Le formule del desiderio di Gilberto Finzi (1977-1981)

1. Morire di pace. Autobiografia: un cartellino referenziale così compromettente (in senso emotivo) non può che accompagnarsi con vantaggio a un testo che invece dichiara fin dalla prima occhiata la propria natura di quid medium, di anfibio e quindi chiede di non essere misurato secondo canoni e generi.

Se non sarà antifrasi, il titolo premesso da Gilberto Finzi a questo suo poemetto conterrà almeno una profilattica ironia, già esplicita nella “premessa” che gioca su uno scambio di “modelli” (“romanzo” / “poesia”). Ma il carattere fortemente doppio del testo, carattere che, nel corso di questo appunto, si intende connotare come positivo, non risiede tanto nell’apparente opposizione prosa/verso, quanto neI carattere composito del suo impulso espressivo. Ancora fino a Ungaretti, sia pure in modi non romantici, la “bella biografia” (o autobiografia) è stata una costruzione; qui l’intento sembra furiosamente opposto, una decomposizione delle “decenze” o della storia, di cui il profilo a denti di sega, frantumato, del discorso metrico è appena una manifestazione (non si tratta, e Finzi lo sa benissimo, di interrompere soltanto abitudini fonetiche e letterarie, come annotava in coda ad alcune poesie raccolte nella plaquette L’Alto Medioevo nel suo più brutale ricorso, ai nostri giorni).

L’illusione d’innocentarsi, a ogni livello, nella poesia sembra definitivamente dileguata “dove si rischia l‘apologia del niente”.

Parlando dello “stile dell’autobiografia”, Starobinski configura l’autobiografia come “entità mista, che si potrebbe chiamare ‘discorso-storia’…”; quindi medium fra il racconto in terza persona di fatti e l’elocuzione personale che si dirige a una controparte o magari a se stessa. Il poemetto di Finzi è scandito da riferimenti cronologici, dal 1943 al 1957 ed oltre: confessione di un altro “enfant du siècle”, dunque attigua a una “storia” generazionale, o dizione demente di uno stato esistenziale? Il poemetto si svincola dal dilemma non conciliando ma facendo interagire dialetticamente attraverso tutte le sue “stanze” i momenti della “storia” e quelli del “discorso”.

Con un taglio verticale del testo è idealmente possibile individuare almeno tre strati o falde la cui reciproca implicanza non è poi cosi netta come si è costretti a supporre qui per comodità ermeneutica.

C’è una falda o meglio sarebbe dire qualità politica del testo, in senso stretto, determinata non solo dallo svolgersi dell’educazione ideologica di un giovane negli ultimi anni dalla guerra, alla Liberazione, nel primo dopoguerra ed oltre, dal corso delle illusioni di quella che Finzi chiama “la generazione del ‘45”, ma soprattutto da un animus che identifica espressione e azione. Il secondo livello corrisponde alla gestione epica, in significato un po’ brechtiano, che il testo fa della materia politica, dell’impegno dissacratorio e denunciatorio (l’aggressione “ai più qualificati ricostruttori dell’ingiustizia”): qui si dà, insieme con un certo allontanamento ironico della rabbia, una sorta di recitazione caldo-fredda, “passio drammatica” secondo formula usata altrove dall’autore. Infine la zona della realtà linguistica. S’intende che i tre livelli non sono gerarchizzati, non si passa dall’uno all’altro: essi vivono in uno stato di reciproca sospensione e fusione e sono configurabili solo dentro la realtà linguistica.

Una identificazione dei suoi particolari istituti potrebbe cominciare da un rilievo grammaticale: l’estrema incertezza di un pronome cui agganciare il discorso in versi (e in prosa). Il discorso non è assegnabile pacificamente ad un “io” autobiografico, l’io di “colui che scrive”, di colui che testimonia, che ha fatto l’esperienza ecc.; quando anche ricorra in esplicito, l’“io” non ha carattere indubitabilmente autoreferenziale. Del resto più volentieri il testo sembra adibire il “noi”, dove l’individuazione scolora a profitto di una formulazione astorica (“Abbiamo visto. Tutto. Quello che era impossibile vedere...”; “Per gruppi andavamo...”); anche le definizioni sembrano indicare piuttosto gruppi, categorie che persone (“i nullatenenti in libera uscita”) o addirittura, con scherzosa citazione da Dylan Thomas, animali (“il giovane cane”). Il protagonista, se si voglia usare questo termine, del poemetto non sarà dunque né il suo autore (persona storica) e forse nemmeno il suo elocutore (persona letteraria); non sarà neanche la “generazione”. Questo soggetto può essere identificato solo dalla situazione di discorso che lo contiene.

