nel dibattito sull’agire. La parte del romanzo che narra la navigazione, lo sbarco, il procedere del piccolo esercito di paese in paese, nel vuoto che la paura, l’ignoranza, l’equivoco popolare dilatano intorno al drappello sacrificale, è costituita più che da atti bellici da atti verbali: discorsi, analisi, interpretazioni infinite di ciò che è accaduto e di ciò che potrà accadere.

In qualche modo, lui più che con le armi, la strategia, la guerra, la rivoluzione – ma anche più che con il destino, la morte propria e altrui – ha a che fare con le parole. C’è una sequenza fortemente simbolica, in cui, mentre già la spedizione si avvia al disastro, lui si siede al tavolo e comincia a scrive un proclama o ordinanza – e i paragrafi, prima chiari e ordinati vacillano e sotto una pioggia continua di aggiunte, correzioni, spostamenti, finiscono soffocati in un ”blocco compatto e complicato”, dove ogni centimetro quadrato del foglio “sarà coperto di parole e di segni”.

Qui il personaggio sembra significare non appena la propria natura ma la natura del libro, del lavoro letterario di Tadini; – ed è pure il punto dove ciò che si presenta come fonte di debolezza si capovolge in fonte d’energia.

Che energia? o meglio: come, questa energia? Una risposta può venire se si passi alla materialità del testo considerato nelle sue stratificazioni.

Come è stato subito rilevato dalla critica, Le armi l’amore è tagliato longitudinalmente in fette; per essere più precisi, risulta da un intreccio di livelli, tre in effetti, distinti ciascuno dalla scelta di un tempo grammaticale.

Così, il racconto dei fatti, cioè dello sbarco, delle marce, delle schermaglie, dell’ultimo scontro, presenta tutti i verbi al futuro – che qui non figura il tempo dell’aleatorietà ma di ciò che sta scritto nel di là da venire: drammaticità irreale della legge (la legge parla sempre al futuro...), che sottrae ogni gesto al suo autore, isolandolo in una distanza inviolabile.

Imperfetto e piùcheperfetto designano invece la zona della rimemorazione: episodi dell’infanzia del protagonista, con il fratello maggiore e la sorella; dell’adolescenza all’accademia militare; della emigrazione politica a Lugano, Parigi, Londra; dell’amore per la donna che diventa sua compagna abbandonando con scandalo il marito. Dunque, tutto ciò che è avvenuto prima della spedizione e che a tratti torna a invadere la vita: anche questo, qualcosa che non si può più modificare ma che almeno permette una molteplicità di interpretazioni.

Infine il condizionale viene a marcare ciò che chiamerei il possibile/impossibile: quanto sarebbe potuto accadere se lui/Pisacane non si fosse ucciso a Sapri, se l’impresa non fosse fallita: non solo episodi della spedizione, riscritti secondo esito felice, ma anche le delusioni seguite al successo, alla liberazione delle terre borboniche, alla costituzione della repubblica. Insomma, quanto si potrebbe chiamare il sogno della Storia irrealizzata.

In via esemplificatoria, sono stato costretto a separare i tre livelli; ma essi, nel romanzo, si intersecano, emergono di colpo l’uno dentro l’altro, segnalati soltanto, gli ultimi due, da un’occorrenza tipografia, la parentesi, che ne indica la lieve subordinazione rispetto al filone primario, il racconto al futuro. (Sebbene, a pensarci, non sia ben sicuro che si tratti di una subordinazione, e non piuttosto di una mera partizione musicale, e non assiologica).

L’impasto dei tre livelli è del resto ribadito dalla particolare segmentazione del testo, non più affidata a una interpunzione canonica: non si dà punto fermo né conseguente lettera capitale nel trascorrere da capoverso a capoverso, da livello a livello, anzi il principio di contiguità/continuità può esaltarsi in adiacenze iterative, dove il passaggio fra diverse modalità di conoscenza prima ancora che di narrazione viene significato dal variare dalle morfologie verbali nell’identità di radice: “...a guardare, sbalordito, le finestre chiuse, dicendo) e il commesso viaggiatore dirà: Come?” I corsivi sono miei.

