Natura, lettura, litura

“Gradiva” di Wilhelm Jensen

L’esercizio che segue – non saprei chiamarlo altrimenti – si appoggia sul rovesciamento di un enunciato cosmologico, quando non mistico, sceso fino a Galileo nella sua versione di “scrittura matematica”: la natura come grande libro in cui leggere la vicenda delle cose e le forze, le norme che le reggono – la Natura Libro, originariamente verbum proprium, poi metafora, catacresi, luogo comune dei più triviali.

Il rovesciamento funziona pressapoco così: se la natura è un libro, in cui gli elementi viventi o inanimati fanno scrittura, perché non ipotizzare un libro nel quale leggere in atto i segni della natura?

Ogni esperimento implica un preparato di laboratorio adatto. Nel caso, sarà Gradiva, il racconto di Wilhelm Jensen, cui l’attenzione prestata eccezionalmente da Freud, fino a elaborarne un commento ormai classico, ha conferito celebrità extraletteraria; forse con risultato unpoco iniquo, giacché Gradiva è testo fornito in sé di meriti che oltrepassano l’incontro avventurato con la psicoanalisi e il suo maestro.

Come è ovvio, la lettura fatta da Freud non può più essere scrostata, con una sorta di peeling culturale, dalla superficie del racconto di Jensen, se è vero il principio generale che ogni lettura sedimenta, diventa testo a sua volta. Per l’occasione, tuttavia, Gradiva vuole essere adoperato come prodotto narrativo dello scrittore Jensen, caso mai da rapportare agli altri suoi prodotti professionali, da Der rote Schirm, «L’ombrellino rosso», a Licaena Silene, cioè come quel racconto più su postulato, in cui “leggere la natura”. Se procedendo ci si troverà costretti a ribaltare i reperti di tale tipo di lettura su frammenti della teoria psicoanalitica, sarà un effetto inevitabile dell’esperimento, non una pregiudiziale – un effetto oggettivo di ciò che Freud chiamava l’“interesse per la psicoanalisi”.

Mentre percorrevo Gradiva, mi è venuto in mente in modo quasi irresistibile uno dei sogni più noti della Traumdeutung, quello della “monografia botanica”. Perché fin dall’etichetta rimanda a un campo delle scienze naturali? o, più sottilmente, perché la monografia in questione contiene, letteralmente, della natura (l’esemplare di pianta secco schiacciato fra le pagine)?

Ma il sogno dilata l’immagine della monografia ben oltre i limiti della sua referenza pratica, non fosse altro attraverso l’associazione con il ricordo di un atto distruttivo, infantile e gratuito.

L’aggancio, credo, sta ancora più in là. Dentro il sistema sogno e sua interpretazione, il libro (monografia) si sposta in uno spazio peculiare, dove funziona in modo diverso da qualsiasi altro libro – come è capitato a Gradiva nel mio esercizio (o tentativo) di lettura.

È dunque in questo spazio che debbo mantenerlo, e tenerlo d’occhio. Il libro è diventato un oggetto eclittico (ecliptique, rubo l’aggettivo a Bellemin-Noël, nel saggio che ha dedicato proprio a Gradiva), nel senso che si eclissa, si oscura e ricompare a tratti nel suo aspetto comune; o azzarderei: un oggetto eclamptico, col valore etimologico di “fulgore improvviso”. Tale sì offre, in quanto scenario narrativo della natura.

Lo stato di intermittenza e insieme di iperdeterminazione che il regime onirico conferisce al libro, può spiegare perché abbia tirato in ballo il sogno della monografia a proposito di Gradiva. Ma sento che la spiegazione non basta: un altro collegamento opera in latenza, che trova riflesso in una frase del racconto del sogno: “una tavola colorata ripiegata...” Qualcosa è rimasto implicato, preso dentro una piega delle immagini botaniche – e mi viene pure in mente ciò che ha scritto Sergio Finzi in proposito: ”il sogno della monografia
botanica è una piega nell’Interpretazione dei sogni...” Forse la vera chiave del mio rimando è implicita – a sua volta – nell’osservazione freudiana sul grappolo di idee relative ai fiori, che fanno da ponte fra esperienze indifferenti ed esperienze psichicamente rilevanti.