Ora qual è il discorso di Autobiografia? La mescolanza, senza rispetto di zone, fra verso e prosa non è che una delle facce, e nemmeno la più clamorosa, della sua polidirezionalità. Quelle che sono un po’ le marche di un certo corso della poesia contemporanea, l’applicazione parossistica del lapsus, dell’etimologia o paraetimologia, dei cultismi e arcaismi pêle-mêle, delle distorsioni grottesche o furiose, delle inversioni o scardinamenti sintattici (quest’ultimo dato meriterebbe di essere analizzato in una nota meno sommaria), la citazione incorporata o stravolgente (“l’ora dei tempo e la dolce stagione...”, “sulle soglie del bosco non odo parole che dici / umane...” in posizione protervamente privilegiata), non mi paiono qui puri sacrifici a un idioletto culturale, ma vanno tutte reinterpretate nel tipo di scrittura che Finzi è riuscito a costruirsi. La sua originalità più sicura mi sembra reperibile in una unità di misura che è forse, più ancora che fonica o metrica, mentale, fantastica e che scavalca quella che un po’ è diventata l’impasse del “verso lungo”. Tale unità non coincide regolarmente (anche se a tratti può corrispondervi) con il verso e neppure a rigore con la frase: essa ingloba a tratti interi paragrafi, come, per fare un esempio ad apertura di pagina, nell’attacco della sezione 1950: “Sorrow, dove ti nascondi, messaggero, sgherro ecc...” Non è, a stretto rigore, né emozionale né razionale ma è per dir cosi il luogo geometrico degli infiniti punti emozionali e logici dal cui continuo rapporto-scontro prende forma il poemetto.

Se i vari capitoli del “romanzo” di Finzi possono venire riportati a una serie di aneddoti abbastanza precisi (la scoperta della guerra, il primo amore, l’esperienza politica, il primo tentativo letterario ecc.), la vera “storia” di questa autobiografia è la natura dei suo linguaggio, proprio là dove esso tende a farsi, al limite estremo, metapoetico, presa di coscienza delle forme come continuo progetto operativo. Alla fine il linguaggio non è ciò che è, ma ciò che tende ad essere – ma dentro quella unità major, che supera il canone, non è precluso il ritorno perfino alla vecchia metafora o ad libitum a certe sequenze eliotiane (“ai grigi ai lenti ai furbi ai vani ai forti”) o a taluni circuiti analogici surrealisti (“dolci come bonacce di camomilla”: «beau comme l’oxygène naissant»).

Logica vorrebbe che si concludesse con un invito a “scoprire Finzi” il cui lavoro non ha avuto forse finora il rilievo che merita, sull’esempio, si licet, della ben nota formula gidiana. Tuttavia lo scoliasta, anche per fiducia, più che per deferenza, verso il lettore, crede che tale poesia abbia persuasive ed evidenti ragioni per proporsi da sé, senza cauzione altrui, come una delle più interessanti e autentiche di questi anni.

 

2. Il desiderio, contrariamente a ciò che vorrebbe farci credere la nostra esperienza, non riguarda il futuro: non lo riempie come un luogo in cui qualche cosa - il compimento proprio o altrui - deve avvenire. Il desiderio non guarda né avanti né indietro, ha almeno quattro fronti, quante ne occorrono, si direbbe, per enunciare i Quattro Discorsi. Esso è un resto – “resto dell’effetto del significante nel soggetto”. Nella sua pervasività insoddisfatta, anziché generare continuità, spezzetta ferocemente e lascia un panorama di lacerti e di buchi.

