Sul Novecento I e II

I

È stato Gianfranco Contini (Esercizi di lettura) ad attirare l’attenzione sulla dedica dei Frammenti lirici (1913) di Clemente Rebora: “Ai primi dieci anni del secolo ventesimo” (“Mai fu scritta dedica più astratta a documento di una impersonalità ben più spontanea che desiderata..”) – epigrafe che conferiva corpo di creatura autonoma a una durata storica e insieme culturale. Proviamo ad allargare l’incarnazione all’intero secolo del Novecento, nel campo squisitamente letterario. Oggi che ne siamo ormai al termine, all’ultimo lustro, è più facile vedercelo sorgere davanti come un’entità interamente formata e qualificata, con le sue riuscite e i suoi errori. “ Novecento”, allora, non è un semplice cartiglio classificatore ma indizio di una vera e propria “persona” cui volenti o nolenti ci sentiamo legati – certo non un semplice ammasso di testi e di autori.

Spingiamo un poco più avanti gli effetti di tale fantasma, dal mero psichismo a una ipotesi pseudocritica. Immaginiamo che il Novecento abbia creato i propri scrittori, voglio dire gli scrittori che sono vissuti e hanno lavorato nel secolo, secondo una propria fibra e un proprio corredo di pulsioni. Insomma che la personalità unitaria e preesistente del secolo abbia marcato in maniera determinante le singole personalità autorevoli. Il Novecento si è scritto (attraverso i suoi autori), potrebbe essere la conclusione di questa ipotesi.

Non si tratta di un tardo, e confuso, determinismo storico. Accettando il gioco, se di gioco si tratta, io prenderei la cosa un poco come l’influenza di destino che il nome ha in psicoanalisi: siamo contenuti tutti, scrittori e lettori, in quel nome, “Novecento”, insieme straordinario e detestabile se volete, e non potremmo essere differenti da ciò che siamo, appunto come lettori e scrittori. Dice Ubu roi: “S’il n’y avait pas de Pologne, il n’y aurait pas de Polonais!”

 

La vera grande novità della poesia del Novecento – giacché qui è di poesia che si vuole trattare – mi pare stia nella posizione centrale, e assillante, del problema del soggetto e dell’autoreferenzialità della scrittura. L’io non é più un dato omogeneo e stabile a priori; si tratta di rinterrogarsi sulla natura e le qualità dell’”io scrivente”, sulla fenditura che lo separa dall’autore ufficiale. Il seme di rottura è stato lanciato, beninteso, dal secolo precedente: dall’Ottocento di Baudelaire, di Rimbaud (“Je est un autre”), di Mallarmé: e da qualcuno che la letteratura non inscrive specificamente nei suoi annali, ma che con la sua sovversione di conoscenza ha influenzato anche il modo d’interderla e di farla – dico Sigmund Freud.

Mi rendo conto di stare un po’ forzando il discorso, ma questa vorrebbe essere soprattutto un’impressione generale di una parte del nostro Novecento poetico, vissuto come entità-unità che si pone delle questioni e s’arrabatta per dare delle risposte. Sotto questo punto di vista, l’importanza delle varie personalità è di avere accettato la grande sfida lanciata alla fine dell’altro secolo e di averla assunta come elemento irrinunciabile del proprio lavoro, di là dalle soluzio­ni parziali e dalle particolari professioni di fede.

Ciò sarà avvenuto in modo più o meno cosciente nei testi protonovecenteschi – per crescere in evidenza e urgenza con l’avanzare del secolo. Ma l’imprinting mi sembra comune. D’altro canto, a passi avanti possono alternarsi ritirate momentanee. Il lettore di questa giudicherà della fondatezza, e utilità, della specie di “mito personale” del Novecento qui avanzato, accostandosi ai singoli poeti selezionati da Ermanno Krumm e Tiziano Rossi, poeti anch’essi.

L’affermazione di individualità del Novecento ha voluto dire, naturalmente, anche regolare certi conti con il secolo precedente – in particolare con la triade Carducci – Pascoli – D’Annunzio, tuttavia incombente. E se l’ombra carducciana può apparire, mettiamo, in Onofri, nel primissimo Saba, per dileguare presto, ben più pervicace si rivela l’influsso di D’Annunzio e di Pascoli. Certi tratti pascoliani d’invenzione lessicale, nella maniera di spezzare il verso e invertire la costruzione, senza contare un’aura inconfondibile, arrivano ben giù giù, fino a Montale e magari a Sanguineti; e il contravveleno a D’Annunzio si pone addirittura come scuola di etica in Gozzano e nei vociani. Le fasi dell’accettazione-rifiuto di quell’asse ereditario segneranno spesso il cammino.

Nell’operazione innovativa entrano le opzioni metriche e strofiche. Se non contro, certo di là dal fantasma perenne e intimativo dell’endecasillabo, comincia a crescere il “verso lungo”, in cui una libertà combinatoria regola le percussioni, arrivando quasi a passare da una metrica accentuativa a una quantitativa. Un esempio preclaro è somministrato dai Poemi lirici di Riccardo Bacchelli, simmetricamente, ci si accorge subito che le schegge verbali di Ungaretti sono ben altro che la frantumazione meccanica di un endecasillabo o di altro metro tradizionale.

Il processo diventerà sempre più patente inoltrandosi il secolo (Pavese, ad esempio) fino a mettere capo addirittura a quei versi volentieri informi battezzati con qualche spregio, “versi da traduzione” (dall’inglese, si suppone).

Ma quando si apre il secolo, agli effetti antologici? Si tratta, è ben chiaro, di una convenzione. Se la raccolta di Anceschi e Antonielli inizia con Gozzano, quella di Mengaldo con Govoni. In effetti, se si vuole tenere d’occhio, come riferimento, la data di uscita del primo libro importante, Le fiale govoniane cadono sotto la data del 1903. Le fiale presuppongono naturalmente D’Annunzio; come poi in Armonia in grigio et in silenzio, che è peraltro dello stesso anno, ipoteche crepuscolari: ma il tipico di Govoni è probabilmente la capacità, meglio l’avidità quasi ingenua, di incorporare tutti questi dati culturali in un misto di oggetti e di colori, di scatenamenti analogici o di inesauribili elenchi di cose poetiche nel loro comparire. Badando al gusto della provocazione, del rischio e dell’esperimento, Edoardo Sanguineti ha trovato una formula felice per Govoni, quella di un “liberty allo stato selvaggio”: “E poi tutto, in Govoni, è un po’ allo stato selvaggio”. Non stupisce che la voglia di energia e di sorpresa approdassero con una sua tipicità all’avventura futurista.