Non credo di essermi sviato dal terna. Il sogno della monografia mi indica una modalità di lettura del racconto di Jensen – di quest’altra botanica e zoologia che vi compaiono. Insomma: di come esse inscrivano la loro funzione nel sistema della natura e nel sistema diegetico.

Ciò suppone, come ho detto, lo spostamento anche di Gradiva, per analogia con l’altro libro (la monografia), nello spazio del sogno.

 

Ma quali sono i significanti della natura in Gradiva?

Debbo dare per forza come conosciuto l’aneddoto del racconto: il delirio del giovane Norbert Hanold, che crede di ritrovare nella realtà contemporanea una fanciulla rappresentata in un bassorilievo antico nell’atto di camminare con grazia tutta particolare; e che poi è ricondotto alla normalità e all’amore attraverso un processo spontaneamente psicoanalitico. Ciò che mi interessa qui sono le circostanze, le scene, i comprimari, per dire così, di tale processo, che coincide con l’atto narrativo – elementi secondari solo in apparenza, e che rimandano tutti a un ordine particolare di significato.Tale ordine lo potremo definire genericamente come Natura: e la maiuscola, si vedrà, ha una sua ragione.

 Assegnare a Gradiva questa cifra o sigla, non è arbitrario. Intanto, il suo protagonista, Hanold, è un archeologo, cioè colui che attraverso lo studio delle civiltà antiche, dei loro segni e monumenti, mantiene un rapporto elettivo, necessitante con l’idea di arché, di principio, di inizio; quindi, per riflesso più ampio, anche inizio del mondo, radice della sua natura.

Si tratta di una condizione che influenza in maniera diretta l’avventura di Hanold, che senza dì essa non potrebbe neppure darsi – e per conseguenza il racconto. Essa determina pure una dicotomia nel modo di comparire, e di agire, degli elementi di natura. La natura si mostra in Gradiva ora come natura agens, ora come patiens – organismo vivente, materia di conoscenza.

Il collegamento con la conoscenza è diretto e inequivocabile nella figura laterale del padre di Zoe Bertgang, la Gradiva della realtà, che difatti appare in veste squisitamente tecnica, professionale, suggerendo ad Hanold uno stratagemma per catturare la lucertola faraglionensis. Di costui, il racconto avrà cura di postulare, sia pure con notazione volante, l’esclusiva adeguazione al proprio ruolo, fino ad esaurirsi in esso (“quanto a mio padre” dice Zoe “una Caecilia conservata sotto spirito è indubbiamente per lui più interessante di me.”)

Non si tratta di caso. In un altro racconto di Jensen, Licaena Silene, di cui dà ragguaglio Cesare Musatti in uno scritto su Gradiva, tanto il padre quanto l’innamorato (anche qui l’amore s’intreccia con lo studio della natura, vi trova il suo pretesto e la sua spinta) sono naturalisti, appassionati di farfalle, sia pure di carriera l’uno e dirò così di complemento l’altro; e una bella parte come catalizzatore della narrazione ha un esemplare entomologico di gran pregio.

Basta per individuare addirittura una sindrome in Jensen narratore? Un abbozzo di risposta richiederebbe ben altri riscontri. Ma basta a giustificare, almeno in partenza, un esercizio di lettura che focalizzi la comparsa nel racconto di forme della natura (animali, piante) non come mezzo di imitazione della realtà, ma come funzione per manifestare un senso altro (intermittente, alternativo?) dentro il senso continuo della diegesi.

È quanto ho inteso poco più sopra, usando la formula di significanti della natura.

