D.A.F. Su de Sade

Laura in sogno

“Toute ma consolation ici est Petrarque.” Ici è il donjon di Vincennes, una delle sue numerose prigioni, da dove Donatien-Alphonse-François marquis de Sade scrive alla moglie, anno 1781. “Lo leggo. (il Petrarca) con un piacere, un’avidità senza paragoni...Laura mi fa girare la testa,è come se ne fossi figlio, la leggo di giorno di notte, la sogno: senti il sogno che ho fatto ieri su di lei...

“Era circa mezzanotte, mi ero appena addormentato, e di colpo mi è apparsa, la vedevo! l’orrore della tomba non aveva alterato la sua bellezza, i suoi occhi conservavano il fuoco di quando il Petrarca li celebrava e i suoi capelli biondi ondeggiavano negligentemente sulle spalle; pareva che l’amore, per renderla ancora bella, volesse addolcire l’apparato lugubre nel quale si offriva ai miei occhi. ‘Perché resti a piangere sulla terra (mi ha detto), vieni a unirti a me. Niente più mali, niente più dolori o afflizioni nello spazio immenso che abito: abbi il coraggio di seguirmi’. A queste parole mi sono prosternato e le ho detto: ‘O (madre mia)’. E i singhiozzi hanno soffocato la mia voce. Lei mi ha teso una mano che ho coperto di lacrime, anche lei piangeva: ‘Io mi compiacevo (ha aggiunto) di spingere il mio sguardo nell’avvenire, al tempo in cui abitavo questo mondo che tu detesti, moltiplicavo la mia posterità fino a te e non ti vedevo così infelice’. Allora, travolto dalla disperazione e dalla tenerezza, le ho gettato le braccia al collo per trattenerla o per seguirla, e per bagnarla delle mie lacrime, ma il fantasma è scomparso, è restato solo il mio dolore.”

Il sogno di Vincennes condensa in una sigla maternità, voluttà, dolore e morte – e vi si aggiunge il segno di quella vista nel futuro, si direbbe filogenetica, che è una componente poco rilevata ma essenziale dell’opera di Sade (“je multipliais ma posterité jusqu’à toi et ne te voyais pas si malheureux”). Le lettere di Sade, con tratti inattesi di delicatezza e tenerezza dentro oscenità sapienti e deliri numerici, proiettano un altro Sade, che è poi lo stesso.

In una pagina della Histoire de Juliette, la Durand, penetrata in una cappella dove è stato lasciato il cadavere di una giovane e bellissima donna, invita la sua sodale Juliette a un “dernier outrage”: godere della defunta: “La tireremo fuori dalla tomba, tu mi masturberai sul suo viso delizioso, su questa testa incantevole che le ombre funebri, messe sulla sua fronte dalle mie mani, non possono ancora fare appassire. Hai paura?”

A dispetto dello scarto apparente, questo passaggio parla la stessa lingua del brano di lettera appena citato, e non soltanto perché in entrambi compaia una morta quale oggetto di desiderio e di rimpianto. Direi proprio che la necrofilia, con il suo comodo carattere nosografico, qui ha poco a che fare. Ciò che vi si propone, ad infinitum, proprio come lo sguardo di Laura attraverso le generazioni, è l’immagine di un godimento che non è in effetti realizzabile, non perché, come suggerirebbe il buon senso, pretende di scavalcare la morte, ma perché assume di fare della morte il linguaggio stesso in cui dirsi.

La domanda “Hai paura?” è nient’altro che una domanda retorica in doppio senso, anche nel senso della “nuova retorica” che Sade narratore va edificando.

 

Eros /Thanatos

Il racconto sadiano, specialmente nei suoi culmini spropositati di Juliette e delle 120 journées de Sodome, si fa contenitore, o meglio generatore di una pluralità di racconti. Philippe Sollers (in Logiques) ne ha enumerati alcuni, i più evidenti: ciò che viene raccontato a titolo di impresa, di leggenda individuale; ciò che viene praticato e raddoppiato nell’atto degli ascoltatori del primo racconto; ciò su cui si ragiona a titolo di dimostrazione – insomma tre livelli di strutturazione narrativa rispettivamente enciclopedico, applicativo e teoretico.

