Scrittura terminabile e interminabile

Nell’etichetta apposta a questa mia conversazione – “Scrittura terminabile e interminabile” – molti di voi avranno agevolmente riconosciuta l’eco un titolo ben famoso, cui s’intesta uno scritto di Freud considerato fondamentale, “Analisi terminabile e interminabile”, del 1937.

Il ricalco non è affatto casuale. Tuttavia non vuole protrarre il parallelismo al di là di uno stimolo iniziale piuttosto utile, al quale di tanto in tanto richiamarsi per una specie di controllo di rotta. È perfino ovvio precisare che letteratura e psicoanalisi non sono la stessa cosa, non procedono secondo gli stessi criteri. Ma spostata al testo poetico, la domanda sul principio e sulla fine rivela senza fatica certe analogie fra i due discorsi, non solo riguardo ai problemi che suscita ma soprattutto al modo di affrontarli.

Procederò servendomi in forma metaforica di quanto può, al caso, esibire la psicoanalisi – “fantasticando”, per usare un verbo che Freud non ha nessuna paura a congiungere a quelli di “speculare” e “teorizzare”. Fin quando le due strade procedono parallele, ne trarrò profitto, e perfino sono pronto a farle incrociare, se occorre in nome dell’invenzione.

Il primo passo, come per l’analisi, è distinguere teoria e prassi anche per la scrittura. L’analisi non finisce necessariamente quando analista e analizzante prendono congedo di mutuo accordo. Sappiamo che esistono analisi visibilmente interrotte a metà; altre che ostentano di essere terminate e in effetti non lo sono. A parte patientis, Ferenczi intravede la fine quando insorge la convinzione che l’analisi non apporta più nulla sul piano della realtà.

A livello teorico, le cose s’ingarbugliano. Il buon senso, a volte eccellente a volte pessimo teorizzatore, ci indica indiscutibilmente dove finisce, mettiamo una poesia. La scrittura manuale e quella tipografica dispongono di segni convenzionali ben precisi per certificarci del punto in cui un testo si conclude. A parte quelle lasciate esplicitamente incompiute per varie ragioni, a parte gli appunti, gli assaggi, i brouillons, tutte le poesie ci si presentano con un inizio e una fine.

La cosa appare così indiscutibile, da indurre, per poco che ci si rifletta, a un dubbio crescente.

Il fenotesto, ossia il testo visibile di una poesia – quello stampato, quello su cui appoggiamo la nostra lettura – risponde senza esitazioni alla domanda: dove comincia e soprattutto: dove finisce una poesia? Esso tuttavia è soltanto uno dei testi, o per dir meglio: una faccetta del testo totale, allo stesso modo che la scrittura percorsa dall’occhio è l’effetto di un nodo di scritture, evidenti e latenti, attuali e ipotetiche.

Prendiamo per un momento il problema da un’altra delle sue code – ne ha parecchie! La poesia è anche una. questione di numeri.

Nella sua prima “Meditazione”, Descartes dichiara che, sia in veglia che in sonno, due più tre fa sempre cinque e un quadrato non ha mai più di quattro lati. Anche involte nel sogno, queste verità molto semplici e generali, conservano un fondo indubitabile. Duecentocinquant’anni dopo Freud, l’Interpretazione dei sogni, rovescia un po’ queste verità che resistono nel sogno e dà voce a quelle che emergono solo dal sogno, e dal sintomo.

 Anche la poesia è un circuito dentro il quale si ripropone la questione se due più tre faccia naturalmente cinque. Direte subito: bella conclusione banale, da arrivarci per un giro di parole così pretenzioso! In effetti, vorrei dire che la. cosa è un poco più profonda. L’incontro del numero con la poesia produce soprattutto effetti di scarto. Neppure la numerazione della metrica resta regolare: essa diventa significante nella misura in cui accelera o ritarda…

Ma poi: tre e due fa cinque: ma quel cinque che esce in poesia, che numero è? La serie dei numeri naturali permette di riportare per dir così su una retta il momento d’inizio e quello di chiusura. Ma se il metro campione venga turbato, ossia spostato ad un altro ordine di rapporti, saltano i punti di riferimento e le misurazioni ad essi accordate.

