Chi scrive e che cosa si scrive

Vorrei cominciare il mio discorso, breve, con una storiella o aneddoto semiotico, in quanto riguarda i segni – dunque senza uscire dal tema prescritto dall’etichetta di questo incontro: “Chi scrive e che cosa si scrive oggi in Italia”.

Secondo quanto racconta Gombrich, al momento di ingaggiare battaglia a Trafalgar, l’ammiraglio Nelson decise di rivolgere un breve messaggio agli equipaggi della flotta. È il famoso messaggio “L’Inghilterra si aspetta che ognuno faccia il suo dovere”, England expects everybody do his duty, passato alla storia non meno che a libri scolastici. Solo che nella redazione originaria, a quanto pare, Nelson aveva usato il verbo “confida” (confides), molto meno lapidario e felicemente intimatorio di expects. Però l’ufficiale segnalatore gli fece osservare che sostituendo a “confida” “si aspetta”, la trasmissione del messaggio sarebbe stata molto più rapida – Difatti mentre expects era contenuto nel codice e avrebbe permesso di alzare una sola bandierina per comunicarlo, confides doveva essere trasmesso lettera per lettera, ossia servendosi di otto bandierine.

La intensità espressiva di una frase divenuta proverbiale non sarebbe dunque dovuta al talento epigrammatico di Nelson ma al linguaggio stesso, alle esigenze intrinseche di un codice scrittorio, sia pure la particolare scrittura rappresentata dai mezzi di segnalazione propri alla Marina.
Ho fatto ricorso a questo aneddoto per anticipare quella che può essere una domanda, forse la prima domanda, sullo scrivere.

A chi appartiene la scrittura? C’è un padrone della scrittura? E se si dia, coincide con colui che la usa, diciamo in modo generico: con lo scrittore?

Non è una domanda oziosa; e rispondervi in un modo o nell’altro, vuol dire qualificare l’atto dello scrivere secondo certe prospettive e certe coordinate particolari.

Il mio aneddoto semiotico risponde, sia pure per via figurata, che la scrittura non appartiene, o almeno non appartiene in tutto, allo scrittore. Tanto è vero che essa può significare secondo sue proprie regole, potrei dire: per sua iniziativa, indipendentemente da, quando non addirittura contro, le intenzioni di chi la usa; e dunque trasformare il messaggio originario.

Nell’ambito della realtà, tutto ciò procede secondo modi molto più sfumati di quanto non lasci intendere le mia affermazione un poco drastica. Ma è utile, come avvio, questa coscienza di non-padronanza dello scrittore, che, secondo una bella formula di Mallarmé, “cède l’initiative aux mots”.

Quello che noi facciamo del linguaggio, e dunque della scrittura, e quello che il linguaggio, la scrittura fa di noi, restano per lo meno sospesi in una vacillazione, in uno scambio, di cui non è facile disegnare i confini di competenza.

C’è un’altra storia, questa però ad altissimo livello letterario, che sotto sotto può essere intesa come una metafora. Sulla appartenenza del linguaggio, sulla sua funzione di strumento. È il racconto di Poe intitolato Il caso del signor Valdemar, che qui riassumo brutalmente in poche battute.

Mr. Valdemar, ormai in agonia, viene ipnotizzato e mantenuto per parecchio tempo in uno stato dirò di sospensione, ma sempre in condizione di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. A un certo punto, egli dichiara: “Si, no... ho dormito...e ora... ora... ora sono morto!” Tale frase, secondo quanto dicono i linguisti, presenta un fenomeno di enantiosemia: cioè produce un senso inconciliabile con la sua lettera. Difatti, allo stato delle nostre conoscenze biologiche e razionali, nessuno può enunciare “Io sono morto”.

Su questo passaggio ha dibattuto assai finemente Roland Barthes. Ma il passaggio può essere letto anche, tirando l’acqua al nostro mulino: come simbolo del linguaggio che parla, significa, agisce indipendentemente dal supporto materiale di un parlante. La lingua, nel suo duplice significato, parla nel signor Valdemar morto.