Se ne potrebbero individuare altri: che si rapportino, magari, alla dimensione della visione (cui si accennava prima) o alla funzione del luogo. Ma dentro il carapace dei testi sadiani, ora rigido (le 120 journées), ora estremamente flessibile (Juliette, La philosophie dans le boudoir, La nouvelle Justine), credo si possa rilevare, più importante, una sorta di iper-racconto, di modello generale di articolazione, che in mancanza di meglio, e con improprietà terminologica che si tratterà poi di correggere, chiamo racconto di Eros e di Thanatos.

S’intende che tale modulo è evidenziabile in una quantità di scrittori, tanto moderni quanto antichi: Bataille, ovviamente, e Klossowski; Joyce, il Baudelaire di Un voyage à Cythère, un certo D’Annunzio. Solo che in Sade esso compare allo stato puro, se si conferisca all’aggettivo il valore particolare che riveste in un titolo famoso di Kant – il quale non a caso è stato congiunto, in un saggio poco meno famoso, con Sade.

Fuori dalla formula romantica, e gratificante, di Amore e Morte, che corre tuttavia le strade, qual è la posizione reciproca dei due termini? Si deve credere che quando finisca il discorso che investe l’uno, cominci quello dell’altro? o sono due discorsi coestensibili e sovrapposti, per cui si passa liberamente, ad ogni momento, da questo a quello? o finalmente, si tratta di due discorsi diversi che dicono la stessa cosa?

 
“Perversione suprema”

Un aiuto può venire dalla ricodifica della situazione: una ricodifica che si sostenga su una coppia: nevrosi / perversione – naturalmente con le avvertenze che un uso tendenzialmente metaforico esige.

Sarà appena necessario precisare che il termine di perversione non si riferisce qui alla materia dell’opera sadiana, direi: alla sua materia esterna, che ha potuto anche farla sbagliare per un anticipazione delle enciclopedie nosologiche di Krafft-Ebing o di Havelock Ellis. Esso designa qualcosa del modo in cui il soggetto Sade si mette in rapporto con quella infinita, con quella enorme materia – scrivendo.

Con un occhio al rapporto complesso fra nevrosi e perversione (consegnato fra l’altro dalla  formula della “negativa” coniata da Freud, che in altro passaggio dei Saggi sulla teoria sessuale accenna a “ogni tipo di miscela diversamente proporzionata fra capacità di prestazioni, perversione e nevrosi”), si comincia a capire che cosa voglia dire occupare il posto della perversione – e l’accostamento successivo della scrittura alla perversione.

Se scegliamo la scrittura, scegliamo in certo modo di essere perversi, di scommettere sulla finzione di godimento propria dello scrivere. Le linee che segue la scrittura sono linee storte, linee che deviano continuamente, che girano intorno alla meta.

Ciò che la fa concepire come attività perversa si potrebbe articolare così: la scrittura, nell’attuarsi in quanto scrittura, si sperimenta come insufficiente a se stessa. Deve ridursi a moltiplicare le mete parziali, perché quella globale “la scrittura fuori del linguaggio”, per dirla con Blanchot, sta “in un avvenire non avvenuto”.

Se si vuole, il maximum della perversione è rappresentato dal finale delle 120 journées, dove i quattro libertini si affannano a far fuori i superstiti delle orge, secondo una contabilità di massacri che sembra tuttavia inesauribile – ne residua difatti al récit, misteriosamente, a dispetto delle cifre, sempre uno in più; e dove, in aggiunta, il promemoria dell’autore a se stesso continua ad allargare il testo anziché chiuderlo. (Con grande intuito, Barthes sottolinea che, consigliandosi e ammonendosi sul proprio lavoro, Sade se vouvoie, usa il voi: “Détaillez le départ...N’oubliez pas...”; e definisce questo prendersi con le pinze, questo mettersi fra virgolette, una “supreme subversione” – cui si applicherebbe tuttavia, credo, anche l’etichetta di “perversione suprema”).

In questo senso, la scrittura pornografica sadiana è scrittura perché implica, dentro la totalità d’avvio (nell’ultima pagina di Juliette, Noirceuil, compiacendosi dei benefici piovuti sui libertini, commenta: “Rallegriamoci, amici: vedo che qui solo la virtù è sventurata: forse non oseremmo dirlo se stessimo scrivendo un romanzo...”; cui Juliette ribatte: “Perché avere paura di renderlo pubblico? La filosofia deve dire tutto”), una perdita inevitabile.