Una scrittura poetica – impiego il termine poetico nell’accezione più ampia – non ci garantisce dei suoi segni visibili. Il fatto è che il lettore non accetta più tale garanzia. La poesia ci si presenta di colpo come un continuo, entro il quale il singolo testo, il poema storico come si usa dire, rappresenta solo “una delle sezioni possibili, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima.” Le: sezioni così praticate (o praticabili) sono dunque fondamentalmente ipotetiche e non ci dicono nulla di attendibile sulla interrogazione dell’inizio.

La poesia è terminabile? Ossia ha un punto in cui si conclude senza residui? è un lavoro che fa coincidere il suo fine e la sua fine? Da una risposta in un senso o nell’altro derivano conseguenze teoriche, ma perfino pratiche, di notevole importanza; soprattutto deriva un’idea specifica della sua natura ultima.

Occorre almeno fare piazza pulita in un senso. Poesia non-terminabile non è lo stesso che poesia infinita, al contrario. “Poesia infinita” entra nei registri di una fantasmatica mistica, di una trascendenza che si assottiglia continuamente fino ad evaporare nel nulla; è insomma una specie di proliferazione senza corpo.

La nozione di “non terminabilità” investe qualche cosa di molto materiale, insomma un compito preciso; ha a che fare con il ritorno dell’identico/diverso, con l’inesauribilità del movimento di una spirale. Essere interminabile è una qualità della scrittura, intendo proprio della mano che scrive – la sua necessità.

Se volete, si lega piuttosto all’imperfezione che alla perfezione.

Faccio parlare per un momento, credo a proposito, Maurice Blanchot.

“La situazione è questa: ha perso la capacità di esprimersi in modo continuo, come bisogna fare sia per garantire la coerenza di un discorso logico attraverso la concatenazione del tempo intemporale che è quello di una ragione occupata a cercare l’identità e l’unità, sia per obbedire al fluire ininterrotto della scrittura. La cosa non gli fa piacere. Eppure certe volte gli sembra di avere acquistato in compenso il potere di esprimersi per intermittenza o addirittura quello di far parlare l’intermittenza...

…Giunge alla conclusione che la frase... esiste solo per provocare l’intermittenza o per farsi significare da essa o per darle qualche contenuto, in modo che la frase – x è poi una frase?- abbia, oltre al suo senso proprio... un secondo significato costituito da questa interruzione intermittente a cui l’invita...”.

Ho appena parlato di necessità della scrittura: allora niente mi sembra più illuminante che richiamare la definizione che Lacan dà della necessità – insieme con quelle di impossibilità e di contingenza. Essa si costituisce con la formula del “ne cesse pas de s’écrire” formula che promana dal “cesse de ne pas s’écrire”, che definisce la contingenza, per il semplice spostamento della negazione.

Allora, perché non ipotizzare che il testo poetico inizi nel segno della contingenza, quando smette il “non scriversi”? È, in altra forma, esattamente ciò che si intendeva parlando, per ogni poema storico, di “una delle sezioni possibili…”.

Però questa contingenza è interna a una necessità, al “non cessare mai di scriversi” della scrittura, che contiene tutti i “poemi storici”: li contiene, intendo, non come la contingenza che è “tutta dipinta nel cospetto eterno”, ma come lavoro interminabile, come materia dilatata senza fine.

La poesia si scopre “non terminabile”, per avere il suo punto d’arresto solo nell’impossibile, che la formula lacaniana indica con il “ne cesse pas de ne pas s’écrire”: ossia con il reale.

