La traccia dell’imperfezione

«Anterem» “Scritture di fine Novecento”

Già nel titolo dell’antologia si incontra un termine critico in ogni senso: “Scritture di fine Novecento”. Dal semplice riferimento a una cronologia di storie letterarie: il Novecento.., il concetto di “fine” può scivolare alla “scrittura” e chiamare in causa il suo antonimo: fine e inizio.

Dove comincia una scrittura, qualunque scrittura? dove finisce? Ricordo che Frank Kérmode, nel Senso della fine, ricorreva al modello, infimo, del tic-tac dell’orologio: una modesta genesi, e una debole apocalisse. Vedo che in generale, negli scritti di presentazione di questa antologia, si è messo a fuoco essenzialmente il momento della genesi. Portato nel campo della letteratura, è, come osserva Maria Corti, il problema della creazione linguistica, del significato del linguaggio poetico.

Ma Aldo Tagliaferri ha ragione a fermarsi sulla constatazione che il principio non è l’origine. Dove ha origine la scrittura o, se volete, la parola poetica?

L’ante con cui per forza ci si scontra, che sta scritto sul frontespizio della rivista «AnteRem», mette in imbarazzo non piccolo. La rivista, nei testi teorici, ma anche creativi, pubblicati ipotizza “un luogo della nascita delle parole dove ancora le cose non ci sono e le parole sono ancora un prima, un ante rispetto alla cosa”. Nel 1910, Freud scrisse un breve articolo sul libro del glottologo Karl Abel, “Significato opposto delle parole primordiali”, dove si sosteneva che nell’antica lingua egizia, ma pure in altre lingue, anche europee, si davano parole portatrici di due significati opposti contemporaneamente. Poco importa il fatto che la filologia successiva abbia battuto in breccia le tesi di Abel; esse servivano perfettamente la concezione freudiana per cui l’inconscio non conosce contraddizioni, come il sogno, che esprime con la stessa raffigurazione anche un elemento contrario: e insomma un desiderio può venire espresso con il suo “desiderio antitetico”.

L’ho ricordato per chiarire questo punto: che il prima d’ogni parola non sarebbe una langue suprême come diceva Mallarmé, la lingua unica, assoluta, madre di tutte le lingue, ma il luogo abitato dal fantasma – diciamo pure: un fantasma.

Mi sembra molto significativo che nel fantasma vadano ad annodarsi parola originaria, desiderio e inconscio. In un altro famoso articolo freudiano, “Un bambino viene battuto”, il fantasma perverso si articola secondo i cambiamenti sintattici della frase in questione. Anche la sintassi, dunque, è  libidica. Secondo l’algoritmo del fantasma prospettato da Lacan, soggetto e oggetto a, ossia oggetto del desiderio, sono separati-legati da una losanga, un poinçon, un punzone che potrebbe anche visualizzare il movimento interminabile del poeta in caccia del mot juste… Corsa senza interruzione, lungo i bordi, come quella dello scoiattolo o del topolino chiuso nella ruota che gira.

Viene detto in una pagina di questa antologia (precisamente da Rella) che ciò che accade nella poesia non è l’evento ma la parola stessa. Ma l’ante della parola? Sarà, ipotizza, il luogo del fantasma originario dove si produce la scrittura apparizione/sparizione del soggetto nella parola significante. Momento prelinguistico che si adempie in lingua.

Possiamo supporre che il testo poetico inizi nel segno della contingenza: che “smetta di non scriversi” secondo una terminologia anche questa lacaniana. Però tale contingenza è interna alla necessità di una scrittura che “non smette di scriversi”, contenendo tutti i poemi passati e futuri, virtuali e in atto, come lavoro interminabile.

L’inizio e la fine di un testo non sono un imbroglio ma una sembianza. La scrittura si caratterizza proprio nel doppio aspetto di rendersi visibile con un principio e una fine, ma poi nell’investire entrambi i termini con una intimazione d’immaginario. La scrittura poetica è una scrittura simbolica, ma il suo prodursi si lega all’immaginario – giace nella intersezione di due piani.

I testi raccolti nell’antologia di «Anterem», che provengono anche da autori già ben noti, come Balestrini, Cacciatore, Finzi, Graffi, Porta, Sanguineti, Zanzotto, e cito i primi che mi vengono in mente, mi pare che, di là dalle storie singole e dai vari risultati, lavorino nella direzione di una certa poesia o modi di scrittura di cui ho cercato di abbozzare le peculiarità. Intendo, una poesia di rischio, cui mi sembra abbastanza estranea tutta una produzione attuale, omologata in modo rassicurante, e dunque sconfortante, su moduli anche intelligenti, anche eleganti, di normalità, perfino di uno sperimentalismo del tutto addomesticato.

Ma la scrittura sta sotto il segno dell’anormalità. Vorrei continuare il mio saccheggio delle note che introducono le varie sezioni dell’antologia, per sottrarre a Ermini l’accenno alla imperfezione come carattere insopprimibile di un testo, e della sua provenienza. Lo qualificherei insopprimibile perché distintivo. Il testo poetico è tale in quanto non ricomponibile in una unità, meglio: in una opacità, senza crepe, mancamenti e catastrofi. Il testo è percorso dal dubbio di “non farcela” : anzi, il sospetto di non farcela, di là da tutte le retoriche della “poesia perfetta”, è la poca garanzia che possiamo richiedergli.

La traccia dell’imperfezione segnala l’ultima conflittualità vitale della scrittura, il rifiuto a solidificarsi in un risultato, a normalizzarsi; in certo modo è l’apertura su un’altra lingua – pronuncio “altra” come se fosse scritto fra virgolette. Così, anche la questione dell’origine e della fine, per quanto importante, non sembra così sostanziale come si credeva.