La contiguità ovvero la metonimia perversione/scrittura aiuta ad avanzare di un altro passo. Secondo etimologia fin troppo agevole, perversione vaI quanto versione che si metta di traverso, devii dalla finalità supposta – per effetto di un minimo elemento linguistico (per). La perdita inclusa nella scrittura perverte il godimento da essa promesso: ma quanto va perduto è vitale, non marginale. Ancora una trascrizione: se scegliamo la scrittura, scegliamo, in ultima istanza, di essere morti. “Essere morti “ è qui la versione possibile/impossibile del godimento.

 

“Scrivete quell’eccesso..”

Sade è pornografo appunto perché scrive, come dichiara il suo titolo d’infamia. Egli designa il punto dove, dice Barthes, si regola lo scambio di Logos e di Eros – eroticien grammaticale, linguista scellerato.

Sempre un passaggio di Juliette, per bocca dell’eroina eponima offre più che una propedeutica una vera ricetta di come scrivere il fantasma del godimento. Si tratta, in queste prescrizioni indirizzate a M.me de Donis, di irritare, dilatare il desiderio. Dopo due settimane di astinenza erotica, coricarsi da sola in una stanza buia e silenziosa; sciogliere i freni all’immaginazione, contemplando mentalmente, nei particolari, ogni sorta di sregolatezze, senza ritegno. “Dei diversi quadri che vi saranno passati davanti, uno finirà per fissarsi con tale forza che non potrete più né scacciarlo né sostituirlo... Il delirio s”impadronirà dei vostri sensi e voi, credendovi già all’opera, godrete come una Messalina... Allora, riaccendete la candela, e trascrivete su un foglio quell’eccesso che vi ha infiammata, senza niente trascurarne. Addormentatevi, e l’indomani rileggete le vostre annotazioni e riprendendo il procedimento mettete quanto altro la vostra immaginazione...potrà suggerirvi per aumentarne l’eccitamento. Fate un corpo sviluppato di quella prima idea, e ricopiandola in bella, aggiungete tutti gli episodi che la vostra testa saprà proporvi…”

L’importanza di questo brano non sta tanto nella confusione continua fra immaginazione e pratica, per cui l’una supporta l’altra ma poi vi deborda continuamente e la sostituisce, in una sorta di indistinzione morosa. Significativo è piuttosto il fatto che la scrittura sembri promuovesi da uno stato quasi ipnotico (“calme... silence… l’obscurité la plus profonde”), preonirico se non onirico del tutto; e che il tableau privilegiato si presenti con una forza, una necessità autonoma.

Non credo che vi si possa anticipare qualcosa dell’écriture automatique dei surrealisti. Il flusso dell’immaginazione viene continuamente segmentato da atti volontari (la polluzione, il riaccendere la candela, l’inventario minuzioso dei dettagli, la rilettura…) L’essenziale sta qui: che la scrittura emerge come un nodo, o meglio: una zona del corpo – zona insieme esterna e interna al corpo, al suo delirare e al suo agire; incollocabile, come le delizie che enuncia.

 
 La folgore

Ancora questione di nodi: o di luoghi. Per esempio, andare alla ricerca dei punti di scrittura – punti lessicali, sintattici, tematici – dove le due formulazioni Eros e Thanatos mostrano l’incrocio e l’interscambio: per dirla in una parola: come agiscono dentro il Racconto globale.

Uno, intanto, è la foudre, la folgore, strumento di alte opere di ingiustizia nelle tre Justine e nel finale di Juliette. La sorella virtuosa viene uccisa, e deformata, da un fulmine, che però opera in maniera diversa nelle diverse versioni. Ne Les Infortunes, entra attraverso il seno destro ed esce dalla bocca di Justine. Ne Les Malheurs, il percorso cambia: penetrata ancora dal seno, la folgore stavolta sorte dal mezzo del ventre. Ma al termine della Nouvelle Justine, penetra per la bocca e riesce dalla vagina.

Come osserva giustamente Philippe Roger (Sade: la philosophie dansle pressoir) la folgore sadiana si propone ironicamente come un’altra verità, rispetto al fuoco che, per tradizione retorica o pia, gli dei scagliano dal cielo per ristabilire in extremis la giustizia.

