Su Robbe Grillet

È di Emile Benveniste l’opposizione fra i pronomi ‘io’/‘tu’ ed ‘egli’ come opposizione fondamentale fra persona e non-persona: “la terzapersona non è una persona; anzi è la forma verbale che ha la funzione di esprimere la non-persona”. Nella narrativa di Alain Robbe Grillet, a partire soprattutto dalla Maison du rendez-vous, quest’ultimo regime si estende indistintamente a tutti i pronomi: anche all’‘io’ viene detratta ogni referenza d’individuazione. Colpiti da tale interdetto o dirò meglio svuotamento di quanto attiene allo specifico al personale, esseri, cose, lo stesso locutore si allineano alla categoria dei segni (simulacri) infinitamente fungibili e riproducibili.

La più fiera e costituzionale rivendicazione del Nouveau Roman era stata quella della superficie rispetto all’aborrita profondeur psicologica e metafisica. Il lavoro di Robbe-Grillet si sta giocando tutto, adesso, sul margine: e il materiale mitologico che egli saccheggia da quel thesaurus spurio cui concorrono cinema, pubblicità, TV, letteratura popolare, fumetti, superstizioni visive e auditive quotidiane etc, grondante di sensi convenzionali, feticistici, vi subisce un colpo d’arresto, una standardizzazione di secondo grado entro cui possa (solo possa…) accedere un eventuale altro significato mobile, discontinuo…

Così inquadrato, anche il gioco di etichette fra il Robbe-Grillet chosiste e humaniste vira di qualche grado. Le famose cose non stanno semplicemente lì, lasciano delle tracce. Dire “tracce” non è casuale. La traccia s’inscrive in un luogo, lo determina. Il romanzo robbegrilletiano ha a che fare con la topologia, e non c’era bisogno per saperlo che uno dei volumi s’intitolasse Topologie d’une cité fantôme – è vero che ha anche a che fare con l’archeologia, nella particolare accezione in cui diventa una metafora cara a Freud, e dunque con la psicoanalisi. Ma a questo rapporto si arriverebbe anche da un’altra parte.

Di recente sono andato a rileggermi un libretto minore di Robbe-Grillet, Instantanés, che raccoglie testi scritti fra il ‘54 e il ‘62. Ci sono appunto le cose, caffettiere alberi manichini suppellettili etc ma niente affatto nella loro pesantezza, bêtise cosale, invece riflesse in uno specchio, vero o artificiale. Dunque infinitamente moltiplicabili, ritagliate in silhouettes, citazioni e articolazioni d’immaginario. Una sequenza nella metropolitana, dominata dal grande viso di un manifesto pubblicitario, pertiene già idealmente al metodo compositivo del Projet pour une révolution à New York; e il brano finale, dove un dipinto viene per dir così percorso alla lente nella sua superficie, messo in moto come un fumetto o un film alla moviola e di colpo arrestato, si presenta come assemblaggio di quel materiale d’immaginario collettivo cui ho fatto cenno.

È il discorso per figure, slogans, convenzioni espressive, emotività stereotipe (in cui si comprenda, et pour cause!, anche la vulgata freudiana nel senso più corrivo del termine) che circola a bassa quota (ma esiste naturalmente anche una doxa sofisticata) nella nostra società. Si tratta dunque di un sistema di significati che il romanzo di Robbe-Grillet ha il compito di rimettere in moto come significanti.

Se dico “mettere in moto”, ecco che ritorno a una disposizione di posti. Le cose robbegrilletiane, se ancora le vogliamo chiamare così, sono sagome, profili che presuppongono degli spazi dietro la loro bidimensionalità: si capisce il ricorso nei testi di Robbe-Grillet, fino all’ultimo, Djinn, di manichini, contorni trompe-l’oeil, disegni, fotografie, che per sfondamento o rotazione immettono in unanuova spazialità diegetica.
In una lettura di Djinn ho creduto di potere delineare, attraverso un modulo di distribuzione dei posti in cui alternare soggetti, oggetti e funzioni, lo slittamento successivo, come nel gioco dei quattro cantoni, dei discorsi che costituiscono il libro, finché topologia e senso vengono ad incrociarsi secondo una significazione più complessa.

 Ricorderò appena che Bruce Morrisette ha fatto ricorso alla topologia per Robbe-Grillet, partendo dal Projet – il nastro di Moebius, i vermi di Klein per figurare il passaggio dal racconto contenente al racconto contenuto. Anche in Djinn é questione di spazi però del tutto particolari, che vengono costituiti, anziché dall’enunciato, dall’atto di enunciazione, dai rapporti di discorso che s’instaurano fra le varie istanze e funzioni narrative. Anche la barra che separa significante e significato nel ben noto algoritmo di Saussure è alla fine un operatore di dislocazione.

Per concludere, per finire senza concludere, come é più conveniente: si possono avanzare due suggerimenti in forma di domanda. Il romanzo robbegrilletiano, specie negli ultimi avatar, va considerato come una serie di elementi discreti, in opposizione al romanzo dirò così tradizionale? Se in quest’ultimo, di là dalle rotture e dagli scarti dell’aneddoto e delle strutture, si conserva la continuità mai inficiata, mai messa in dubbio, dell’atto di locuzione narrativa; le dislocazioni del dire proprie di questo eccitante esemplare del Nouveau Roman ne determinano invece una segmentazione che può essere forse colta e analizzata come tratto distintivo. Con un codicillo, tuttavia, solo in apparenza contraddittorio: che questa vistosa costruzione a buchi, a trous, mette capo ad alcunché di chiuso, di privo di sfogo. Qualcosa é stato chiuso fuori ed ha a che fare, sembra di capire, con il godimento sempre ripreso, mai compiuto.

E ancora: le famose cose... Vedere se (e come) l’antica, e presunta, mancanza di senso non sia altro che l’effetto del loro presentarsi come oggetti del processo primario… Un oggetto a piccolo, secondo nota espressione; oggetto del desiderio o meglio del passaggio del desiderio ma anche del rigetto. Nella fortissima erotizzazione del testo robbegrilletiano, questa prospettiva ha possibilità di rendere ragione di molte pratiche e di molti risultati. Pensavo, per esempio, all’uovo, alla scarpa dal tacco alto, al letto-relitto che deriva da Topologie a Souvenirs du Triangle d’or; agli ostinati feticci sadici. Viene da credere che quel rigetto si connetta alla ripetitività che comanda così visibilmente la tecnica compositiva di Robbe-Grillet, e dunque alla pulsione di morte. E se il non-naturale, l’a-naturale a cui fa volentieri riferimento Robbe-Grillet come base della sua narrativa, non fosse che un’altra faccetta di quella pulsione? Dopotutto, per l’essere parlante la morte é un atto culturale per eccellenza.