Avrà un valore di semplice rilevamento dell’aria culturale del tempo, notare l’“effetto Faulkner” su un certo modo di aggettivazione insistente, cumulatoria (con il privilegio accordato ad alcuni aggettivi, “furioso” per esempio: “nella luce furiosa del mezzogiorno”; “l’attesa di un futuro infuriato”) o sulla struttura spiralica della frase (“tale da far pensare… a una cosa inconcreta come l’idea della bellezza e poi l’idea dell’intera specie cui quella cosa dovrebbe appartenere, come per difendersi dalla lentezza irritante del conoscerla dopo la fulminea rapidità dell’averla riconosciuta…”) o infine su uno schema frastico ricorrente tipo “non...ma”, paranoica correzione del pensiero (“infinitamente stanco, anzi, inattivo, neanche sottomesso ma piuttosto irresponsabile...”)

L’intreccio dei tempi, per essere vistoso non è tuttavia l’aspetto determinante del romanzo, almeno, non lo è da solo. Certo non si tratta di un esercizio gratuito di virtuosismo, per raccontare in maniera complicata ciò che potrebbe dirsi semplicemente. La strategia che implica si collega, come si vedrà, con un sistema di articolazioni preverbali del reale, che giocano, opponendosi, nello spazio della narrazione.

Esse si dispongono secondo tre coppie: immobilità vs Storia, intesa quest’ultima come successione di vicende, trasformazione continua – e il rapporto potrebbe anche scriversi: pulsione di morte vs pulsione di vita, ricordando che nella scrittura di Tadini, come in taluni alti esemplari d’arte barocca, il blocco delle forme simula la tensione più frenetica; luce abbagliante vs chiaroscuro; commentato vs raccontato (termini, questi ultimi, imprestati un po’ da Weinrich, che parla di “mondo raccontato“ e “mondo commentato”, ma con qualche diversità).

Si è visto che fra i tempi verbali adottati da Tadini mancano il presente e il passato remoto, tempi di ciò che emerge perfetto, concluso, nella folgorazione dell’istante attuale o nel distanziamento extracronologico – di puro “fu”.

Ma è proprio questo il filo che connette le scelte verbali alle opposizioni non-verbali di cui parlavo, soprattutto alla diade commentato/raccontato. Se “mondo commentato” sia quello preda di una oscillazione continua, di una precarietà nella quale il narratore coinvolge il suo lettore, con una specie di vertigine che fa mancare a entrambi la terra sotto i piedi: allora le parti di Le armi l’amore marcate dall’uso del condizionale, ma pure del futuro, quel particolare futuro, vi si riconducono di diritto. E al “mondo raccontato”, che si situa nell’intangibilità del detto una volta per sempre (che vale quanto: accaduto una volta per sempre) apparterranno solo – e tuttavia con qualche dubbio – i brani all’imperfetto.

 

Riepilogata in maniera per forza didascalica e successiva, la struttura del libro di Tadini potrà anche sembrare macchinosa, forse eccedente le necessità. Ma alla lettura, i livelli qui laboriosamente specillati, si fondono in una elasticità vitale e addirittura provocatoria. Le pulsazioni del racconto legano di continuo ciò che sta per pietrificarsi e morire della propria stessa esorbitanza, con ciò che si anima di una nuova spinta.

Le armi l’amore non è il romanzo di Pisacane e della sua spedizione più di quanto, mettiamo, Gli affari del signor Giulio Cesare di Brecht siano il romanzo di Giulio Cesare o di una tal quale romanità. Se il lettore sarà portato a intervalli a richiamare alla memoria le pagine storiche che baluginano come in filigrana, non si tratterà di niente altro che una delle lusinghe di cui il romanzo dispone – e abbastanza secondaria.

Alla fine dei conti, questa vicenda di armi e di amore – ma poi così poco d’armi e di amore! – mette in moto qualcosa d’altro, di più importante per Tadini ma anche per il lettore, che può esserne invischiato senza ben saperlo. Si tratta di trovarsi davanti al potere della parola d’istituire il mondo.

La dice più lunga di tante considerazioni, sulla natura di questo romanzo e sulla sua suggestione che dura, il fatto che proprio dalla bocca di lui, supposto uomo d’azione, esca una specie di poetica romanzesca: “Non ti ricordi quando mi hai detto che erano sempre meglio molte parole di poche? ...Dicevi che una parola sola è come una specie di arma ...proprio così: una specie di arma che uccide la cosa, e invece con molte parole si può almeno sperare d’irretirla, la cosa... di catturarla viva, o se non altro di tenerla ferma per un po’, il tempo di…”.

 

(1988)