Quest’altra verità ha la forma di un Witz. Il fulmine parla tanto nella terza Justine quanto in Juliette, la lingua del motto di spirito, giacchè penetra nel corpo della ragazza dalla bocca per uscirne dalla vagina, collegando cioè l’organo con il quale la sventurata ha comunicato agli altri le sue traversie, e l’organo investito dalla violenza (non-comunicazione) sessuale – sebbene il buon lettore di Sade sappia che il Grande Significante erotico non è la vagina ma l’ano.

Vi si potrebbe anche leggere infrascritto uno sfregio simbolico per la marca anatomica della donna, emblème détesté, addirittura orrifico per parecchi libertini sadiani (quale, per esempio, il vescovo fratello del duca di Blangis che “les détestait (les cons) si souverainement que leur seul aspect l’eût fait débander pour six mois”).

Il fulmine-verità, l’ho appena detto, parla per figure grottesche, fa un gioco di parole con la fine di Justine – come del resto accade spesso alle verità eversive. Tanto è vero che «d’affreuses plaisanteries sont faites sur les deux routes parcourues par Ie feu du ciel», cui seguono le prevedibili profanazioni di cadavere.

L’operazione di questa “nuova verità” va da parte a parte, come un pensiero teorico che si proponga di dire tutto: riesce – il verbo vale nel doppio significato materiale e metaforico – al sesso e alla morte nello stesso tempo.

“Ciò che dice il dardo di fuoco è ormai il discorso del corpo sessuato” (Roger).
 

Lo sperpero

Una omofonia quasi perfetta collega, nel macrotesto sadiano, foudre, folgore, e foutre, sperma. Lo sperpero di liquido seminale in questi romanzi è fuori di dubbio iperbolico: décharges, jouissances vi sono volentieri contabilizzate secondo un’aritmetica fantomatica, che s’infischia dei limiti reali dell’organismo umano. Non si tratta appena d’insaziabilità fuoriserie – spazio ancora pertinente alla psicologia – ma della messa in moto di una macchina simbolica.

Tale tratto si rapporta con l’indistruttibilità dei corpi postulata dalla fabula di Sade; non soltanto i corpi dei libertini, ingaggiati in tours de force o spesso in pratiche esplicitamente lesive, ma pure i corpi dei sujets, delle vittime d’ogni tortura, appaiono provvisti di capacità autorigenerative straordinarie. È il tratto che Lacan, nel Seminario VII, fissa con la formula del “carattere indistruttibile dell’Altro, in quanto sorga nella figura della vittima”.

È vero che gli oggetti della débauche incontrano, a più o meno lunga scadenza, la morte, ma essa è qualcosa che sopravviene non per l’impossibilità fisiologica di durare ma, direi, in obbedienza a una regola retorica, allo stesso modo che un punto fermo, un esclamativo, un interrogativo cadono in un periodo, in un paragrafo a concluderlo secondo senso o eufonia.

La morte vi è dunque il compimento della scène, del tableau, della frase. Essa è comandata, in ultima istanza, dalla scrittura.

Foutre non ha pertanto nessun rapporto con la realtà. Il processo letterario che lo costituisce sulla pagina come oggetto a sè, autonomo (la décharge di Saint-Fond, si legge in Juliette, “était brillante, hardie, emportée”; il suo sperma “brûlant, épais et savoureux”) non è che il corrispettivo di una trasformazione in istituto trascendente, quasi, con una forzatura di comodo, in Ding an sich.

Lo testimonia la ricorrenza ossessiva del termine, che non può essere messain conto esclusivaménte alla natura particolare dei fatti raccontati. Foutre è un altro polo di verità, simmetrico a foudre: se quest’ultimo condensa, figurativamente, il discorso di Thanatos, un modo della sua apparizione nella retorica narrativa sadiana, foutre designa il nodulo, ormai di là dal significato, del discorso di Eros.

Sade non si preoccupa più di far scendere il vocabolario pornografico, scatologico al livello infimo, per un effetto di scandalo; non gioca su una perversione ancora pittoresca, ancora sociale (sia pure negativa) della lingua di convenzione. Foutre non è più munito di potere denotativo – la sua frequenza parossistica l’ha spogliato di tale carattere, tanto è vero che può benissimo diventare pura interiezione, parola vuota.