 

Non insisto su questo, che può sembrare semplicemente un gioco. Ma leggo, del resto, in una comunicazione esplicativa su questo vostro incontro, che la scrittura viene indicata come un gioco, “un gioco di verità e di finzione” – aggiungerei: di dominio e di esproprio accettato di attività e passività, appunto come avviene nei giochi dei bambini.

Noto anche che si è passati dal cartiglio del “piacere di leggere” a quello del “piacere di scrivere”. Qui conviene non nascondersi quanto di ambiguo si annidi nel termine, peraltro così invitante, di “piacere”.
Possiamo credere,un po’ sbrigativamente, che il piacere risieda nella soddisfazione di un desiderio. Ma ricerche psicologiche hanno mostrato che il desiderio è essenzialmente metonimico, val quanto dire che il suo oggetto è un oggetto che sta continuamente a fianco, che si sposta e si sottrae via via che il soggetto si sforza di conseguirlo, di impadronirsene, di riscuoterne il suo piacere.

Se ne conclude – e non è una constatazione che abbia il merito dell’originalità – che ogni piacere realizzato non è altro che il sostituto, l’Ersatz del piacere originario, che si perseguiva. Applicato alla scrittura, ciò indicherà che il nominato “piacere di scrivere” è la procrastinazione continua di un godimento che non si raggiunge mai. Ci si rende conto, così, come l’immersione nella scrittura, comporti l’altra faccia, simmetrica, di pensum, di fatica e noia quasi intollerabile.

Un altro passo verso il tema prescritto: chi scrive e che cosa si scrive. Scrive chi ha desiderio di scrivere è enunciato impeccabile nella sua ovvietà e nel suo finale carattere tautologico: giacche scrivere è, nella sua natura ultima, atto che forma, produce il desiderio – desiderio di scrittura.

Roland Barthes si è interrogato, in un articolo, sulla qualità di verbo intransitivo assegnata al verbo “scrivere”, per cui lo scrittore non è più colui che scrive qualche cosa, ma colui che scrive tout court. Ed ha creduto di concludere che la questione va spostata, che in realtà scrivere è un verbo “medio”, secondo terminologia grammaticale: nel senso che il soggetto resta sempre interno al processo indicato dal verbo, lo scrittore è contenuto nell’atto di scrittura.

Questo punto di vista chiarisce un po’ ciò che ho detto poco fa, circa la renitenza, tutta moderna, a vedere nello scrittore il padrone della scrittura.

Naturalmente vi sarete accorti che fino ad ora, parlando di scrittura e di scrittori, è dato per scontato che nell’usare il termine scrittore ci si riferisca sempre a colui che scrive per professione, indipendentemente dai riconoscimenti ufficiali; che, posto ci si possa esprimere così, fa il mestiere di scrittore.

Purtroppo l’italiano non consente la distinzione, proposta in lingua francese, fra écrivain e écrivant: quest’ultimo essendo chi ritiene che la lingua sia un puro strumento del pensiero, un utensile; mentre per l’écrivain sarebbe un luogo dialettico nel quale le cose si fanno e si disfanno, nel quale egli immerge e scompone la propria soggettività.

Ma c’è chi scrive, detto semplicemente, senza proporsi (agli altri, a se stesso) come romanziere o poeta o saggista o storico ecceterra. Che statuto ha colui che scrive senza assumere la marca di “scrittore”? È estremamente difficile disegnarlo, questo statuto. Ancora: nei nostri tempi di acculturazione di massa e di forte diffusione dell’alfabetismo, si può pensare cresciuto il numero questi scriventi? o per dir meglio: il numero di questi abitati dal desiderio di scrittura?

Alcuni aspetti delle nostre abitudini sociali ci spiazzano. Per esempio, la vistosa contrazione del ricorso alla lettera come mezzo per comuinicare a distanza – mezzo soppiantato ormai dal telefono, soprattutto.