A tale avventura l’antologia riserva uno srazio ridotto, depennando, con un effetto che forse sembrerà scandaloso, addirittura l’eponimo Marinetti, per non dire Buzzi o Cavacchioli, e rischiando ancora una volta l’accusa di “censura operata dalla coscienza letteraria collettiva”. Non si tratta di ciò, ma di una scelta. Comunque l’assunzione di un poeta futurista come Luciano Folgore – Soffici e Palazzeschi qui sono veduti sotto altra prospettiva – ha anche il sapore di restitutio di un autore rimasto invischiato nella finale attività, e fortuna, di umorista e parodista (Poeti controluce, Poeti allo specchio)...

 La velocizzazione tumultuosa, che era nei voti del futurismo, diventa in Folgore rapidità leggera e aereazione in brevi tocchi colorati: “I miei pensieri / pendono in fila / come ciuffi di capelvenere; / per tutto è prateria”, piuttosto che sovversioni metriche o chimismi..

Con Guido Gozzano si arriva ai primo punto critico (nel significato che ha il termine nella sperimentazione di laboratorio) del Novecento, e a una prima verifica della piccola ipotesi di lettura del secolo, già avanzata. “Con Gozzano dunque si afferma per la prima volta in modo consapevole e conseguente quel carattere problematico, arbitrario del rapporto fra la poesia e la realtà, che nega così il naturalismo pascoliano come le sfarzose messe in scena di D’Annunzio, e che sarà costitutivo di tutto il miglior Novecento poetico..”: passaggio di Pier Vincenzo Mengaldo (Poeti italiani del Novecento) che non è poi molto lontano da ciò che ho ipotizzato come peculiare del nostro secolo: la messa in dubbio metodica della unità/compattezza dell’io poetico e la persuasione che l’oggetto del linguaggio sia il linguaggio stesso, cui tocca non già il rispecchiamento ma la rappresentanza del mondo.

Il debito novecentesco verso Gozzano non è minore per la parte negativa che per quella positiva. Voglio dire che egli ha sostanzialmente liquidato tutta una serie di materiali emotivi, pseudopsicologici, stilistici e contenutistici, che andavano rapidamente disgregandosi – le cattive cose di pessimo gusto ereditate da un Ottocento allo stremo, rendendoli non più usabili se non da un bieco epigonismo. Ce ne ha liberato caricandoseli sulle spalle, fino a restarne qualche volta sopraffatto, perdendoci del suo. Paradossalmente, ma non tanto, con questa opera di delegittimazione ha consentito che la quotidianità penetrasse nella poesia. Ha ragione Sanguineti quando sostiene che a lui si deve la svalutazione perentoria della “figura del poeta”, sgretolando questo caposaldo della ipertrofia dell’io. “Quello che fingo d’essere e non sono!” si potrebbe anche intenderlo come il cogito di Gozzano.

Naturalmente un’operazione di rottura di questo genere non la si compie senza conseguenze, senza negare anche un prezzo pesante di errori, scivolate e soprattutto di misletture. Tutto sommato, Gozzano bisognerebbe leggerlo senza i crepuscolari – per questo qui si cercherà di dare un’importanza relativa alle etichette di riviste, scuole, correnti, se non a fini pratici.

Quanto a ciò che Gozzano ha apportato (La via del rifugio è del 1907, Colloqui del 1911): a parte certe straordinarie abilità metriche e strofiche, di rime e enjambements, l’insolito uso del dialogo nel corpo della poesia etc. (un esempio sovrano è Invernale), decisivo sarà il modo di fare collidere e alla fine convivere quella materia in consunzione con una particolare musicalità che rischia perfino il cantabile; soprattutto la capacità di allontanare le cose, come sdoppiandole in una visione seconda che sta dietro (ma non è trascendentale, beninteso). Una specie di diplopia, il cui processo poetico è simboleggiato in un attacco citatissimo: “Non vero (e bello) come in uno smalto / a zone quadre, apparve il Canavese...”

Ma come esemplare del crepuscolarismo, piuttosto che Gozzano, viene spontaneo citare Sergio Corazzini, vita breve e opera quantitativamente esigua. La critica insiste volentieri sulla esilità della poesia corazziniana: quando si intenda un impulso a ridurre ogni cosa ed ogni motivo alla dimensione minima: un infantilismo delicato salvato dalla sua stessa ostinazione. La letteratura italiana eredita un altro “fanciullino”, ma diverso da quello pascoliano. Corazzini nel suo canzoniere compie un cammino esattamente opposto alla regressione: da uno stato di malattia e di morte (Anceschi parla di una poetica del “sentirsi morire”) sale verso il “povero piccolo sogno” della parola. Parola che cerca di sgretolare le cose quotidiane per ridurle all’identità vita-poesia, attraverso certi modi “tecnici” peculiari: l’enjambement, per esempio, l’interrogazione (“Perché tu mi dici: poeta?”), la litania malinconica..

Qui viene di diritto la menzione di Marino Moretti, sebbene la sua opera di poeta, oltre che di romanziere, sia continuata ben oltre la divisione temporale attuata nella nostra antologia. È il caso inverso rispetto a quelli di Saba e di Ungaretti, per fare un esempio, già attivi negli anni intorno alla guerra ma fatti slittare nella seconda ripartizione, perché è allora che si spiega la massima incidenza del loro lavoro. Il culmine di tipicità di Moretti è in Poesie scritte col lapis (a cominciare dal titolo!), uscito nel 1910 – e complementarmente del 1911 e del 1916 sono Poesie di tutti i giorni e Il giardino dei frutti. Qui, per così dire, il crepuscolarismo si istituzionalizza, attinge a una medietà di tutto riposo e alla fine veste l’abito del morettismo. La tarda ripresa in versi degli anni Settanta non cambia sostanzialmente l’impronta crepuscolare di Moretti, se non per un dippiù di astuzia e una specie di contemplazione a posteriori. Non è per intenzione detrattiva che si assegna alla sua poesia una specie di «quintessenza e denominatore comune» della scuola o corrente (Mengaldo), con arguzie e finezze di “venuto dopo” (la rima assonanza nesciet / pesce a gara con il gozzaniano famoso, camicie / Nietzsche). Sicchè è quasi una insegna di merito la indelebilità mnemonica dell’attacco: “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena..”