Come una corona di fuoco intorno a un corpo celeste invisibile, esso mantiene solo una forza connotativa. Ma connotativa come? Si potrà dire che ha a che fare con una violenta erotizzazione della lingua, la quale passa ben oltre ciò che, con singolare intensità, Sade chiama désir de foutre, desiderio di fottere.

Termine ovvero sigla per cui, un bel momento, si sfora attraverso l’apparato verbale e figurale dei congiungimenti e dei delitti, a uno spazio ulteriore –l’insostenibile? – dove, per dirla ancora con Lacan, la sensibilità consueta “perd les pedales”, ma dove è possibile incontrare (senza tragicizzazione indebita) le tracce del discorso di Thanatos.
 
Il segno della parete

Non a caso, nel corpo frammentato l’analisi dei testi di Sade rintracciaaltri segni riferibili alla gestione dei due racconti citati.

 Solo un leggero diaframma, un velo fisiologico li separa in certi punti di massima contiguità. Entra in campo la cloison, il tramezzo divisorio, terzo elemento significante – tanto più significante in quanto lo esibisca uno dei passaggi più atroci, nel finale delle 120 journées de Sodome: è l’immolazione di Augustine: “ficcano nelle fica la mano armata di scalpello, con cui rompono la parete (cloison) che separa l’ano dalla vagina; si abbandona lo scalpello, s’infila di nuovo la mano e si va a frugare negli intestini etc..”

 La gratuità efferata isola la cosa anatomica, la parete, astraendola dirò così da se stessa, fino a tramutarla in un segnale del racconto, anzi dei due racconti. Una simile lamella minima segue il confine sinuoso dei due corsi narrativi, soggetta a rompersi o ad essere sfondata. Essa rappresenta un altro degli ideogrammi fondamentali di Sade, che mi studio di inventariare – elemento insieme di distacco e di contatto.

 

Cucita/sfondata

Andiamo avanti a decifrare, sul corpo, quei caratteri essenziali che il racconto vi tatua, e che organizzano in qualche modo ciò che chiamerei la narratologia sadiana.

Una polarità – operativa, per i libertini; significante, per il racconto – è indicata dalla coppiain opposizione cousue / enfoncée, cucita e sfondata.

 Se il secondo termine sussume tutte le varie forme di violazione, spesso cruente, dei diversi orifizi del corpo femminile (ma anche maschile) – e contraddistingue dunque l’attività normale, beninteso sempre secondo il canone sadiano; la cucitura, nella sua abnormità ha un valore forte proprio nell’ordine retorico.

La cucitura più famosa ricorre nella chiusa della Philosophie dans le boudoir, dove la doppia sutura della vagina e dell’ano, previa violazione da parte di un valletto impestato di sifilide, viene imposta a M.me de Mistival quale punizione per aver cercato di impedire l’educazione libertina della figlia, Eugénie.

La sequenza manda al lettore un secondo messaggio, dopo quello immediato, di superficie che attiene al godimento in quanto legato strettamente alla crudeltà e all’oltraggio. Lacan, nel suo “Kant avec Sade”, vi vede inscritta la proclamazione del Noli tangere matrem (“violata e cucita, la madre rimane interdetta”), e finalmente la “sottomissione di Sade alla Legge”.

Per mio conto vi percepisco un segnale ulteriore, vale a dire uno sorta di orrore di fronte ai fori naturali del corpo umano, in quanto figurazioni sensibili dell’oggetto a, luoghi, peraltro ingannevoli, del desiderio e del godimento – un horror vacui trasferito nel campo libidico.

Si tratta di sigillare e interdire ciò che non può essere a nessun titolo riempito e goduto. La perversione, a sua volta, si negativizza, ossia scambia i suoi bianchi e i sui neri.

Lo sfondamento frenetico – così si potrebbe anche definire la grande meccanica che agita l’intera opera di Sade – cerca il suo punto d’arresto, di rovesciamento nel gesto doppiamente simbolico della cucitura – ho usato l’avverbio “doppiamente”, perché il simbolo è tale non soltanto sul piano dei rapporti fra libertini e vittima: punizione, oltraggio, ma su quello dei poteri espressivi, derivanti dallo scarto o dalla convergenza dei discorsi di Eros e Thanatos.