La lettera resiste nella sua forma più scheletrica, sclerotizzata: stereotipo burocratico d’affari, formulario di relazione sociale. In nessuno di questi esempi, direi, lo scrivente sta davvero dentro la scrittura e mai l’iniziativa e lasciata alle parole, che conducano seco il loro supposto titolare…

Fino al Sette-Ottocento, fino ai primi decenni novecenteschi raccontare esperienze e sentimenti in lettere indirizzate a familiari o amici era una forma di letteratura – e non mi riferisco naturalmente solo agli epistolari dei “professionisti”: scrittori, filosofi, artisti, scienziati. Poi s’è aperto, credo, un vuoto, tanto che oggi, probabilmente, stupiremmo di trovarci fra i piedi una catena di lettere come forma letteraria della finzione, sul tipo, mettiamo, dello Jacopo Ortis o delle Liaisons dangerauses.

Ma così, volente o nolente, ho introdotto in scena l’incidenza delle tecniche, delle nuove tecniche di comunicazione interpersona. Evoco qui, con qualche imbarazzo dato che ormai è diventato un luogo comune della sociocultura a buon mercato, l’inevitabile computer, intendo il personal computer.

Ha alterato la nostra concezione dello scrivere, che dura almeno dai tempi di Gutenberg? Senza pronunciarmi se sia un bene o un male, direi di sì.

Recentemente, «il Manifesto» ha pubblicato un inserto che si occupava dei diversi aspetti della scrittura, e in particolare del rapporto con i nuovi strumenti elettronici. Il titolo, abbastanza metaforico, era seducente: “L’inchiostro e la luce”.

Come sta la videoscrittura, quella che compare sul monitor del computer usato come macchina da scrivere, alla scrittura tracciata con una penna o con una Olivetti ?

Non si parla con giustezza della scrittura, se la si vede unicamente come atto mentale, combinatoria astratta delle risorse del linguaggio. Scrivere è qualcosa di fortemente materiale, corporeo: e un’interazione di materie e insieme una motilità specifica del corpo, per cui la mano – dico proprio la mano nella sua realtà fisica – funziona non da semplice strumento ma da componente del processo creativo.

Ciascuno, pescando nella propria esperienza, può rendersi con­to che spesso è proprio la forma, la figura felice o infelice di una lettera, di una parola scritta dalla penna sul foglio, a dare una svolta, un pungolo all’idea, a suggerire di colpo una soluzione o a inibire una direzione. Nemmeno la macchina da scrivere, che è una protesi già più complessa e meccanica, interrompe questa circolazione fra intelligenza, corpo, scrittura. Alberto Savinio celebrava giustamente la fecondità dei lapsus che una battuta sbagliata della tastiera produceva sul foglio. A me capita che il cambio di macchina, alterando l’immagine della scrittura meccanica (caratteri diversi, differente inchiostrazione, mutamento di tocco...) alteri anche il rapporto di distanza mentale, e dunque la possibilità di identificazione con ciò che ho scritto.

Per riprendere il riferimento al “Manifesto”. In uno dei pezzi si segnalava come indizio significante la scomparsa, per quanto attiene alla videoscrittura, dei “residui cartacei”. S’intendono qui i brogliacci, gli appunti, le varianti, i paragrafi cassatti… Forse una comprensione più allargata della scrittura di Proust, come fatto di creazione poetica, ci viene dalla possibilità di visualizzare, sia pure per un istante e quasi subliminalmente, una pagina dei suoi quaderni o delle sue bozze, con la ragnatela sconvolgente delle correzioni e delle dilatazioni – vorrei dire dall’immagine della sua scrittura come evento fisico, produzione in atto.

È vero che anche il computer permette, se si voglia, di fissare i passaggi della elaborazione scrittoria, ma non con la stessa intensità corporea, anzi visceralità, della scrittura autografa o anche di quella dattilografica mescolata alle cancellature, alle aggiunte, alle rettifiche, agli sgorbi fatti a penna.

Con l’uso del computer, sostiene uno dei pezzi citati, la parola scritta si fa più malleabile, più aderente al corso soggettivo dei pensieri e delle sensazioni; recupera qualcosa di molto antico, di originario, vicino alla parola parlata. Ma aggiunge subito che ciò avviene secondo regole del gioco ben precise, che forse implicano alti prezzi di omologazione e di appiattimento.
Non saprei dirvi, sui due piedi, quanto di vero contengano tali affermazioni. Bisognerebbe pensarci a lungo. Ma intanto conta averle proposte all’attenzione.