Voglio dire che l’inizio e la fine di una poesia, della poesia, non sono un imbroglio, una mistificazione, ma una sembianza. La scrittura poetica appare proprio in questo doppio senso: di rendersi visibile con un attacco e una chiusa, ma poi nell’investire questi termini, attacco e chiusa, di una intimazione d’immaginario.

La scrittura poetica è una scrittura totalmente simbolica, ma il suo prodursi, il suo “cessare di”, si lega all’immaginario. Diciamo pure grossolanamente che la poesia si colloca all’intersezione di questi due anelli.
E l’anello del reale, ossia l’impossibile?

Continuiamo con le ipotesi. L’impossibile è l’orizzonte entro il quale è concepibile ogni scrittura, ogni operazione poetica.

Cercherò, un po’ all’ingrosso e alla svelta, di cogliere, in un testo preciso, concreto, il segno della terminabilità / interminabilità.

Per non farmi la parte troppo facile, prendo un testo addirittura proverbiale, esempio di una performance miracolosa nella sua semplicità, compattezza, chiusura: “L’ infinito”.

“L’infinito” sembra offrire proprio il caso di un testo poetico che termina, che ha un termine; un testo, direi, che “termina in bellezza”.

La scelta di questa poesia leopardiana ha anche un pregio supplementare: di permettermi di dichiarare che il messaggio psicologico che essa convoglia, non entra per niente in gioco. Non l’ho scelta perché discorra appunto di “infinito” (che peraltro, ripeto, non è il non-terminabile), né di sprofondi mentali e sonori, di spazi “interminati”.

Ai fini del discorsetto tentato qui, io voglio solo attirare la vostra attenzione su alcuni elementi testuali, che possono servire da indizio in una certa direzione.

Direi intanto la tramatura dei deittici “questo”, “quello”, a partire dal proverbiale “quest’ermo colle” fino al. “questo mare”, in clausola altrettanto celebrata; soprattutto come la si coglie, questa tramatura, nel passaggio “E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando...”, dove l’incrocio dei deittici sembra astrarsi da ogni referente reale o realistico.

Proprio questo scorrimento circolare che, mentre assegna al discorso i suoi luoghi, li spazializza e finisce per immetterli in una specie di tourbillon, conferisce al testo un senso di non terminato, che non vuol dire, si capisce, di imperfetto o di incompleto, ma capacità di sfondare di là dalla chiusura sintattica, metrica, comunicativa.

“L’infinito” é l’esperienza della infinità condotta in un vaso chiuso ossia in una situazione rigorosamente delimitata (“che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude..”) ma accettata e anzi indispensabile. Però questa esperienza non è percorribile nella sua integrità e dunque non può essere sigillata in un gesto verbale concluso.

Costruito su uno straordinario dosaggio di elementi claustrofobici e di squarci spazio-temporali, “L’infinito” consegna quasi paradigmaticamente l’impossibilità profonda di “terminare” là dove la sua forma sensibile indicherebbe . La lettura dell’“Infinito” ci mette in presenza di una poesia che non chiude la scrittura. Paradossalmente vorrei dire che non ci può essere una poesia che venga dopo la fine dell’“Infinito”, perché “L’infinito” non termina mai.

“Naufragar” è verbo che lo dice bene, chi sappia intenderlo. In materia di verbi, bisognerebbe anche cogliere il rapporto, attraverso l’intera poesia, fra il “mirando” (“qui sedendo e mirando”) e il vo comparando” – mirando, verbo della attività fantasmatica continua, verbo del “ne cesse pas de s’écrire”; comparando, voce dell’attività performativa, strutturante, istituzionalizzante propria della poesia in quanto produca poesie.

 

Potrei anche portare come reperto, un passaggio, altrettanto frequentato, dei Canti orfici, “Genova”, quello che attacca “Per i vichi marini nell’ambigua / sera cacciava il vento fra i fanali…”: prelibato specimine del linguaggio campaniano che si sfalda, come è stato detto.