 

In questo inizio di secolo l’Italia è un laboratorio culturale assai vivo, in cui è riservata alle riviste una parte importante. Molti autori sarebbero meno comprensibili, senza dare ad esse il giusto peso. Basti pensare, ad esempio, a «La Voce», fondata da Prezzolini nel 1903 e da lui diretta fino al 1914 e poi, fino al 1916 da Giuseppe De Robertis. «La Voce» è stata il condensato delle svariate, e spesso opposte, fisionomie della nostra cultura novecentesca, matrice di indirizzi e personalità che arrivarono a maturazione ben oltre la scomparsa fisica della rivista. La “promessa” fatta da Prezzolini presentando la rivista è già eloquente: “Non promettiamo di essere dei geni, di sviscerare il mistero del mondo... Ma promettiamo di essere onesti e sinceri. Non promettiamo di non sbagliare mai, perché in un certo senso ciò è impossibile, ma promettiamo di correggerci non appena ci accorgeremo dell’errore....Crediamo che l’Italia abbia più bisogno di carattere, di sincerità, di apertezza, di serietà, che di intelligenza e di spirito..” Era la promessa di una posizione etica, perfino aspra e polemica, prima ancora che culturale. L’idea-guida era quella di una chiara im­pronta “educativa” e militante, pure in cospetto di una interna contraddittorietà – lo provano i nomi dei collaboratori: Papini e Boine, Jahier, Amendola, Slataper, Soffici, Rebora...; poi nell’incarnazione derobertisiana più letterariamente “pura”: Cecchi, Ungaretti, Saba, Sbarbaro, Cardarelli, Serra.

Dalla costola, per così dire, della «Voce», ma in polemica con essa, uscì «Lacerba» nel 1913, per una breve vita chiusasi nel 1915. A fondarla furono Papini e Soffici, imponendole una spinta innovativa, sperimentale, anche con l’occhio alle avanguardie francesi; sicché, in forza di tale carattere, si avvicinò parecchio al futurismo, ospitandone gli autori. Ma sul piano politico, «Lacerba» fu tradizionalista, in linea con un nazionalismo spinto, che era anche indotto dalla situazione storica. Sono del resto i caratteri dello scrittore, e dell’uomo, Soffici, così come si manifestarono per il peggio sotto il fascismo: e l’eversore futurista si ritrovò teorico della restaurazione e poeta annullato fra propaganda e retorica.

Se i testi dell’esperienza futurista di Soffici non sembrano segnalarsi per qualità particolari, malgrado gli entusiasmi di Sangui­neti, è alla visività fresca e quasi prensile, all’impressionismo di altre poesie (e di certe prose) che si deve guardare per incontrare la parte valida di Soffici, in particolare le poesie di guerra (“Sul fianco biondo del Kobilek,/ vicino a Bavterca, / scoppian gli shrapnel a mazzi / sulla nostra testa..”) Forse impressionismo da “appunto”, ma nitido, fermo. Soffici poteva essere il nostro piccolo Apollinaire? La domanda non regge al confronto, s’intende. Senza malignità si può insinuare che ne passa di distanza fra Rignano sull’Arno, luogo natale di Soffici, e, mettiamo, Parigi – per dare una patria ideale all’apolide di Calligrammes.

Tuttavia si può ammettere che qualche cosa di Soffici, della sua irritabilità, di nuovo, si colleghi ai caratteri del Novecento che si viene formando: quell’atmosfera di laboratorio o di officina, quell’incremento calorico da altoforno, per usare un’immagine di Anceschi, che andrà prendendo forma con poeti di cui si dirà ora: Boine, Onofri, Jahier e soprattutto Campana e Rebora. Fuori da questa tensione particolare sembra situarsi Salvatore Di Giacomo, sebbene le Poesie complete in volume compaiono nel 1907 e Canzoni e ariette nove nel 1916 (ma Di Giacomo era già largamente attivo alla fine del secolo precedente). Di questa poesia rimane eccezionale il nodo fra il melos, una finezza stilistica e un istinto che non tradisce mai. Altre vie seguiranno Marin, Giotti, lo stesso Noventa: Di Giacomo resta comunque un caso preclaro di come non si diano veri poeti “in dialetto” ma poeti che scrivono in un’altra lingua da quella nazionale (nella fattispecie, in napoletano).

Il segno della «Voce» sta su Giovanni Boine, il segno di una opzione iniziale di stampo etico, in qualche modo volontaristica. Quest’opzione è nello stesso tempo, e quasi contemporaneamente, stilistica. I ritmi delle prose liriche di Boine sono frantumati (per impiegare un suo stesso titolo, Frantumi) non per effetti illusionistici o per gusto d’impressionismo, ma perché si producono sotto sforzo, sotto la pressione morale, anzi sono la stessa pressione diventata visibile. In queste lasse o strofe, slogate o contratte, si dà sempre un eccesso di carico, che funziona da strumento di scansione; i richiami della rima, riportano il groviglio della strofa a un inizio, come un’eco; simmetricamente, si moltiplicano le forme di fusione aggettivo/aggettivo, sostantivo/sostantivo. La scrittura si frantuma perché il mondo è sconnesso: in tale rispecchimento esasperato scrittura-mondo sta il nuovo di Boine.

Arturo Onofri sembra un poeta sempre sul punto di divenire grande poeta: ciò che lo fa mancare a questo compimento è forse una meccanicità del proprio modo di formare, meglio: un troppo di “ispirazione” (prendendo la parola con la cautela dovuta). L’ambizione della sua poesia è di scoprire (o forse creare?) un’armonia cosmica, tanto energica quanto un po’ indeterminata. Da Terrestrità del sole, che è del 1927, a Simili a melodie rapprese in mondo, uscito postumo, i titoli delle raccolte onofriane sono già per conto loro significativi: lo slancio del poeta investiva non il mondo ma i mondi. I precedenti Orchestrine e Arioso, poi, mescolavano, secondo un tratto tipico della «Voce», prosa e versi. Insieme, ricomparivano forme chiuse, endecasillabi, strutture rigide. Pagati i debiti con le tradizioni dell ‘epoca (carducciana, dannunziana) nei libri iniziali, Onofri trovava poi il suo timbro in un lievito metafisico, in uno sforzo di penetrare se stesso in una penetrazione delle forme dell’universo, secondo una ideologia religiosa per cui il singolo diventa tutto. Per quanto questa applicazione finisce per essere macchinosa e perfino deludente, la forza locutoria di certi pezzi ne riscatta l’enfasi.

