L'antro del romanzo

L’antro, o meglio ancora: lo speco del romanzo permette un’omofonia con “specchio” e così rimanda a una classica definizione del romanzo, magari un pochino fantasista, come “specchio portato a spasso per una strada affollata” – a riprodurre genti e azioni.

La metafora dell’antro, o speco, naturalmente richiama subito la caverna del mito platonico, con le ombre proiettate dall’esterno sulla parete. Però a me è venuta a proposito andando a riguardare uno scritto di Porfirio, filosofo greco del terzo secolo, scritto che porta appunto il titolo L’antro delle Ninfe.

In esso si fa una minuziosa analisi simbolica di undici versi dell’ Odissea, dove Omero descrive la grotta della Ninfe ad Itaca, la sua dislocazione e tutte le sue singolari suppellettili, se così vogliamo chiamarle.

Secondo Porfirio, l’antro è simbolo, non solo del cosmo, cioè del generato e del sensibile, ma anche, per la sua oscurità, di tutte le potenze invisibili. Che l’antro abbia due ingressi, anche questo non è senza significato profondo.

Mi è sembrato che tale microapparizione, o micromito omerico, fornisse uno strumento di analogia per entrare nel discorso sul romanzo che si vorrebbe qui abbozzare. Quei rinvii all’oscurità, al generato e al sensibile verranno forse fuori nel discorso, man mano che procederemo, come abbastanza pertinenti, sia pure su un piano particolare, e ricchi di stimoli. Anche il romanzo è un cosmo che ha il suo ventre nero – ha origine nella diversità, “armonia e tensione di contrari” e la molteplicità degli ingressi possibili (non dico la dualità delle porte omeriche) lo segnala.

La chiamata in causa del testo di Porfirio si può prenderla come un ausilio ermeneutico, o viatico; ma pure come un gioco. Se è quest’ultima la vostra scelta, tanto meglio – se poi avrete qualche dubbio, vi invito ad andare a leggere lo scritto di Porfirio, che oltretutto è breve e suggestivo. In ogni caso questo avvio annuncia ciò che vorrebbe essere il mio discorso  non formalistico, anche se in qualche punto discretamente formalizzante; non accademico, sebbene io ceda sempre al fascino dell’insegnamento accademico – ma qui me ne astengo per non mettermi in un luogo che non mi spetta. Vorrei teorizzare un po’ sul romanzo, ma considerandolo soprattutto come un processo psichico, un progetto, un happening: qualche cosa da avvicinare attraverso vie meno canoniche possibili, analogiche, perfino direi improvvisate e improbabili.

Se si voglia trovare un riferimento di fondo, sarà rappresentato più che da tante formulazioni narratologiche suggestive, dal discorso della psicoanalisi, per quanto chiami in causa i problemi dell’enunciazione e del sorgere del soggetto.

Per ilresto, a dirla con Bachtin, “il romanzo è l’unico genere letterario in divenire e ancora incompiuto”: così anche qui, non cerco di costruire “una definizione del canone”, ma di sondare “le possibilità strutturali di fondo di questo che è il più plastico dei generi letterari…”

 

Così, per lasciare i preamboli e venire un poco al sodo, mi sono munito di uno strumentino a quattro zampe, di un tetràpode diciamo così, che raggruppa le radici, o costituenti essenziali del narrare, come fondano e articolano quel genere narrativo per eccellenza, il romanzo, al quale farò riferimento, per comodità, da qui in avanti.

Queste radici sono: il luogo, il nome, il tempo e l’avventura.

Perché quattro? e perché non, mettiamo, tre o sette o nove?

Il numero si è fissato, quasi da sé, dopo una serie di aggiustamenti della teoria, o diciamo più modestamente: della proposta. Esso è quello che consente una definizione abbastanza ampia da qualificare aspetti essenziali dell’oggetto, ma non così estesa da aprirla praticamente a tutto, e dunque annullarla.

Non è, evidentemente, uno strumento magico che liquidi tutte le contraddizioni – o un letto di Procuste entro il quale fare entrare i corpi viventi dei romanzi. Prendiamo dunque queste quattro radici come mélange di normatività e di dubbio. Si tratta, insomma, di ipotesi di lavoro.

Cominciamo dunque a sperimentarle all’uso, partendo dal luogo­.

Il romanzo ha alla sua origine la istituzione di un luogo nel quale esso possa avvenire in quanto narrazione, e che lo contenga e lo qualifichi.