 

Uno di essi, forse il principale, è rappresentato dalle mosche. Freud, nel suo commento a Gradiva, sottolinea, attraverso il collegamento con le coppie in viaggio di nozze, insopportabilmente espansive (“sembravano anch’esse [le mosche] dire, nella loro lingua: ‘August, amor mio’ e ‘Mia dolce Grete” chiosa con acredine il racconto), il valore di veicolo e spiadi una “avversione per l’erotismo” che riveste quest’altrimenti inconcepibile entomofobia.

L’intollerabilità del coito, di ogni coito (di ogni scena primaria!) investe di fatto la natura, il suo ordine, si esala nell’epifonema: “e riconobbe in tali animaletti una prova irrefutabile contro l’esistenza di un ordine razionale dell’universo”. Il citato Bellemin-NoëI non ha esitazione ad appuntare alla musca domestica communis, almeno per ciò che attiene a Gradiva, un cartiglio: quello di oggetto fobico – emblema della immaîtrisable obscénité nella natura.

Questo punto è importante perché, di là dalle ovvie implicazioni di clinica psicoanalitica, illumina un altro momento di svolta nella raffigurazione che il racconto fa della natura e del compito che le assegna. S’è vista già la coppia oppositiva patiens/agens: qui la natura si propone come infausta, con carattere totalmente dannatorio, (“essa paralizzava, sconvolgeva, e insieme distruggeva l’essenza stessa spirituale dell’uomo..”). Non per nulla il cananeo Baal Zebub detiene il titolo di “signore della mosche”.

 

Tuttavia “natura infausta” è soltanto il primo membro della opposizione. Proprio via muscae, la dialettica del racconto, che è appunto il suo essere racconto, ricompone l’antitesi: e l’oggetto di fobia, decedendo dalla sua prima catalogazione, si farà simbolo della natura letificante, libidicamente satisfattiva: prima col permettere ad Hanold un accesso al reale (quando colpirà con violenza una mosca sulla mano di Zoe/Gradiva, ricavandone un senso di calore e non di freddo mortale); poi, quando fungerà da pretesto erotico ad Hanold stesso, per scoccare un bacio sulla guancia e sulla bocca di Zoe (la trasformazione della natura è annunciata dal tono “trionfante” del grido: “C’è ancora la mosca!”)

La mosca non è una mosca, ma una fossetta seducente sulla guancia femminile. È stato sottolineato che quel lieve incavo della carne (come del resto l’altro incavo nella pietra determinato da milioni di mani succedutesi nel tempo, da cui resta affascinato Hanold durante i suoi vagabondaggi fra le rovine di Pompei – e che introduce un’ulteriore opposizione, latente: pietra, cenere, rovine, bassorilievo [di Gradiva] vs animali, fiori, corpo femminile, Zoe...), come pure la bocca, allude a un vuoto, a una mancanza, a qualche cosa che non c’è. Ma allora, come dimenticare che Hanold, arrivato a Pompei, gettando un primo sguardo agli scavi e al paesaggio circostante, continua a provare uno “struggimento”, “perché gli mancava qualcosa”: “neppure la natura era in grado di offrigli quello che gli mancava dentro”.

Sarà appena il caso di osservare l’anomalia – ma è proprio un’anomalia?- per cui un vuoto si sutura per virtù di un altro vuoto.

Lettura zoologica. Una lucertola, una grande lucertola “che inviava.. i riflessi, come d’oro e di malachite mescolati insieme, del suo corpo”, compare davanti agli occhi di Norbert Hanold nel climax di uno dei suoi deliri, quando egli crede di vedere Gradiva ritornata dall’Ade, in cammino lungo una strada della Pompei antica; ed ha la funzione di biforcare la sensazione di Hanold, prima unitaria nel delirio: la figura femminile, supposta pura immagine di sogno, produce effetti di reale: come quello di mettere in fuga una lucertola!

L’allacciamento fra il dato naturale e la sua emergenza simbolica nella narrazione è qui piuttosto evidente – e può anticipare un giudizio sulla funzione che queste personae o maschere o figure della natura sono chiamate a ricoprire in Gradiva per effetto della interazione scrittore-lettore. Mosche, lucertole, farfalle, poi anche le rose, gli asfodeli, non intervengono come simboli, giacche il racconto non li carica apertamente di significati traslati, metaforici. Vorrei dire, al contrario, che se la scrittura di Jensen ha una qualità specifica, è quella di essere pochissimo transitiva in questo senso che mi pare minore.