 

Chiudendo con Jahier, Campana e Rebora questo primo girone del Novecento, si entra nel vivo di quella officina o fornace cui si è fatto cenno. Jahier, credo, aspetta ancora un riconoscimento adeguato del valore intrinseco, ma pure simbolico, del suo lavoro. Può darsi che l’abbia finora ostacolato la qualità rigorosa della sua figura (era figlio di un pastore valdese morto suicida: si veda la traccia potentemente emotiva in Ragazzo), il suo rifiuto di compromettere con certi luoghi comuni anche culturali, l’estremo pudore, l’intensità del suo “credo” poetico. Jahier non teneva per nulla ad essere unletterato”: ciò che ha lasciato risponde piuttosto a un mito di coscienza, e insieme a un mito storico, d’illusione storica, che ha la sua più forte espressione in Con me. e con gli alpini: il mito di un popolo grande nella propria umiltà, entro cui confondersi e sentirsi integro. Qui, a guardare bene, Jahier mette in gioco l’identità stessa dell’io poetante; e la sua coerenza non sarebbe tale se non implicasse un duro lavoro sul linguaggio, una ricerca della sua verità ossia autenticità, senza curarsi dei rischi di cedere qualche volta alla spinta del sentimento.

Eppure Jahier è uno spirito critico, della crisi d’alta drammaticità che definisce il secolo (Rebora, Campana). Dire che Jahier sia uno degli uomini migliori che ci capiti di incontrare, non è asprimere un apprezzamento umano ma un vero giudizio estetico. Come la “tendenza all’inno o salmodia” (Mengaldo) possa risolversi in semplicità ferita lo si può constatare anche su un testo solo, il “Canto della sposa.”

Con Dino Campana (1885-1932) si arriva a quello che é indiscutibilmente il maggior poeta del   primo Novecento, uno dei maggiori dell’intero secolo. I Canti orfici sono del 1914 e malgrado qualche stimmata residua di modi ottocenteschi, specialmente dannunziani, irrompono come un aerolito nel cielo della poesia italiana novecentesca, sconvolgendola per il futuro. Essi sono il vero prodotto dell’altoforno, di cui portano la traccia in certi rosticci di fusione. La poesia di Campana scavalca le istituzioni, le definizioni culturali, come quella di espressionismo, per esempio: e riporta al centro quelle intimazioni relative al linguaggio o e al soggetto che saranno poi il marchio di tanto Novecento.

Nella “Chimera”, in “Viaggio a Montevideo”, in “Genova”, la tensione investe la scrittura non come mezzo espressivo ma come limite, per forzarlo al massimo, per saggiarne la resistenza. In “Genova” il linguaggio comincia a sfaldarsi, tenta il passaggio al di là: “Come nell’ali rosse dei fanali / bianca e rossa nell’ombra del fanale / che bianca e lieve e tremula salì.../ Ora di già nel rosso del fanale / era già l’ombra faticosamente / bianca…” Nelle ripetizioni, nelle lievi varianti grammaticali apparentemente gratuite, nel ritorno di alcuni etimi fondamentali, questa poesia è già la lingua, la poesia di un altro – vi traspare ciò che si vorrebbe chiamare la “fisionomia smarrita” di Campana. Si può anche parlare di scacco per questo Campana estremo che terrà banco, sia pure sotterraneamente, per tanto spazio del secolo; sarà in ogni caso lo scacco istituzionale che distinguerà la migliore poesia novecentesca – soprattutto fuori dalla leggenda del vagabondo, del folle, del “maledetto” che ha oscurato una parte della verità di questo poeta.

Come si è aperto con un riferimento a Clemente Rebora, così si chiude opportunamente su Rebora questo frettoloso         scorcio dei primi vent’anni. Anche per lui è questione di energia. Ma la carica che in Campana si manifesta per picchi successivi, nei testi reboriani ha carattere attenuato e continuo, quasi un rumore mentale di fondo che lega verso a verso, poesia a poesia. Un tumulto soffocato ma ininterrotto accompagna Rebora nella sua domanda sul soggetto – ma un soggetto d’anonimato.

Il primo termine che identifica questa poesia è l’urgere, il sobbollimento vitale: «L’egual vita diversa urge intorno: /cerco e non trovo e m’avvio / nell’incessante suo moto: / a secondarlo par uso e ventura / ma dentro fa paura..» Rebora non concede nulla al lettore, perché la sua natura non ha nulla da concedere, se non a qualcosa di “religioso” che la preme: così la scrittura può essere aspra e tortuosa, anche per taluni lombardismi (sloia, croia) – il lombardismo, non appena linguistico, di Rebora non è senza rilievo... Ma l’altro termine significante, complementare, potrebbe essere attesa: “Verrà se resisto / a sbocciare non visto../ Verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / Verrà, forse già viene / il suo bisbiglio.”

 

II

Il secolo era cominciato come secolo-fornace, in cui si gettava la materia con un che di affannoso e di smisurato, per sagomare, magari ancora rozzamente, una nuova forma. La tensione era molto alta; lo si è avvertito, come carattere generale, negli autori del primo Novecento. Nel periodo successivo, fra le due guerre, la tensione e la produzione di energia non vengono meno, ma si ripartiscono in maniera più regolare, continua. Il lavoro della poesia, aperta la strada, si concentra sui caratteri già individuati: la crisi del soggetto e l’invenzione della parola essenziale, confrontata con se stessa – quella che è stata detta, con qualche ambiguità, la parola “pura”.

