Sulla critica

Nel terzo canto dell’Eneide, Enea, approdato a Butroto, vi ritrova Andromaca moglie di Eleno, il quale ha ricostruito in quella terra un duplicato di Troia, un simulacro della città distrutta: con l’arca di Pergamo, le Porte Scee, perfino un altro fiume Scamandro. Parvam Troiam simulataque magni / Pergama…

Potrà sembrare strambo introdurre in questo modo la mia conversazione sulla critica. Ma il passaggio, enigmaticamente suggestivo, un po’ nascosto nelle pieghe del poema, mi è venuto in mente pensando al rapporto che intercorre fra la critica e il suo oggetto – poesia romanzo racconto che sia.

Ci ho sentito una specie di metafora, confusa forse, ma stimolante. La piccola Troia è il doppio di quella che non c’è più. Per i superstiti esuli, essa riproduce l’originale ma non lo ricalca perfettamente. Perché la città-simulacro nascesse è stato necessario che qualcosa venisse ad aggiungersi: la caduta e la distruzione della grande Troia, la fuga, la memoria di ciò che è andato perduto, anche la dimenticanza. Insomma, tutta un’esperienza fondamentale, senza di cui e l’una e l’altra Troia perderebbero di valore.

Allora, ecco che la metafora appare meno tirata per i capelli. Anche la critica, in qualche modo, simula l’opera presa a partito quando l’interpreta dopo averla perlustrata a fondo e ricostruita attraverso la lettura e la susseguente scrittura; ma anche l’atto critico introduce un’esperienza originale: quella lettura e quella scrittura, il lavoro che viene così prodotto e che si incorpora al testo.

La critica, in sostanza, si definisce proprio rispetto a questo lavoro, a questa esperienza. Essa non è mero rispecchiamento servile, oggetto subordinato aggiunto a un oggetto primario.

L’ho presa un po’ alla larga, se questo discorso vuol essere, come dicevo un discorso rapido sulla critica contemporanea in Italia, le sue tendenze, i suoi metodi. Ma forse, poi, non tanto alla larga.     
Spero non vi aspetterete una sfilza di nomi, con il rischio di non riuscire mai esaurienti, e di sentirsi rimproverare: e il tale, il talaltro, perché li hai trascurati?

Mi sembra più interessante, e stimolante, per voi ma anche per me, abbozzare qualcosa su ciò che pensiamo sia oggi la critica: sulla sua natura, il suo funzionamento dentro una certa realtà culturale, dentro un sistema di intelligibilità, in virtù del quale riconosciamo reciprocamente quel che diciamo e ascoltiamo, voi ed io.

Più che offrire definizioni perentorie, mi propongo di mostrare un po’ come agisce la critica davanti a un testo. Naturalmente, in questo excursus sarò ragionevolmente parziale, e, perché no, fazioso, e privilegerò ciò che a me pare significativo, insomma ciò che amo e in cui credo.

Questo è essenzialmente fare critica – a dispetto della superstizione che esige dal critico l’indifferenza, la neutralità del dio joyciano, che se ne sta sopra le nubi a curarsi le unghie.

Un ultimo avviso sul modo d’usare questa conversazione e riguarda i limiti temporali, per non perderci. Prenderò come punto di partenza, all’ingrosso, gli anni Sessanta, prestando attenzione a critici e indirizzi venuti fuori e affermatisi in Italia da allora in poi – e quindi non indugerò su personalità cospicue e di differente significato come Carlo Bo, Sergio Solmi, Oreste Macrì, Luciano Anceschi, Giacomo Debenedetti, per fare qualche nome, anche se il loro lavoro è continuato utilmente, a volte acquistando altro slancio dalle nuove proposte della ricerca critica.

Il punto focale, intorno cui si è organizzata la critica nel quarantennio, mi pare sia proprio una determinata posizione di fronte all’opera; dirò meglio: la posizione che il testo letterario è venuto a occupare. In questo senso è innegabile l’importanza della linguistica.

Ma dire linguistica, e dire Ferdinand de Saussure, il grande linguista ginevrino cui si devono enunciati fondamentali come l’arbitrarietà del segno, la distinzione langue/parole, significante/significato eccetera. Dalla linguistica di Saussure escono anche indirizzi di ricerca come lo strutturalismo e la semiotica sicché strutturalismo, semiotica e linguistica sono gli scenari di fondo indispensabili del lavoro dei critici ai quali mi riferirò.