Non prova nulla in contrario che una scena analoga ricorra verso la fine de Les Malheurs de la vertu, allo scopo conclamato di raddoppiare il piacere di Sant-Florent, permettendogli di sfondare, con un dippiù di sofferenza per la vittima, la vagina e l’ano di Justine, previamente cuciti con “filo cerato”. Sottolineerò appena un punto linguistico, testimone della fase incompleta di sviluppo toccato dal racconto sadiano, ancora impigliato in stilemi e attenuazioni da romanzo settecentesco: vagina e ano vi sono rispettivamente designati come “temple de l’Amour” e “autel indécente de Sodome”!

 

Il fuori e il dentro: la cella e il viaggio

Si dà un effetto di sutura nei testo sadiano. La domanda è: si sutura qualcosa fuori o dentro: espulsione o “criptizzazione”?

Il racconto ha una gestione rilevante dei luoghi, cui viene affidato un particolare valore di senso. Le 120 journées de Sodome s’imperniano sull’ideologia del luogo chiuso, rigorosamente separato dal resto della realtà, interdetto: è il caso del castello di Silling, teatro di una narrazione che ha tratti rilevanti di claustrofilia.

All’interno del castello, poi, si moltiplicano i luoghi reclusi “per destinazione”: il “cabinet d’assemblée”, destinato ai racconti delle quattro “historiennes”, il quale, comein un gioco di scatole cinesi, contiene a sua volta spazi minori ma altrettanto riservati: nicchie, guardarobe, boudoirs, fino alla segreta cui conducono trecento scalini. I libertini si calano dunque, non per timore ma per affermazione di inaccessibilità, nelle viscere della terra, come si suole dire, per celebrarvi i loro fasti.

In opposizione (Sade procede non per passaggi dialettici ma per contrapposizioni frontali) si colloca il viaggio, il vagabondaggio. Si viaggia molto in Justine, ancora di più in Juliette. Gli spazi viaggiati rappresentano la finitudine/infinitudine del fuori, come la stanza chiusa, la cella, ìl sotterraneo configurano la finitudine/infinitudine del dentro.

Questa topografia è in parallelo con l’enciclopedia erotica. Qualcuno ha considerato l’opera di Sade come un catalogo delle perversioni, ciclico e alla fine dunque ripetitivo. Michel Tort ha reso giustizia a Sade contro questa, che infine è una imputazione di immobilità e ricalco. Nessuna intenzione tassonomica: bensì la volontà di “offrire a ogni soggetto un significante del proprio desiderio”, che lo afferri e lo sfaldi (in «Tel Quel», “L’effet Sade”).

Del resto, ci aveva già pensato l’autore a difendersene, nell’introduzione alle 120 journées: “Quanto alla diversità (s’intende, delle seicento passioni rappresentate) sta certo, o lettore, che è precisa; studia bene quella di esse che ti sembra rassomigliare, senza nessuna differenza, a un’altra, e vedrai che questa differenza esiste e, per quanto lieve, possiede essa sola quella delicatezza, quel raffinamento che distingue e caratterizza il genere di libertinaggio in questione.”

 
Quel momento di silenzio

“Tutte le scene di fottimento cominciano con un momento di calma: pare che si voglia assaporare la voluttà tutt’intera e si tema di lasciarsela sfuggire parlando...” Che silenzio superiore, direi contemplativo, è quello che prende corpo in questa pagina di Juliette? I romanzi di Sade sono riboccanti di violenza anche sonora: grida, bestemmie, ingiurie, deliri di coloro che godono; urla di dolore, pianti, scongiuri delle vittime. Certe volte questa scarica fonica viene sfruttata per la creazione di un piacere supplementare: è il caso del casco imposto a M.me de Verneuil che ne trasforma le urla di dolore in muggiti – del resto, vecchio stratagemma seviziatorio, da Falaride in poi!

E tuttavia tutto questo frastuono è come impastato e insieme infinitamente allontanato in una gran bolla di opacità che impedisce di selezionare i singoli elementi sonori, riducendoli a un’unica nota bassa continua di fondo.