Il Novecento compare sempre più per ciò che vuole essere – e non è fatica da poco. Ma è anche il periodo in cui le personalità rilevanti si moltiplicano – rilevanti non solo per i risultati ottenuti ma per la funzione stimolatrice e definitrice esercitata sui contemporanei e anche sulle generazioni in formazione: Ungaretti, Montale, Luzi, Caproni.. Essi mutano continuamente le domande che si propongono e propongono ai lettori. Si forma così, non dico una confusione di voci ma una grande eco, che allarga i contatti con le altre poesie europee. Basti pensare al rovesciamento provocato dal confronto intensissimo con la cultura anglosassone, per merito di Montale e Pavese, rispettivamente in poesia e in prosa. Ho fatto due nomi emblematici, ma è stato un gruppo non esiguo quello che ha condotto un’operazione tanto meritoria; e poi Giaime Pintor (Rilke), Bertolucci e la preziosa collana della “Fenice”, e Bo e Macrì per gli spagnoli, Landolfi per i russi… In passato erano state soprattutto dominanti le infIuenze francesi.

Si disegna così una mappa assai fitta, dove le relazioni sono complesse, e le eredità passano spesso, anziché di padre in figlio, di zio in nipote. Quanto alla minima mappa che sto tracciando, diventa difficile seguire un qualche ordine di successione, a meno che non si ripieghi sulla cronologia da stato civile. Ma agisce una ragione di qualità più sottile. La generazione di chi scrive questa nota, ha vissuto la poesia di tale secondo periodo in tempo reale, per così dire: penso ancora alla trepidazione con la quale ci trovammo fra le mani il voIume grigio con I’inserto in copertina delle Occasioni. Insomma, fummo coinvolti direttamente nella carriera di Montale, di Luzi, di Sereni, mentre si faceva. Essi sono stati, nel senso piùo stretto, i nostri contemporanei. Un grado alto di passionalità è ineliminabile anche in un semplice lavoro di registrazione come questo.

Si passerà dunque attraverso una materia viva, ripetendo qualche andata e qualche ritorno. Oltretutto, la ripartizione è arbitraria, e si danno autori di incerto collocamento nell’uno o nell’altro periodo, che finiscono per servire come corriera o megIio come passaggio discorsivo.

È il caso di Vincenzo Cardarelli e di Camillo Sbarbaro. La prima comparsa in volume di Cardarelli è del 1916, con Prologhi (versi e prose) ma il volume delle Poesie è tardo (1936) e si lega a una fortuna abbastanza curiosa fra gli ermetici (vedi Macrì, Contini, Ferrata). Lo schema vulgato per Cardarelli è quello di una “restaurazione classica”, anche con ritorni alle forme chiuse, regolari. La predicazione in questo senso di una rivista storicamente importante come «La Ronda», da lui fondata e diretta, rende ragione di quella “restaurazione”, che non dovrebbe essere presa sempre come sinonimo di ogni processo di superamento e messa in mora di precedenti “avanguardie”, secondo quanto ammonisce Mengaldo.

Non dimentichiamo che il nome chiave per Cardarelli è Leopardi. La classicità e l’”impassibilità” cardarelliane avevano a che fare con la prosasticità, anche questa in accezione particolare. Gargiulo spiegava piuttosto che “il suo (di Cardarelli) lirismo autentico è tale che si accede solo entro serie di elementi riflessivi a contatto logico strettissimo..” La cui funzione, diciamo, sarà poi di rendere possibile aperture straordinariamente musicali e solenni: “Lenta e rosata sale sul dal mare / la sera di Liguria..” “O gioventù, innocenza, illusioni ...”

Sbarbaro non può essere soltanto il Giovanni, l’annunciatore di Montale. Sebbene leggendo “Giaci come / il corpo, ammutolita tutta piena / d’una rassegnazione disperata…/ /E gli alberi son alberi, le case / sono case…e tutto è quello /che è, soltanto quel che è…” dia l’eco di qualche sequenza degli Ossi di seppia. La “atonia” sbarbariana non conosce l’attimo di eccezione, il “fantasma che ti salva”. La contemplazione di sé, gli urti morali dei vociani hanno trovato una fusione in una pronuncia soffocata. È una discesa agli inferi della vita, di se stessi ma “ad occhi asciutti” – sia pure con qualcosa di lacerante.

Palazzeschi è il poeta fondamentale messo deliberatamente sulla soglia di questa seconda rassegna: guarda come una divinità bifronte alle protoavanguardie novecentesche e alle neoavanguardie degli anni Sessanta – che non per nulla gli votarono con entusiamo una sorta di appartenenza onorifica. I primi quattro libri di versi uscirono entro il 1910, le Poesie nell’edizione Preda sono del 1930. Ma le questioni di data sono abbastanza ininfluenti per quanto riguarda, gli asssorbimenti e le incidenze palazzeschiane. Così il suo futurismo (del resto l’adesione cessò con l’inizio della guerra ‘15 – ‘18) fu di natura tutta speciale e non si riuscirebbe e farci rìentrare neppure testi come “La fontana malata o “Lasciatemi divertire. Palazzeschi ha iniettato alla poesia del 900 ciò che nessun altro poteva darle: una eversione tanto più recisa quanto più presentata in forma minimale. Una clownerie diffusa, polverizzata, vi esautora tanto il vecchio soggetto (la nozione di soggetto) quanto le convenzíoni e le abitudini “liriche”.

In tale messa in crisi sottopelle, dove sta più l’“io”? e dove il “decoro della poesia”? Palazzeschi riprende, con aria di nulIa ma con una radicalità che pochi altri possono vantare, quelle domande o esigenze che abbiamo creduto di mettere al centro della poesia del secolo. Resta un’elegante questione da risolvere: che cosa sia lo spirito palezzeschiano. Comicità, satira, irrisione, caricatura? o, tanto per parafrasare, “azione di fumo”?

 

Saba è in qualche modo il Gran Teatro della poesia: nel senso che sembra non si dia cosa, persona, situazione, forma che Saba escluda a priori dal cerchio magico del discorso poetico – e nulla di ciò che la poesia abbia toccato, trasformato, assunto nei secoli passati possa essergli estraneo. Saba è vissuto per tutta la sua carriera, dalle prove dell’adolescenza a inizio secolo, fino a Parole, Mediterranee, Uccelli, in un’idea altissima della poesia: e questa carriera ha voluto dire una selezione, una elaborazione, un illimpidimento dell’immenso materiale che aveva accolto, e accoglieva in sé. ll Canzoniere è, con tutta la varietè di toni e di momenti psicologici un libro solo, continuo; in Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba medesimo lo riconosce a tutte lettere: “Tutto, insomma, nel Canzoniere, il bene e il male, si tiene e... spesse volte quel bene è condizionato – magari illuminato – da quel male...”.