Ma piuttosto che mettere in fila etichette di indirizzi di ricerca, che assomigliano in modo così scoraggiante a farfalle trafitte da uno spillone, meglio vedere in atto, un po’ da vicino e in concreto le forme di questo lavoro.

Ho accennato alla posizione del testo letterario, di qualsiasi testo letterario – come materialità di scrittura e come coagulo simbolico delle pulsioni, dei fantasmi, delle intuizioni dello scrittore (ma pure, si vedrà, del lettore); come organismo vivente e come macchina che funziona attraverso il congegnarsi armonico delle parti.

Mettere al centro della attività critica il testo, significa che tutto ciò che il lettore vuole sapere, portare in luce dell’opera letteraria, il suo senso profondo – che, beninteso, non è unico ma plurimo – va ricercato e trovato nel testo, e non nel suo autore, nella storia umana, psicologica di costui, nei suoi tics e nelle sue idiosincrasie, nelle sue intenzioni di partenza…

Ciò vale quanto cancellare la figura dell’autore? Significa piuttosto che di quella entità complessa, disordinata, divisa che è l’autore, soltanto quando è rilevabile nel testo, nella struttura e nelle forme del testo ha valore critico ultimo – e non quanto può essere dedotto dalla sua autobiografia, dalla sua aneddotica, o addirittura dalle sue confidenze.

 

Se anche suoni un po’ banale, rifacciamoci alla etimologia. Krínein, il verbo che sta all’origine tanto del termine critica quanto del termine crisi, coinvolge il concetto di sceverare, distinguere, separare: si può anche dire: di vedere come è fatta qualche cosa.

Il critico contemporaneo è convinto che la sua funzione non possa consistere nell’enunciare: “questo è bello e questo non lo è, qui c’è poesia e qui manca”: perché la poesia, usando per un momento il termine in un’accezione impropria, per indicare ciò che in un’opera letteraria ne costituisce la validità – la poesia, dunque, non è una qualità dirò così omogenea, definita, collocata lì come una perla nell’ostrica, ma è una produzione, una produzione di senso, dunque qualcosa che si elabora via via e di cui si inseguono le tracce.

Un testo è fatto, ovviamente, di parole, di frasi – della loro struttura lessicale e sintattica; delle rispondenze fra parola e parola, fra parola e frase, fra frase e frase; di equivalenze ma soprattutto di differenze. Lo scarto fra la lingua della comunicazione vigente in un certo momento storico-culturale e la lingua di una poesia o di un romanzo coevi, serve per arrivare a cogliere un aspetto della specificità di quel testo in quanto testo letterario: vale a dire, la sua letterarietà.

Conviene rifarsi a un altro celebre linguista, Roman Jakobson, che distingue, fra le varie funzioni del linguaggio, una funzione chiamata poetica, che “mette l’accento sul messaggio per se stesso”. Potremmo anche dire, con qualche approssimazione: quando viene in primo piano non ciò che il messaggio (il testo) dice ma come lo dice. E ricorrendo ancora a Jakobson: quando la parola è sentita come parola e non come semplice sostituto dell’oggetto designato.

La critica si propone dunque di rilevare il costituirsi di quell’organismo di forme che è l’opera. Ma appunto: un organismo è un insieme di parti che agiscono insieme, cospirano a un fine, ciascuna definendosi funzionalmente rispetto al tutto.

Così ho, un po’ grossolanamente, indicato quella corrente o posizione nota sotto il nome di strutturalismo, che discende dai lombi dei formalisti russi 1915-25 (per esempio Sklovskij…) Spicciolando in modo rozzo, per lo strutturalismo ogni opera è un sistema, nel quale tutto si risponde e si condiziona, e la parte spiega il tutto e il tutto rende ragione della parte.

Una tale prospettiva implica sostanzialmente l’idea di un mo­dello sottostante al testo, nello stesso tempo costante e mobile.

Sebbene non si possa ridurre sotto un’etichetta una personalità così ricca e complessa, Gianfranco Contini, armatissimo linguista e folgorante specillatore di scritture, offre esempi egregi nel suo lavoro di una messa in opera intelligente e soprattutto non parziale del metodo strutturalistico – prima ancora che diventasse moda.

Cito subito l’ormai celebre “Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare”, dove si scopriva, e dimostrava, con puntuali esempi testuali, come l’insieme delle correzioni di un poeta (e qui, quale poeta!) costituiscano un sistema, ossia una rete di interdipendenze dinamiche, continuamente significative.