 

Tre formule di desiderio è il primo testo che incontra il lettore di questo nuovo libro di Gilberto Finzi: collocazione poco casuale, se il titolo e stato messo dall’autore in esergo all’intera raccolta. Non solo questa poesia tripartita ma tutte le seguenti presentano, perfino graficamente, la natura frantumata, metonimica del desiderio. Ognuno di questi testi, ognuna di queste righe e magari parole rimanda a qualche cosa d’altro immediatamente contiguo che non c’e o nel migliore dei casi rinvia ancora, sospende a un ipotetico enunciato a venire. Gli spazi vuoti (stavo per dire loculi) nel corpo del verso o nelle strofe, le cesure, i confini metrici hanno in realtà poco a che fare con la prosodia e la sintassi. Se “un che” si sospende, sarà per motivi che non discendono né dall’astuzia autobiografica né dalla perfezione stilistica. “Infliggere mali / straniare / rimuovere / compensare in folle”, tutti addensati e insieme spaziati in un verso della “Breve follia”, sono direi i verbi poetici eminenti di Finzi, almeno qui. Si concederà che sono verbi che implicano l’idea di un intervenire a strappi, di un segmentare, di un forare. I piedi di Edipo sono forati: perfino i nomi di Edipo, Giocasta, Tiresia, con tutto il tasso di ironico degrado che riveste in Finzi qualsiasi citazione, ricorrono nel testo, e non decapitati della maiuscola! Nella poesia che apre il libro, il desiderio è (pare) subito detto, mutuato dal mito classico di Danae, che implica, almeno in partenza, un “romanzo familiare” analogo a quello d’Edipo: è anche questa una storia genitale, di generazione
assassina. “Danae / sogno sulla – bara inchiodata possibile – flora veloce d’autunno…”. Il desiderio si articola secondo una catena verbale “Danae-sogno-bara” di bi-trisillabi cui conferisce una sorta di alone fonico la prevalenza vocalica di a e o, finché la formula non si dichiara nell’ultimo verso: “Muori persona interpreta te stesso”.

Questo vale per la prima delle tre frazioni che compongono la poesia. Nella seconda, la persona ossia maschera appena respinta ritrova il suo potere in un accumulo di stratificazioni (“verghe troiane”, “aspidi egizi”, “achei millefoglie”). Se prima vigeva un’oralità vocale, qui c’e il segno di un‘oralità distruttiva (“Cannibali del sonno” in posizione privilegiata d’inizio…). Non si dà nessuna formula, se non sia quella, fuggita, che suggerisce l’allusione a Jarry “in bicicletta”. Al terzo momento della poesia, è deferita - ove sia possibile - la ricomposizione del corpo smembrato: “lo uomo che eri / fosti / sei // saresti / fossi / architetto di te // misterobuffo / catena / povera gente // dove Tancredi / Goffredi / Rinaldi // Arganti / Clorinde e altri…“. È pure il momento della comparsa - per Finzi insopprimibile - di ciò che chiamerò “il politico”. La formula, pronunciata in Iimine, è forse quella che si giova addirittura della maiuscola, doppiamente formula per la sua natura composta unificata in parola d’ordine: NONEROI; e la sua chiosa: “ultimo (brechtiano) delitto”. Basterà dire che le formule anticipate nel titolo non sono né incantatorie né liberatorie ma sigle, grafi di una condizione?