Ho detto, non a caso, luogo e non luoghi.

I luoghi: montagne, fiumi, laghi, mari, città, villaggi, strade eccetera, sono supporti essenziali di ogni romanzo, che si svolge in un dove, reperibile su una carta geografica o una mappa, poco importa se reale o di fantasia, oppure uscita da una fusione dell’una o dell’altra – Dublino di Joyce o Balbec di Proust, Pont – l’Evèque o l’orografia-idrografia manzoniana o il Wessex di Hardy. Ma perché questi luoghi possano entrare nella pagina, agire con la propria denominazione precisa, spartire e rilanciare eventi e personaggi, occorre quell’atto anteriore di costituzione del luogo del romanzo, che ho detto.

Si tratta, sia lecito sottolinearlo, del luogo che contiene i luoghi. Spazio d’individuazione, non solo per la storia da raccontare ma per la scrittura stessa che la racconta – conle sue peculiarità, le sue scelte caratterizzanti.         

Possiamo mettere le cose così: aprire uno spazio dove prima non c’era nulla; uno spazio che s’identifica con il romanzo, o insomma: con la narrazione, per cui è stato aperto.

Se vado in cerca di qualcosa che possa aiutarmi a definire passabilmente questo luogo, mi trovo fra le mani la nozione di chora, che Platone avanza nel Tímeo, in modo suggestivo quanto, ahimé, non proprio perspicuo, e che la Kristeva riprende, ad uso suo, nella Rivoluzione del linguaggio poetico: chora, spazio, intervallo, posto, regione, territorio... ma anche ricettacolo, perché è necessario “che tutto quello che è si trovi in qualche luogo e occupi qualche spazio”...

Ma, a parte il resto, la grande differenza con Platone, dove essa è figurata come una specie generale, anteriore a tutto, sta in ciò che la nostra chora romanzesca è propria di ciascun romanzo, specifica alla natura di quella precisa narrazione, e soltanto di quella; nasce, ad opera dell’autore, con l’atto con cui egli determina la propria scrittura. È l’intervallo che lo scrittore mette fra sé e il lettore, perché vi avvenga quel testo.

Si tratta di un luogo insieme simbolico e concreto – di soluzioni linguistiche e stilistiche, di figurazioni, di strutture diegetiche e di articolazioni emotive. Lo chiamerei, in conclusione, con un aggettivo solo, forse riassuntivo, un luogo semiotico.

Mi osserverete che la costituzione di un posto perché il testo vi avvenga, si può predicare per ogni testo letterario, non solo per il romanzo. Ma non c’e dubbio che nel romanzo, nella narrazione, ciò assuma una rilevanza particolare, se appunto il romanzo sia una successione di momenti, un processo continuativo di localizzazioni. Il luogo romanzesco si estroflette mentre il luogo poetico, una volta posto, tende a introflettersi, a richiudersi su se stesso.

Spero di non avere impiegato troppe parole su questo primo punto: troppe parole rischiano di intorbidare anziché chiarire.

Pensate per un momento all’esempio più comodo, anche se forse un po’ superficiale: al Robinson Crusoe, all’isola di Robinson.

Prima che ci fosse l’isola raccontata dove Robinson passa anni di solitudine, dove si istituisce ricostruttore di una società unius hominis, padre di Venerdì ma soprattutto padre di se stesso, occorreva che avvenisse un altro luogo, lo “spazio dell’isola” per eccellenza, luogo geometrico, come dice Pierre Macherey, di un motivo ideologico che si prepara ad esistere: la reverie, il sogno sull’origine.

Ma. vorrei portare qualche altro esempio in cui è il testo stesso del romanzo che si fa spia di questa “creazione del luogo”.

Saranno due passaggi di A’ la recherche du temps perdu. Si trovano entrambi nel Du côté de chez Swann, dunque all’inizio dell’opera.

Il primo riguarda un’abitudine della vita di Marcel ragazzo a Combray, la lunga passeggiata notturna per il rientro a casa dopo le funzioni del “mese di Maria”.

È poco più di una paginetta, nella quale la topografia del villaggio, con i suoi luoghi-nomi deputati, si sfa via via, si deforma, si tramuta in qualche cosa d’altro sotto l’effetto della luce lunare, delle ombre, dello spaesamento. Il “dove” noto diventa “altrove” sconosciuto.

“D’un tratto mio padre ci faceva fermare...”