Lo stesso vale per un altro saggio, “Implicazioni leopardiane”, già eloquente nell’etichetta. Ma del resto, attraversando i volumi continiani, da Esercizi di lettura ad Altri esercizi, a Varianti e altra linguistica, alla produzione accademica e a quella spicciola su giornali e riviste, si è spinti ad applicare a questo critico, al suo metodo, ciò che Contini stesso aveva detto di Spitzer: il suo fascino sta in una posizione “mediatrice fra poesia e grammatica”; nel “descrivere e misurare la prima (la poesia), fosse magari la punta dell’avanguardia, con la sicurezza e si dica pure l’autorità della scienza”.

La supremazia riconosciuta ai valori testuali, in lui è sfuggita sempre alla mitizzazione irrazionale; e lo scetticismo asciutto di Contini starà in ciò: che non esistono confini ma direzioni e che la regola di ogni atto critico dovrebbe essere di spostare dinamicamente le proprie formule, “reperire direzioni piuttosto che contorni fissi, dell’energia poetica...”.

Reso così omaggio, sia pure poveramente e impropriamente, a quello che è il massimo punto di confronto per la critica contemporanea, posso considerare un’altra premessa che fonda tutto un tipo di ricerca.

Se il testo è un organismo di parti cospiranti a un fine, lo è in quanto sistema di segni. È la semiologia o meglio la semiotica che, come teoria generale dei segni, studia i modi di significare. Il suo campo è il testo come pratica significante.

Non posso certo imbarcarmi qui in una elucidazione dei diversi valori del segno in quanto indice, segnale, simbolo. La semiotica del resto non riguarda solo il segno verbale, ma ogni sorta di segno, fino, mettiamo, al cerimoniale delle forme di cortesia...

Nell’opera letteraria, il segno compare con un forte valore simbolico, perché non solo richiama il suo referente, il suo corrispondente nel mondo reale, ma condensa tutta la carica di intuizioni, memorie, ossessioni, fantasmi, spesso latenti, rimossi che lo promuovono. Si tratta dunque, per il critico, di risalire questo processo complesso e sfuggente, che potremmo dire dell’“invenzione poetica”, il suo concretarsi in segni: come osserva Cesare Segre. E insieme, calcolare gli effetti che tale lavoro di significazione provoca nel lettore. E segni sono, non solo le parole, con la loro potenzialità suggestiva, ma anche i simboli e le metafore, le scelte sintattiche, le grandi linee tematiche.

Ho fatto il nome di Segre, una delle personalità più autorevoli che si ricolleghino alla semiotica. Segre è un’intelligenza critica, filologicamente ferrata (come mostra anche un suo libro intitolato Semiotica filologica), per cui l’abbandono all’impressionismo o all’intuizione rappresenta l’estremo oltraggio. La sua lettura procede sempre da un accertamento solido della “letteralità” del testo. Segre riconduce la molteplicità di segni dell’opera al tempo e alla storia – nel senso che “se si prescinde dal suo funzionamento nel tempo, la macchina (del testo letterario, ovviamente) è solo un assieme di pezzi” e tale funzionamento va proiettato su un momento storico-culturale, con le sue specificità...

La stessa diffidenza verso le generalizzazioni astratte, si nota in Maria Corti – della quale ricordo qui, soprattutto, opere come Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche e La felicità mentale – che indaga di un testo anche, e soprattutto, i rapporti con un tipo di cultura, vede il testo come “ipersegno o messaggio polisemico” e intende la letteratura quale “condizione e luogo che lega emittenti (ossia scrittori) e destinatari (ossia lettori) nelle varie epoche”.

Su queste linee ricorre il lavoro, variato e apprezzabile, di D’Arco Silvio Avalle (“Gli orecchini”), di Gian Luigi Beccaria, di Giorgio Orelli, di Aldo Rossi, di Paolo Fabbri, di Marcello Pagnani. Qui dovrebbe cadere anche il nome, assai noto per vari motivi, di Umberto Eco: che tuttavia mi pare più rilevante come elaboratore teorico e insieme formidabile espositore (non dico volgarizzatore) di sistemi di significazione.

Inseguendo e registrando gli scarti del messaggio, vale a dire la particolare lingua di un’opera, dal codice del linguaggio proprio a un’epoca, una cultura, o anche solo a una categoria; portando ad evidenza il modello sottostante alle varietà dell’individuo letterario; la critica sembrerebbe proporsi (e credersi) esaustiva: capace cioè di saturare pressoché ogni domanda che pone la lettura, e di chiudere dunque il circolo della comprensione di un’opera.