Nel testo di Sade c’è un tempo per operare lubricamente (“j’ai plus envie d’agir che de parler” dice la Clairwill), un tempo per discettare di teoria (“Asseyons-nous et dissertons. Ce n’est pas tout que déprouver des sensations, il faut encore les analyser. Il est quelquefois aussi doux d’en savoir parler que d’en jouir”) e un tempo per tacere. Il silenzio che interviene prima della scena erotica, disegna un luogo: luogo ipotetico del godimento?
 

“Esseri deboli e incatenati..”

Non c’è sublimazione in Sade, evidentemente. Non a livello deliberato – niente è più lontano dalle intenzioni di Sade quando scrive. Lacan, appoggiandosi a un aspetto pratico della nozione di sublimazione secondo Freud, che accenna ai riconoscimenti di valore sociale (successo, ricchezza...), ha buon gioco a ironizzare gli scarsi vantaggi riscossi con la propria opera letteraria dal prigioniero Sade...

Ma neppure per quanto riguarda il lato involontario degli effetti dell’opera sul fruitore, effetti che investono in qualche maniera la vecchia catarsi – neppure così si troverebbe traccia di sublimazione, beninteso nel significato ormai convenzionale che ha assunto nel corpo storico.

Nulla di ciò che viene offerto dalla scrittura sadiana è suscettibile di trasformarsi, di cambiare livello. Le cose eccessive che vi si articolano restano fino in fondo uguali a se stesse: era questo, dopotutto, l’intento di Sade. Se le operazioni erotiche non meno delle torture sembrano impossibili al lettore, è perché non appartengono alla realtà, che possiamo trasformare, almeno pateticamente, ma al reale.

Il racconto di Eros e quello di Thanatos non sopportano nessun adattamento: è probabilmente il rilievo essenziale per l’opera di Sade.

Per essi si può richiamare forse la forma “irriducibile nel profondo del soggetto”, del Wunsch, imperativo non universale ma estremamente particolare – e tuttavia con valore di legge.

Esso risuona attraverso tutta la terrificante harangue del duca di Blangis ai sequestrati del castello di Silling, fin dall’attacco sinistro: “Esseri deboli e incatenati, destinati unicamente ai nostri piaceri...”

A meno che non si voglia leggere una forma di sublimazione nel fatto che tutte quelle cose sadiane, che non cambiano e ritornano con minime variazioni, risultino tali proprio perché non sono altro che le faccette di una Cosa totale, che le riassorbe, le supporta e insieme le vanifica, e di cui non si riesce, nonché a penetrare la sostanza, nemmeno a contornare il perimetro.

L’opera di Sade si sviluppa circolarmente intorno a un punto cieco. Essa sfugge a qualunque misticismo, anche a quello del manque, di una teologia rovesciata, negativa. Ciò che vi risulta interminabile, ossia che non si finisce mai di dire, non segna una remissione o una sconfitta, ma l’affermazione di un imperativo – la “destinazione” di quei due racconti.

 
Annichilimento del nome

Sade ricusa il tragico: non c’è gesto più netto di questo: il tragico della morte, il tragico del godimento sempre posposto – giacché si colloca, con la sua scrittura, in un al di là di entrambi.

Lo fa, beninteso, solo come ipotesi, un’ipotesi di lavoro. Questo atto si avvicina a qualcosa che trovo in certe pagine di Janseits des Lustprinzips, per esempio dove si fa cenno a quel cronotopo mitico in cui ”la vita psichica non sia ancora sottomessa al principio di piacere”. Tale punto non può indicare la meta verso cui il racconto di Thanatos conduce il racconto di Eros?

In un testo particolare, Sade sembra significare proprio uno spazio di là dal principio di morte. Lo fa con ciò che chiamerei l’annichilimento del nome (perfino di quel paraffo tricuspide, D(onatien) A(lphonse) F(rançois), “signature d’amour” secondo Gilbert Lely!) Sono le disposizioni del 30 gennaio 1806, che riguardano la propria sepoltura.

“Sulla fossa, una volta colmata, si seminino ghiande, in modo che, ricoprendosi il terreno col passar del tempo di nuova vegetazione e il bosco tornando folto come prima, le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra, così come mi lusingo che la memoria di me si cancellerà dallo spirito degli uomini...”