Si potrebbe osservare che finora ho trattato di come si scrive, piuttosto che di che cosa e chi. Ma non si è mai troppo materialisti occupandosi della scrittura, se si voglia toccare, anche parzialmente, la sua essenza più profonda. Del resto risulta abbastanza chiaro da quanto ho detto, che problemi e considerazioni di questo tipo entrano a determinare, sia pure in modo molto mascherato, ciò che scrivono i nostri contemporanei, e anche il nostro modo di lettura.

Penso che non vi aspettiate da me un elenco di nomi d’autori e di titoli di opere, come esemplificazione: non sarebbe molto utile, e nemmeno molto chiaro. Le motivazioni – io direi le pulsioni, o ancora meglio: il desiderio – per cui gli scrittori di una certa epoca si decidono alla scrittura, non sono catturabili se non in misura molto grossolana e mistificatoria neppure dalla più ambiziosa e armata sociologia della letteratura.

Mi capitò una volta di stendere una nota sui rapporti fra tecnologia e letteratura, che del resto costituiscono solo un aspetto della questione. Naturalmente vi facevo cenno al caso Gadda, all’ineludibile coté “ingegneresco” della sua scrittura – restando inteso che la techne risolutiva di Gadda scavalcava tutte le tecniche con le quali avesse voluto fare i conti. Ma poi passavo ad autori più vicini, riferendomi a due romanzi usciti a breve distanza l’uno dall’altro: Cima delle nobildonne di Stefano D’Arrigo e Atlante occidentale di Daniele Del Giudice.

Sono, s’intende, romanzi del tutto divergenti, come i loro autori, rna forse riconducibili a qualche unità di esame dal fatto che in entrambi una realtà scientifica, ossia un sistema di riferimenti a una certa competenza tecnica, a una zona di sapere (mettiamo l’embriologia, la chirurgia plastica nell’un caso, la fisica delle particelle nell’altro) agisce come ragione stessa del racconto.

Non riprenderò qui alcuni riscontri che facevo sul linguaggio dei due libri, a dimostrazione di tale assunto. Ho solo voluto citare un caso, per indicare i molteplici intrecci e le diverse determinazioni di un momento culturale con i quali entra in rapporto la scrittura.

Credo che il vero scopo di questo incontro sia stato non di raccogliere una farragine di dati, necessariamente incompleti, sulla produzione letteraria contemporanea, ma di costituire un piccolo laboratorio di scrittura. Voglio dire: predisporre un luogo di scambio, dove abbozzare le condizioni di comparsa della scrittura, la natura stessa dello scrivere, non tanto astrattamente ma qui ed ora.

In un convegno di poche settimane fa all’università di Pavia, si avanzò questa ipotesi (si parlava della nuova narrativa): che i giovani narratori rivelino, se non una mancanza, un certo disagio di progettazione nel loro lavoro. O, se si preferisce mettere da parte un termine ormai quasi impronunciabile come “progetto”: un difetto di capacità di articolare il proprio lavoro creativo dentro una comune ricerca, proiettata nel futuro. Insomma, ci si domandava: basterà che ciascuno produca il proprio oggetto o libro, al meglio delle risorse, senza una prospettiva globale di dove condurre la letteratura – come bene o male avevano tentato di fare gli autori degli Anni Sessanta?

Ciò risponde, in qualche modo alla domanda: che cose si scrive in Italia? Penso di si, anche se è una risposta che ha la forma di una domanda. E quanto all’altro elemento del titolo: “Chi scrive”, tutto questo nostro chiacchierare non riposa, in fondo, sulla convinzione che a ciascuno sia aperta la strada, l’impulso, a lavorare con il linguaggio, scrivendo?

Certo, a un altro livello sta ciò che si può fare dal linguaggio, secondo la distinzione molto sottile avanzata da uno che appunto con la scrittura ci sapeva fare: Karl Kraus.

Tanto che per finire, non troverei di meglio che uno dei suoi aforismi: “Cammino di chi scrive: all’inizio non si è abituati, e perciò tutto va liscio. Ma dopo diventa sempre peggio, e quando finalmente si è in esercizio, uno non riesce più a cavarsela con certe frasi”