Naturalmente niente, qui, del presunto venir meno di un controllo intellettuale, di un’afasia classificabile nosologicamente.

O semmai: l’afasia – la figurazione dell’afasia, non meno che l’ecolalia, la paranomasia, gli scarti sintattici funzionano a dichiarare, nel testo, la postulazione del non-terminabile – di ciò che ritorna, lungo una spirale, quasi identico e diverso, e dunque non smette di scriversi, prolungando continuamente la propria articolazione.

Figure retoriche? soprattutto qualcosa che attiene allo spiegarsi di quella che è la natura del fare poetico.

 

Inseguita in certe sue pieghe, la poesis rischia di dare la risposta del saggio Sileno incalzato da re Mida: perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sapere? Si sa che un’idea riduttiva e tranquillizzante della poesia ne predica la natura consolatoria, non solo per ciò che dice, ma per come funziona – per la sua compattezza, presenza, certezza.

Messa alle strette anche sulla questione della terminabilità/interminabilità, la poesia dà indizio di terminare, come ho creduto di dire, al muro dell’impossibile – del reale – della morte.

Vi prego di accogliere questa convitata al discorso della letteratura – la morte, dico – senza aureolarla di nessun indebito patetismo.

Nello scrivere operano due postulazioni che possono essere trascritte nella coppia filìa/neikos, che Freud impresta come principi o pulsioni fondamentali dalla teoria di Empedocle, per trasformarli nei suoi Eros e Thanatos, proprio nelle ultime pagine dell’opera che mi ha fornito l’avvio del titolo.

Se ciò che chiamo “necessità della scrittura” è la sua pulsione erotica o libido, essa trova, ripeto, il suo arresto in una simmetrica pulsione di morte. Forse ogni scrittura tende, come ultimo desiderio, a tornare all’inesistenza, ad annullarsi.

È probabilmente questo che dice qualunque testo poetico che tocchi il massimo livello – ed è parte costitutiva di tale livello.

Secondo una corretta dialettica, la morte resta dunque lo sfondo ineliminabile della funzione scrittoria, senza per questo renderla a un destino negativo, apocalittico.

Le domande, implicite o esplicite in ciò che ho avanzato fin qui, mettono capo a una domanda ulteriore, che magari è solo la formulazione in altro modo del già detto. La poesia è il linguaggio della poesia: ma questo linguaggio è adeguato ad adempiere alle sue stesse operazioni? Qui finisce per annidarsi, in ultima istanza, il dilemma – o falso dilemma – del terminabile/interminabile.

Rimane sospeso se l’interminabilità, che si è creduto di riconoscere alla scrittura, sia una qualità positiva o negativa. Ma mettere le cose in questo modo è già un errore.

Sicché il non-terminabile si potrebbe enunciare anche così: ogni sezione della scrittura produce sempre un’eccedenza, un “in più”, che non permette mai di chiudere il conto. Chiamiamolo, ricalcando una formula famosa, Mehr-Lust, pluspiacere.

La lingua è un sistema: per uscirne non c’e che l’eccedenza del Mehr-Lust, quale residuo non riciclabile del sistema stesso.

Dato che, fortunatamente per voi, non mi postulo come “interminabile”, arrivo a una conclusione provvisoria di questa chiacchierata – e lo faccio riallacciandomi proprio al testo freudiano cui ho accennato cominciando.

Dice Freud: quando, per poter terminare un’analisi, abbiamo ben ben scavato seguendo il desiderio del pene e la protesta virile, attraverso tutte le stratificazioni psicologiche, incontriamo una resistenza, una “ roccia basilare”.

Freud dà un nome a questa roccia: l’elemento biologico. Qual è la roccia che sta sotto la scrittura poetica, nella quale ci imbattiamo come un arresto, nei nostri scavi, intendo: nei nostri sforzi di penetrarne la natura e il funzionamento? Giro a più competenti l’impegno di trovar una risposta.