Ci si presentano piuttosto le parole di un discorso specifico che si svolge in trasparenza, in intreccio con il discorso narrativo, senza contrastarlo, anzi addirittura scomparendo volentieri in esso.

Un lessico prelevato dalla natura, dalle sue forme viventi, non si limita secondo tradizione a disporre una scena per gli attanti del racconto, ma in qualche modo la scena dell’allucinazione o del sogno diventa stoffa costitutiva, operante del racconto.

Per quanto possa sembrare arbitrario, credo che l’attività di significazione adempiuta dalle forme della natura, nei loro rimandi e connessioni, abbia un peso economicamente, voglio dire nel far funzionare la storia, non inferiore a quello dei personaggi canonici: Norbert, Zoe, il professor Bertgang etc.

Nella trama diegetica di Gradiva si legge un altro attante: la Natura (il coronamento della lettera capitale non è una enfatizzazione di mera retorica. Vuol dire solo che c’è natura e Natura).

 

Torniamo alle nostre lucertole... Con la lucertola, il mio esercizio di lettura fa emergere un’altra particolarità del funzionamento di Gradiva. Il sauro cui, come s’è visto, viene deferito il compito d’affermare il principio di realtà, ricompare poco più avanti, ad un momento topico del racconto: quando il professor Bertgang dà lezione di caccia ad Hanold tendendo un cappio, fatto di un lungo filo d’erba davanti alla spaccatura di una roccia “da cui sporgeva la testa azzurra di una lucertola”.

La scena si trasferirà poi dalla realtà nel sogno, sostituendo al professore la figlia Zoe. Solo che, nel racconto del sogno, la lucertola non appare esplicitamente; e del resto, già nella scena su descritta, l’animale è per metà presente e per metà assente, sporgendo solo con il capo da una fenditura.

Ecco significata, credo, la particolarità, cui accennavo, dei significanti di natura (qui animali, altrove potranno essere vegetali) in quanto figure della narrazione; quella di presentarsi ad intermittenza, di produrre nella frase una illuminazione di senso abbastanza inopinata, pronta a spegnersi rapidamente, a obliterarsi per riapparire più in là, nel testo, magari con una intenzione modificata.

Si tratta dunque di segni soggetti a una litura (prendo in prestito il termine piuttosto suggestivo da Lacan), ad essere ricoperti cioè dall’onda del racconto, che ne occulta quel particolare valore di significazione, salvo lasciarlo emergere successivamente. Litura , linere indicano, in latino, l’atto di cancellare una parola stendendovi sopra la cera della tavoletta: felice contiguità fonica con littera!

Si abbozza così un certo statuto speciale delle immagini dedotte dal mondo animale, nella costruzione di Gradiva. Cui conferisce altre pezze d’appoggio la comparsa della farfalla “color rosso e oro” che, svolata via dai papaveri che crescono nella casa di Meleagro, va a posarsi sui capelli di Gradiva, sotto gli occhi affascinati di Hanold – farfalla denominata dalla scienza “cleopatra”, e dunque, per interpretazione hanoldiana, doppiamente legata “ai campi di asfodeli dell’Ade”. (Nella “cleopatra”, dice Bellemin-Noël, ”s’incrociano la natura e la mitologia, come l’anatomia e i fantasmi...”)

Ma seppure collegata in modo esplicito al mondo dei morti, la farfalla è in realtà insegna della natura felicitante. Essa non fa da schermo a un trauma, come la farfalla terrificante dell’uomo dei lupi, ma a una scoperta destinata a riequilibrare la vita di Hanold. Non per niente appartiene al popolo alato che annovera, accanto alle tortore (metaforiche) e agli uccellini-ballerine cui vengono paragonati i piedi di Zoe, il cardellino che segna la lisi del delirio di Norbert Hanold, e lo happy end del racconto, in quanto tratto identificatore di Zoe vivente (come del resto la posizione del piede nel passo o la fossetta sulla gota). È il cardellino che, a cento miglia di distanza, cantava, in gabbia, alla finestra della stanza di Zoe Bertgang, quasi di faccia ad Hanold.