Ma l’opera letteraria, il testo letterario è anche altro che una struttura di pezzi, tutti verificabili e riconducibili a uno stesso criterio – e questo possiamo sentirlo quasi ogni giorno, ad ogni lettura. Essa è plurale, come diceva Roland Barthes, non solo perché implica, alla fine, non un unico significato ma piuttosto una molteplicità di significati, intrecciati e perfino a volte contraddittori; ma perché nel lavoro di significazione in cui consiste, gioca anche qualche cosa che non si riesce a classificare, a determinare in modo completo.

Se il testo è artificio, come sostenevano i formalisti russi, esso è anche il luogo dove cade qualcosa, qualcosa che possiamo chiamare, etimologicamente, caso – ma nel senso che certo è caduto lì, ma non poteva non cadervi.

Una casualità necessaria.

Siamo arrivati, almeno spero, a renderci conto insieme, io e voi, che la funzione ultima della critica non è semplicemente quella di giudicare e mandare ( come notavo poco fa, di pronunciare: questo è bello, questo no...) ma di rilevare nell’opera ciò che per dir così l’ha sorpresa o come scriverebbe ancora Barthes, siderée folgorata... – e che pure operando potentemente in essa non è immediatamente leggibile sulla sua superficie discorsiva.

È a questo elemento che tende ad avvicinarsi, o almeno, su cui tende a fare perno, quella che è stata chiamata, forse impropriamente, la critica psicoanalitica.

Di psicoanalisi abbiamo un po’ tutti un’impiastricciatura, visto com’è sventolata alla brava anche da giornali e riviste – e magari è un’informazione peggiore di un’ignoranza. Comunque (...)

Una delle conseguenze rilevanti è che l’Io, il soggetto non si propone più come unitario, ma è diviso: non è più, come dice Freud, padrone in casa sua. Ma il soggetto diviso è anche il soggetto che scrive il testo, che parla nel testo – o è parlato nel testo. Ecco dunque un punto capitale per il critico letterario.

Su che cosa punta il critico che lavori servendosi anche degli strumenti che la psicoanalisi gli suggerisce? Non sull’autore – non si tratta di psicoanalizzare l’autore, cioè cercare di portare alla luce l’inconscio dell’autore, attraverso quanto dicono le sue opere.

Punta allora all’inconscio del testo? Ma si può dire che il testo abbia un suo inconscio?
Se il testo, l’opera ha un inconscio, non lo si può intendere allo stesso modo in cui s’intende che uno ha una casa o un cappello o una penna… l’inconscio si presenta come una energia, un’energia di desiderio... C’è un desiderio in chi scrive un libro, ma anche un desiderio, simmetrico e diverso, in chi lo legge. L’inconscio di un testo non coincide né con quello del suo autore, né con quello del suo lettore. Esso sarà un campo di potenzialità, di tensioni provocato dall’incontro fra l’intenzionalità, (il desiderio) dello scrittore, la realtà materiale della scrittura che ne è nata, e il lavoro attivo di penetrazione, di ricreazione svolto dal lettore.

Più che sugli interventi degli psicoanalisti in materia letteraria (ma allora ci sarebbe da ricordare i contributi di Franco Fornari e ancora di più quelli di Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi), voglio mettere l’accento sulla fecondità del lavoro di quei critici che – come dice con felice immagine Mario Lavagetto – operano una ricaduta degli schemi, o meglio degli indirizzi freudiani sul testo letterario, secondo una libertà d’uso e perfino di deformazione che risulta alla fine pagante: lo stesso Lavagetto con i suoi finissimi saggi su Saba e Svevo; Francesco Orlando, di cui bisognerà almeno citare Per una teoria freudiana della letteratura ma soprattutto le letture freudiane del Misantropo e della Fedra; Alessandro Pagnini e il gruppo che opera con tanta ricchezza e novità di spunti intorno alla rivista «Il piccolo Hans»: Mario Spinella, Ermanno Krumm, Italo Viola, Tomaso Kemeny...

In una posizione centrale rispetto alle ricerche strutturali, semiotiche, psicoanalitiche, cogliendone con estrema intelligenza e inventività motivi e stimoli, ma senza mai cadere nell’eclettismo, per cui tutti i fatti sono bigi, agisce Stefano Agosti, che è, a mio giudizio, il critico italiano di maggior talento dopo Contini – che mi pare il miglior elogio. Agosti è lettore capace di produrre illuminazioni sorprendenti per acume e audacia e non solo nel campo privilegiato della letteratura francese. L’annodarsi nel suo metodo anche di implicazioni psicoanalitiche, verso l’elaborazione – ovviamente mai terminabile – di una cosiddetta “teoria della lettera”, lo potrete scoprire al meglio nel più recente volume Modelli psicoanalitici e teoria del testo, dove si assiste restandone soggiogati, a splendide colluttazioni con testi di Nerval, Valery e Mallarmé, ma anche di Sereni e Montale.