Essersi fermati un po’ di più sulla soglia del libro esenterà, si spera, dallo scrupolo o obbligo di seguire passo passo lo sviluppo di questa raccolta: “nel mio principio è il mio mezzo e la mia fine”. Così riportandosi al più immediato antecedente (1977) di Finzi, il poemetto Morire di pace, il lettore si accorge come l’istanza di “generazione ideologica” ivi ancora identificabile nello spettro della pagina sia ora non dico liquidata ma riassorbita in un teatro di selvaggi intrecci di immaginano e simbolico. La sbarretta, segno grafico, lettera privilegiata nel magazzino di Finzi, anche in questo libro ricorrente, non separa non alterna non è il segno di un vel che imponga la scelta impossibile: indica, anziché un confine, il punto minimo di un passaggio continuo, di uno slittamento a due sensi. Ciò che in un punto è fantasma, trappola, può diventare quasi nello stesso punto il simbolo ordinatore. Nella “Breve follia” è forse questa la lettura possibile dei passaggi “avvoltoio / avvolto”, “vento”, ‘foresta-vento”. Un processo di rimanipolazione del senso, abbastanza omologo, è indicato dalle citazioni o criptocitazioni o pseudocitazioni che naturalmente diventano di casa nella sezione delle poesie “scritte su pagine bianche di libri” (subito, per fare un esempio, la poesia in margine al romanzo Il re del magazzino di Antonio Porta). “Tenero lume” comincia (“Tenero lume - inverecondo cazzo –“) addirittura con una deduzione tracotante dall’Ultimo canto di Saffo: “Placida notte, e verecondo raggio…” operando un furor variantistico o meglio paradigmatico a saggiare quale termine possa allogarsi nella casella (“cadente…sfrontata… misteriante… golosarca…fatinosa…”).

Non c’e neppure da pensare qui si ricorra all’outré per drammatizzazione polemica, per mimesi linguistica di un mondo osceno e monotonamente riproduttivo. Il nodo frastico è in effetti un nodo metafrastico. Quale sia la notte cui già per antifrasi sardonica indicava il primo verso, lo dice l’enunciato vittorioso, fiato unico malgrado la cesura, se si vuole anche questo una formula, forse liberatoria: “vivrò per ténere / vedrò per Venere“. E insomma è ancora Venus toute entière attaccata alla sua preda del dire… Si moltiplicano, attraverso il libro, con una indifferenza ai loro primi effetti facili, gli ammicchi appunto della scatologia: “svaporata merda felice”; “dove il tempo – scorreggia della mente”; “Eros di merda non risponde”; “rigido nembo in culo al mondo”, ecc. E’ vero che tutta questa poesia sembra iscriversi in una analità come opposizione a una genitalità integrativa, confortatoria omologante: istituzione! Ma il cammino di Eros è ben più complicato. “Je me donne à toi”, dice il paziente all’analista in un passo del Seminario lacaniano sui Quatre concepts fondamentaux, “mais ce don de ma personne, mystère!, se change inexplicablement en cadeau d’une merde...”.

 

La seconda sezione di questa raccolta è certo la più importante in quanto mette in moto la macchina: è qui che si macina ciò che c’è dì più duro, lo scarto ostinato con cui Finzi si pone non di fronte al mondo, alla società, alle sue scelte, ma interamente alla poesia; l’asprezza ripresa ad ogni voltar di pagina, che si esprime nel semplice enunciato: non ci sono possibilità. Così la terza sezione, alleggerita dì quel lavoro di Sisifo, sembra che accetti di andare oltre: e difatti è la parte in cui il discorso, pur continuando ad essere duro, impossibile, corre, inventa, tocca perfino un comico da “viso-di-pietra”. Sono le poesie “scritte su pagine bianche di libri” (altrui), dove titoli e autori scrupolosamente indicati a capo di ogni composizione forniscono, mi pare, una bella serie di occasioni e pretesti mistificatori. Tuttavia – invito a leggere i pezzi indotti da Borges, Campana, Carducci, Zanzotto... – l’autonomia poetica che Finzi vi ottiene risulta poi essere al centro del senso critico di quelle opere-pretesto.

Scrivere sulle pagine bianche dei libri è scrivere nei margini dei libri: assumere la marginalità quale posizione fondante. Sotto questo aspetto, il poeta si costituisce benissimo come emarginato cioè situato in un luogo della parola che permette di sconnettere tutte le centralità altrui. Lo sguardo dal margine è uno sguardo che solo in apparenza si esenta, per guardare se stesso ordinatore di un nuovo schema: press‘a poco quello che dice la metafora figurale delle Meninas di Velázquez. Non si tratta di procedere a rovescio ma di sghembo. Cosi, margine e analità vanno ad allacciarsi. Allora si capisce che si scateni il godimento un po’ perverso dei balbettii simulati, delle declinazioni beffarde, delle allitterazioni, delle paronomasie: modi di un libro che si spende coraggiosamente nelle opposizioni e spaccature: “a chi parla te stesso la luce non dà segno”.