 

“C’era voluta una buona dose di follia...” è il controcanto del racconto a soluzione avvenuta. Ma è una vecchia affermazione di Freud, che in ogni delirio c’é un nucleo di verità. Il nucleo relativo al testo denominato Gradiva, si è andato sfilando in verità discorsiva, verità diegetica anche per virtù di quella catena di presenze animali (mosche, lucertole, farfalle...) e vegetali (la rosa sorrentina e il rametto d’asfodelo, che fanno anch’essi coppia oppositiva – e in più l’asfodelo dentro un bicchier d’acqua, sulla finestra dell’Albergo del Sole, funge da altro tratto identificatore di Zoe/Gradiva…) di cui s’è indicata qualche maglia.

Insetti, rettili, uccelli: non penso che sia del tutto casuale se il lettore si trovi di fronte a una sorta di rudimentale scala o albero delle specie. Senza lasciare fuori dalla partita, naturalmente, l’Archeopteryx, “quel mostro volante fossile”, figura di margine fra rettili e uccelli ma pure “rappresentazione di compromesso, o intermedia, in cui collimano il pensiero della follia dell’amato con quello dell’analoga follia del padre” (Freud).

 

Bertgang vale quanto Gradiva; e Archeopteryx quanto Norbert Hanold, non solo in virtù del paragone pungente di Zoe ma per quel radicale che rimanda alla “scienza del mondo antico” che l’aveva accecato. “Che uno debba prima morire, per divenire vivo? Ma per gli archeologi questo è ben necessario...”

Gradiva chiude il circolo sulla questione del sapere, un sapere della natura, che qui si colloca in opposizione alla natura. La chiude con un effetto di destituzione. Hanold è il titolare, supposto, di un sapere, invocato agli inizi come forma, la sola? di resistenza contro l’insopportabile obscénité de la nature – mosche e coppie in viaggio di nozze!

Ma non solo la scienza, “come un antico trappista”, non apre bocca se non interrogata e Hanold ha quasi dimenticato il modo per intrattenersi con lei; c’è qualcosa di più, edi decisivo: al termine della storia; il sapere si troverà addirittura desupposto, vale a dire cacciato dal luogo in cui pretendeva di avere sede. “Sembrava perciò a Norbert di fare la figura di uno scolaro grande e grosso, che viene svergognato...” Che sapere sarà mai quello che gli ha inibito per anni di accorgersi della verità?

Tutto ciò, per dirla alla spiccia, avviene in virtù dell’identificazione reale di un nome: Bertgang! Colei–che–risplende–nel-camminare.

Lo splendore, o eclampsia, ha avuto la meglio sulla litura. Ma essi sono poi, almeno nel racconto di Jensen, polarità dialettiche, complementari che servono anche al disegno della Natura – se, per ripetermi, la maiuscola indichi un certo tipo di spostamento nel simbolico.

Quanto alle conclusioni (provvisorie) di questo esercizio di lettura: arrivato alla fine, mi sembra che stiano al principio, in quanto annoda i tre elementi nel titolo, e non per semplice virtù di identità foniche – anche se sarò sempre l’ultimo a mettere in dubbio gli aiuti euristici che ci regala quell’operatore che chiamiamo suono.

 

 

 

Riferimenti

Bellemin-Noël J. Gradiva au pied de la lettre. Paris. PUF 1983.
Finzi S. Il mistero di Mister Meister. Bari. Dedalo. 1983.
Freud S. Pagine sull’arte, la letteratura e il linguaggio, con un commento di Cesare Musatti. Torino. Boringhieri. 1969.
Lacan J. Lituraterre in: «Littérature» n. 3. 1971 Ora in: «Ornicar?» n. 41. 1987.