S’intenda: non è un’assoluzione globale, una globale accettazione. Saba ha versi bellissimi, come ne ha dei brutti, anche molto brutti. Ma è da quel ponte che bisogna passare per potere raccogliere, non dico in uno sguardo, ma in un continuum la grandezza di Saba. Nel cui prodotto convivono, in maniera unica, la reverenza per ciò che vi è, tradizionalmente, di alto e perfino “aulico” e l’amore per la parola quotidiana (le “trite parole” che trovano un posto necessario, e unico, in un discorso che non è mai prosastico nel senso comune del termine). In realtà l’attenzione di Saba alla musica, metrica e prosodica, è continua, ed ha ragione Contini a dire, e dimostrare, che i suoi errori sono sempre errori metrici, “versi sbagliati”. Saba, contro l’astrazione, si riservava la capacità di “sublimazione” e credo che ìl termine avesse le sue armoniche in psicoanalisi (si ricordi la coppia messa in coda a Scorciatoie: Nietzsche e Freud).

Il libro di versi più rivoluzionario dei primi vent’anni del secolo esce nel 1919: è l’Allegria di naufragi di Giuseppe Ungaretti. Le ragioni per cui anche di Ungaretti, come per esempio di Palazzeschi, si tratti in questo secondo riquadro introduttivo, sono già state esposte, e non giova ripeterle. L’Allegria è d’altra parte un libro che si stacca dalla sua data d’apparizione e si proietta avanti nel tempo, con una carica esplosiva: fin dove?

Non è soltanto Saba, secondo dice Sanguineti, che tenta di costruire un canzoniere perpetuo,”di autoanalisi, e quasi di autoterapia”: Ungaretti dichiara apertamente l’ambizione “di lasciare una bella biografia”. Ma a parte la confessione “tecnica” in prosa premessa all’Allegria – e appunto il “diario”, i “tormenti formali” come tormenti dell’intersa sostanza umana – poche poesie come questa offrono tante indicazioni sulla propria natura: che è quella di una rimessa in gioco totale non solo degli istituti linguistici ma della motivazione stessa del fare poesia. La citazione più famosa del testo ungarettiano (“Quando trovo / in questo mio silenzio/ una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso”) esibisce i due estremi capitali per la definizione del primo Ungaretti: la parola scavata fuori dall’abisso – parola assoluta nella sua abissalità, oltre ogni precedente pattuizione di significato; il verbo “trovare”, che allude alla creazione di un linguaggio nuovo, creato e non ricevuto.

Così Ungaretti risponde alle due emergenze della poesia nel suo secolo: una parola vera (“onesta”) e un recupero angoscioso dell’io dalla dispersione, e proprio nel caos della guerra (l’“uomo di pena”, il “grido unanime”). Lo sminuzzamento dei versi, i bianchi intorno alle parole, in questa struttura sono anch’essi “parola”: parola “cava” complementare di quella “piena”.

Sentimento del tempo verrà poi a dar ragione alla critica (Contini) che giudica che in Ungaretti “il discorso viene successivamente alla parola”; non però nel senso che l’ampliamento sintattico, la splendida efflorescenza lessicale, le circonvoluzioni barocche che contraddistingueranno la seconda fase del poeta, siano un progresso, un aggiustamento da una forma povera a una sontuosa. Sentimento del tempo non è finalmente il compimento dei “versicoli” in misure metricamente consuete, ma riverbera all’indietro la necessità e autonomia di quei lacerti.

Enfin Montale vînt. Si è entrati, ormai, nella zona delle grandi figure, in cui, per continuare l’immagine dell’inizio, meglio si scrive il Novecento, con la sua natura specifica. Montale dà una svolta alla nostra poesia, non c’è dubbio; una sorta di shock, con una lunga scia di influenze e di epigonismi, ma anche con un’apertura, ancor più pronunciata, alla coeva poesia europea (soprattutto a quella di lingua inglese, da cui Montale è stato anche eccellente traduttore). Non dirò che Montale sia uscito già tutto armato dal cranio del Giove poetico, ma senza dubbio gli Ossi di seppia (1925) presentò subito l’immagine di una poesia fra le più alte del secolo, diventando presto oggetto di culto e titolo antonomastico. Vi domina uno stato di aridità e atonia, entro cui baluginano le tracce di qualcosa simile a un sentimento – ma come in negativo -, una via di scampo impossibile: il famoso odore dei limoni o il fischio del rimorchiatore (“Delta”) .

Le occasioni (1939) riaffermano, con incisività splendida, tale condizione del soggetto ma danno anche un corpo all ‘eccezione”, all’ipotetico “fantasma” salvifico; per dirla con la lingua di Montale, all’occasione. Cui viene deferito lo statuto di un oggetto magari usuale, designato a funzione redentrice dall’improvviso emergere dal caos delle cose, ma soprattutto da un guizzo del lessico o della sintassi. Non sarebbe sbagliato sostenere che tutte queste occasioni sono in sostanza occasioni di linguaggio.

La peculiarità montaliana sarà di fare passare un messaggio totalmente disforico attraverso una lingua non rivoluzionaria ma “nuova” nella forte invenzione lessicale e nella musica aspra e ambigua, con effetti finali euforizzanti. Dopo Satura, col Diario e il Quaderno di quattro anni, Montale, con coerenza che direi feroce, ha completato la parabola del suo lavoro: la negatività dell’opera precedente s’è ridotta anch’essa al cinque per cento, facendo sarcasticamente il verso al borbottio, alla palta della Chiacchiera universale. Le parole del tardo Montale sono pronunciate come in uno stato di dormiveglia di una mente peraltro lucidissima e beffarda.

Si è cercato in questa rassegna di lasciare da parte il più possibile questioni di correnti, scuole, indirizzi. Ma negli anni Trenta la scena culturale italiana fu occupata da un fenomeno, l’Ermetismo che, sebbene elitario, era qualcosa di più che un movimento letterario, lasciando la sua traccia anche in campi diversi da quelli della produzione poetica. Alla base dell’Ermetismo era in fondo un rifiuto di comunicazione, o almeno della comunicazione nelle forme tradizionali, ritenute ormai usurate e ingannevoli; e insieme il rifiuto di cedere al “tempo minore”, alle vicende effimere della storia e dell’esistenza quotitiana, in nome di un purezza assoluta dell’atto poetico.