Secondo Agosti, il luogo dove si rivela l’inconscio, è la struttura di superficie di un testo: allitterazioni, rime, intrecci ritmico-timbrici... Il che si potrebbe lapidariamente sintetizzare così: la forma di un’opera sta al suo contenuto, come l’inconscio sta alla coscienza.

Agosti contrappone due nozioni molto circostanziate: Discorso e Testo (badate bene, con la maiuscola! anche questo è rilevante). La dimensione discorsiva di un’opera è la sua dimensione continua, lineare, logica, informativa, potremmo dire di senso comune; quella cioè che fornisce il reticolo di riferimento senza il quale una poesia un romanzo non sarebbe nemmeno materialmente leggibile.

Ma dentro il Discorso, e appoggiandosi ad esso come il disegno di un tappeto si sostiene sulla sua tramatura, agisce il Testo, quello che disfa parzialmente i sensi correnti, decifrabili del Discorso, per fare affiorare un senso altro, che non si trova altrimenti contenuto nel Discorso – insieme di punti di massima opacità che sono contemporaneamente punti di massima rivelazione; dove, enuncia Agosti sinteticamente, la Lettera fa nodo.

Arrivato a questo punto, posso rammaricarmi di non aver più tempo per accennare, se non di volo, ai contributi forniti, magari asistematicamente ma con alti risultati puntuali, da poeti e scrittori come Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Franco Fortini; o da un saggista di natura e doti singolari come Pietro Citati.

Ma posso rammaricarmi ancora di più di aver finito col cedere all’elenco che tutto sommato, non giova a nessuno: né a voi, né a me, né agli elencati; e di non avere lasciato maggiore voce alla critica come infinibilità, come attività che si sottrae tanto alla mitizzazione retorica quanto allo spicciolamento secondo correnti ed etichette.

Barthes – l’adorabile Barthes! – parla di semiotropia, ossia dell’atto di andare incontro al segno, recepirlo, ma anche esserne catturati. La critica non come qualcosa che si applica a qualcos’altro (l’opera), lo traduce, lo duplica nella spiegazione, alla fine lo sfrutta – ma è agìta dal testo e proprio in questo modo, a sua volta, agisce. E allora capite come quel rapporto fra le due Troie, nel criptoapologo con cui ho cominciato la chiacchierata, venga sconvolto, rovesciato – magari mandato al diavolo.

Sfuggo come la peste la tentazione di fornire prescrizioni circa ciò che la critica debba essere o non essere. Tuttavia posso dire questo: al fondo di ogni far critica credo stia ciò che chiamerei, con goffo neologismo, s-lettura. Ossia una lettura che sopraggiunga dopo che siano stati percorsi tutti i circuiti catalogabili del testo: grammaticali, lessicali, logici, tematici, comunicativi, consci e preconsci etc; che si sleghi in certo modo da tali dati senza peraltro ricusarli, anzi li rinvesta di tutta l’energia globale estratta dal testo – e così li fraintenda, tramutando l’accertamento in svista, li renda fluttuanti – ma sempre con rigore – allo stesso modo che è detta fluttuante l’attenzione dello psicoanalista, strumento dell’intendere e dell’interpretare.

E per chiudere sulla domanda capitale: “ma poi, chi autorizza il critico ad essere critico?”, ecco un testo che dà a mio avviso una risposta metaforica, ragionevolmente ermetica e lampante nello stesso tempo. Viene, inutile dirlo, da Kafka.

‘E allora?’ disse quello, mi guardò sorridendo e si aggiustò la cravatta. Avrei potuto sostenere il suo sguardo, ma poi, di mia libera volontà, mi volsi un po’ da una parte e guardai il piano del tavolo con intensità crescente, quasi in quel punto si aprisse e si sprofondasse una voragine che assorbiva la vista. Dissi intanto: ‘Voi volete esaminarmi, ma non mi avete dimostrato di averne l’autorizzazione’. Lui scoppiò a ridere: ‘L’autorizzazione è la mia stessa esistenza, è il mio star seduto qui, è la domanda che vi rivolgo: la mia autorizzazione e il fatto che voi mi capite’.