Ciò implicava non solo l’abbandono dei legami sintattici e logici, la costruzione di rapporti verbali astratti e rigorosi dentro i quali la parola emergesse con il suo potere primitivo, tutta una mitologia dell’assenza (L’assenza la poesia era il titolo di un libriccino del più armato critico e teorico del movimento, Carlo Bo); ma accanto a un’estetica anche un’etica di vaga tinta mistica se non proprio religiosa. Non e senza senso “poetico” che si privilegiassero Pascal e san Juan de la Cruz, su san Tomaso e Alberto Magno. L’ermetismo in ogni caso segnò tutto un lungo periodo, restando visibile e operante anche fin dopo la seconda guerra, quando le ragioni profonde che l’avevano animato erano ormai esaurite – con le sue riviste più gloriose e importanti, come «Frontespizio» o «Prospettive». (Sembrerà curioso che questo movimento abbia rappresentato per la nostra letteratura insieme un passo avanti in campo europeo per la qualità dei testi e l’intensità delle domande, e un ritardo storico di tre decenni circa: se si pensa che con esso si affermavano da noi principi ed effetti del simbolismo, da Mallarmé a Valéry, già largamente elaborati, mettiamo, in Francia).

Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932), prime opere di Salvatore Quasimodo, esibiscono in modo addirittura esemplare i tratti propri dell’ermetismo: caduta degli articoli, verbi usati con valore assoluto, volubilità dei legami di senso... La sillabazione ossessiva (“tu ridi che per sillabe mi scarno”) isola la parola in un alone di stupefazione e di gelo. Talvolta il mito personale di Quasimodo (la Sicilia, l’infanzia) porta tout court alla poesia­; altre volte prevale l’abilità dell’artifizio. Ma è probabilmente nei versi di questo periodo sperimentale e in quell’opera forse unica di traduttore che sono i Lirici greci, che Quasimodo raggiunge i risultati più convincenti. Col dopoguerra (e la conquista del Nobel) la sua lirica civile e comunque più distesa, rappresenterà in genere una nobile retorica di sé stessa.

Capofila indiscusso della pléiade ermetica fiorentina (Bigongiari, Parronchi, Fallacara...) il giovane Mario Luzi dà con Avvento notturno (1942) il libro più bruciante e in certo senso perfetto del movimento. Dietro a questo libro stanno le letture dei Trecentisti e Cinquecentisti nostri e stranieri curvate naturalmente secondo lo spirito del tempo, e anche un po’ di D’Annunzio, oltre a molto Mallarmé: ma il quantum di energia poetica che esso incorpora è alto, e resiste al lettore d’oggi. Sostanze squisite, lune pencolanti, giardini, fanciulle, teneri emblemi di giovinezza e di morte, incontri fra natura e violente visioni intellettuali (“ ma chi tiene l’industre oro dei campi / e la purpurea bara dei raccolti?..”): su tutto, l’eccezionale sicurezza di una voce.

Questa originale prepotenza fonico-metrica di Luzi ha naturalmente subito una trasformazione nel dopoguerra, secondo una maturazione che ha tuttavia conservato molti dei caratteri giovanili. Con Onore del vero, anni Cinquanta, il verso, già così reciso, tende ad allungarsi e a ripiegarsi in una colloquialità fitta di interrogazioni e di indugi. La poesia dell’ultimo Luzi ha acquistato la natura di poesia lustrale, purificatoria, in una limpidezza che lascia riemergere le antiche punte di passione, placando pero il soggetto dentro la coscienza del Grande Gioco della Natura.

Alla koiné ermetica si legano, ma in modo originale, due poeti, Alfonso Gatto e Leonardo Sinisgalli, la cui opera si vorrebbe riportare all’onore del mondo letterario, chesembra averli un poco dimenticati. In Gatto, salernitano, fondatore, con Pratolini, della rivista programmatica «Campo di Marte», si attua una fusione che direi unica per intensità e passione, fra immaginazione delle figure e irresistibilità melodica. Si è coniata per lui l’etichetta di surrealismo idillico, accettatabile con juicio (come ogni etichetta) solo se si precisi che il suo idillio nasce prima del senso, dal puro melos, che crea il senso e lo dissolve. Basti anche un minimo lacerto: “Sogno di fioca riva: cielo sorto / dal trapelato amore dell’estreme / solitudini chiuse in uno smorto / lume tranquillo...” I termini distanti del discorso, che vengono accoppiati con effetto di choc, sono come calamitati da una fatalità sensuale (e sonora).

Meridionale anche lui, di Montemurro in Lucania, Sinisgalli è titolare di una musica verbale pervasiva ma continuamente frenata e filtrata da una mente attentissima ai congegni combinatori, si direbbe matematici, che lavorano più che dentro dietro ogni organismo poetico. Grani di ermetismo, in dosi omeopatiche, ravvivano il versante favoloso della terra Luca­na e l’alta precisione della trouvaille intellettuale: le venditrici di dalie sospese a mezz’aria in piazza San Babila o le muse sgranocchiatrici di ghiande, sono vignette di un surrealismo leggero ma non gratuito. Le questioni di fondo della lingua e del soggetto, stanno latenti in Sinisgalli sotto una scorza fine di divertimento – ma operano.

In modo totalmente indipendente dall’ermetismo, ancorché temporalmente contiguo, ha proceduto il lavoro di Attilio Bertolucci e Sandro Penna – si aggiungerà con diversità assoluta fra loro. Gli inizi di Bertolucci sembravano limitati da una delicata sensibilità naturale e da un gentile ma autentico ascolto delle nostalgie d’infanzia. Questo tocco fine è andato tuttavia trasformandosi man mano che l’opera cresceva, i libri si succedevano, da Fuochi in novembre, alla Capanna indiana a Viaggio d’inverno si solidificava e s’ingrandiva, senza tradire le origini. La piccola mitologia domestica di estrema affabilità si rivela ora una vera e propria epica domestica (vedi La camera da letto e la forma ritrovata del romanzo in versi), la cui delicata tramatura offre invece una delle poesie più profondamente solide del secolo; e l’uomo Bertolucci, “uomo malato” (“un male in cui credo e non credo”), salvato appunto dalla sua nevrosi, sarà il verde ottantenne che continua felicemente il lavoro.

Totalmente estraneo alla “storia”, e dunque anche alle mode e alle correnti, Penna sembra perfino indifferente alla letteratura come “questione” e interessato soltanto alla sua natura strumentale nei confronti di un desiderio inesauribile. Anceschi ha argutamente parlato, per lui, di “eros indisciplinato”. La perfetta identificazione fra poesia e desiderio che leggiamo in Penna ci mette di fronte a un desiderio diffuso in tutto il corpo, in ogni sua parte, non ancora genitalizzato, e che dunque imbeve ogni frammento del testo e del mondo. Ma comunque se ne parli, la poesia di Penna sembra sfuggire a una vera e propria definizione, restando incantevole e un poco misteriosa come certe sue figure: “il volo / del giovane ciclista / vòlto all’amico: un soffio / melodico: ‘Vai solo?’”

Maturato nel cattolicesimo particolare di «Frontespizio» (di cui fu uno dei fondatori), ma anche amico e sodale di molti “ermetici”, Carlo Betocchi definisce già nel titolo del suo primo libro, Realtà vince il sogno (1932), il nocciolo affabile e ardente della sua poetica (o si dica etica?): allucinazione della “realtà di tutto quello che si vede”. I libri di Betocchi compongono via via un “continuo autoritratto cristiano” (Contini), nel contatto con il mondo. La “beatitudine” da cui sono percorsi si spinge fino al rischio del candore: ma in un testo come “Pastorale”, il lessico appena arcaico e la musica tradizionale, vengono rinverginati da uno scarto metrico e sintattico. Nei libri della vecchiaia la luminosità di questa poesia rimbrunisce, però senza rinnegare mai del tutto la sua misteriosa allegria.

Con Delio Tessa non è soltanto la poesia in milanese ma la poesia tout court del Novecento che tocca uno dei suoi punti più alti. Ciò che in vita di Tessa era stato il consenso caldo di un gruppo di amici, è divenuto un consenso della critica, pressoché unanime. La materia di questa poesia, che potrebbe sembrare a tratti scendere da un filone veristico o bozzettistico proprio del genere dialettale (figure di emarginati, di anomali, di vecchi, gusto per un grottesco in dissoluzione), si trasforma attraverso una sempre vivissima (esasperata?) coscienza linguistica. Il milanese vi acquista una effettività espressiva finora sconoscuita, profittando della propria struttura volontieri monosillabica per dare rilievo alle spezzettature che Tessa impone al verso (uso dei puntini di sospensione, vero marchio distintivo del ritmo tessiano...). Il realismo della vita umile e deietta è qui, in effetti, tutto allucinatorio, e difatti le “cose” di pietà e di sdegno (Tessa rifiutò visceralmente il fascismo) si presentano irrimediabilmente frantumate, disseminate, convulse.

Di questo carattere supra-reale si potrebbeie indicare un esempio principe in “Di là del mur”, con la finale epifania zoomorfica: “Reclam del Trader-horn / del film-miracol, chì / tra duu tram, incazzìi / trovi on struzz.. t’ee capii ? // Sotta on barocc reclam / gh’e on struzz / viv, che me guarda!!”

All’uscita dalla mappa del primo quarantennio di poesia del secolo, voglio appendere l’immagine di due autori, Vittorio Sereni e Giorgio Caproni, in cui tutta una generazione devastata dalla seconda guerra mondiale si è riconosciuta con intensità.

“A quest’ora / annaffiano i giardini in tutta Europa. / Tromba di spruzzi roca / raduna bambini guerrieri...”: il suono di questa tromba, che a me ricorda in modo irresistibile “le son de la trompette…si délicieux” baudelariano, attraversa tutta l’opera di Sereni, diventa la Musica “delle tende che sbattono sui pali” del Diario d’Algeria, l’eco «a volte dolce / di radice aspra» dei diletti toponimi lombardi in Stella variabile. Ma quanto sbaglierebbe chi riducesse questa poesia alla musica, irresistibile epperò lacerante, che unisce il suo “lake district” ai luoghi della prigionia, alla grande città in cui la vita va consumandosi... L’”esile mito” di Sereni ha una solidità, perfino una crudeltà, insomma un carattere storico che esclude ogni eventuale indulgenza all’abbandono assaporato dell’autobiografia. L’Europa più volte evocata, è davvero l’Europa precipitata nella guerra e l’esistenza che vi si dibatte la vera esistenza di una generazione.

Un’aria di giovinezza illusa-delusa si sprigiona non solo dai primi versi di Frontiera ma da tutto il “canzoniere” di Sereni.

Alla radice di ogni poesia, c’è una cellula in cui si compenetrano un tempo, un luogo che la musica breve e intensa è chiamata a convogliarci.

Nome etempo sono significanti che dominano anche in Caproni: nome, anzi nomi, nomi-epigrafi: “Ahi i nomi per l’eterno abbandonati / sui sassi...” Una eccezionale natura ritmico-melodica costruisce l’endecasillabo di Caproni su una serie di interiezioni (ah! ahi!), che non sono emissioni di voce retorica ma strappi di energia poetica. È il Caproni delle “Biciclette”, di “Stanze della funicolare”, del mito tenero e familiare che sarà la biografia immaginaria della madre, Anna Picchi, una delle più belle invenzioni del Novecento – il Caproni del “fluido”, nella scrittura come nelle figurazioni: nebbia, acqua, latte. Seguiranno le gravi, e ironiche, prosopopee del Viaggiatore, del Cacciatore, in fine i versi brevi, tersi e volentieri epigrammatici, di quello che chiamerei il Caproni “cristallo di rocca”.

Tutta quest’ultima parte dell’opera è un gioco con il principio d’identità; con una teologia negativa: il dio presente proprio perché assente (e viceversa); con l’io messo a specchio di se stesso; con il movimento ingannevole: ”Lei non potrà arrivare, / mi creda, dove è già arrivato...” Caproni riprende, come si vede, le grandi domande del secolo, allargandole vertiginosamente. Pochi altri come lui mostrano ciò che possono fare e, meglio ancora, non possono fare i poeti.