È uno degli innumerevoli passaggi-chiave della Recherche: che si nascondono nel suo tessuto, inavvertibili anche alla seconda o terza lettura, per saltare fuori come a caso (ma non è un caso!) a siderarci con il loro potenziale di rivelazione.

Che cosa avviene qui? Quale è il luogo, luogo genetico, la matrice della Recherche, che la sequenza ci fa intravedere? È quello determinato dal proiettarsi della durata (la lunga camminata notturna) sulla spazialità, una spazialità (strade, edifici di Combray) vacillante, fuggitiva, incalzata da un processo, metamorfico. Ma potremmo anche dire, all’opposto: è il luogo determinato dall’inscriversi dello spazio in una fluidità di tempo. La “porticina del giardino” è venuta ad aspettare il lettore, percorrendo una distanza e dando vita a una falda di tempo.

Il luogo in cui, secondo il suggerimento del testo proustiano, istituire la Recherche, è dunque il Luogo della Conversione; non molto diverso da ciò che elabora Roland Barthes parlando, a proposito del romanzo di Proust, di Logica del Vacillamento.

L’altro brano, che porta un messaggio analogo, precede di poco quello appena citato: riguarda le variazioni d’aspetto del campanile di Combray secondo le vie d’approccio e le ore del giorno – e il suo riaffacciarsi dietro ogni altra immagine di torre o campanile. Anche qui, per ragioni d’economia, debbo limitarmi a leggervi la clausola del paragrafo, che riassume il processo mentale e affettivo di quella sovrapposizione [...] clausola essenziale, non solo perché vi si ravvisa inaspettatamente la curva di una famosa frase di Freud sulla bonifica dello Zuydersee; ma perché introduce la memoria, questo istituto chiave della Recherche, più metonimicamente che metaforicamente, come luogo, territorio riscattato e solidificato nella sua integrità dal contatto magico con un oggetto – campanile, torre... È già una figurazione meno vulgata…

Credo di avere offerto un’idea accettabile, anche se frettolosa della natura di ciò che sia la prima radice dell’organismo romanzo. Posso anche citare di volo, e a malincuore, perché la cosa meriterebbe una sosta e un’interrogazione attenta – posso citare, dico, le prime righe del Don Chisciotte, con l’accenno famoso al “paese della Mancia di cui non voglio ricordarmi il nome”. Non è anche questa la pronuncia di un luogo, in posizione privilegiata, ad apertura dell’opera? C’è da chiedersi un momento se tale luogo, di cui viene nascosto il nome, altro non sia che il luogo propiziatore di tutto il Don Chisciotte – posto della follia biffata in partenza per meglio esplodere nel racconto; follia, beninteso, non solo dell’ingegnoso hidalgo ma di Cervantes stesso...

Riprendo la strada alla svelta, perché c’è ancora parecchio da dire, e chiamo in causa adesso il secondo elemento o radice: il nome. Il quale del resto s’annoda quasi obbligatoriamente con la questione del luogo, come suggerisce anche un passaggio della Interpretazione dei sogni: secondo cui il lavoro onirico tratta spesso i luoghi come fossero persone. Una carta geografica è una figurazione dello spazio coperta dai nomi, leggibile unicamente in base ad essi.

Il luogo semiotico crea la possibilità di quel romanzo: ma è il nome, sono i nomi, per cui la narrazione comincia a esistere davvero. Intendo qui parlare di nomi propri, anche se, al limite, possiamo tenere fermo che in un testo letterario qualsiasi nome precipita, dirò chimicamente, come nome proprio, ossia come unicum – non designa una classe ma un individuo irriducibile, un soggetto.

Siamo sempre nell’ambito dell’affermazione di Lotman, secondo cui nel testo poetico la semplice ripetizione di una parola la rende ogni volta diversa. Questa qualità originaria, individuante, unica del nome è ciò che nutre la sua funzione essenziale nel romanzo, nel narrare: il nome è unico perché contiene nelle sue lettere una storia; perché è potenzialità di racconto. Dalla interazione dei nomi, nomi-soggetti, nomi-storie, prende l’avvio quel complesso che chiamiamo romanzo.

Adamo, nella Genesi, tutto sommato è il prototipo del narratore, nel gesto di imporre un nome alle cose. Nel libro di Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, c’è un passaggio che collega questo mito delle origini alla teoria del linguaggio, e dove si sottolinea pressappoco che, per effetto del nome, “la storia si fa inseparabile dal soggetto e il soggetto parte indispensabile della storia”.

Capite bene che parlando del potere del nome non mi riferisco alla mano più o meno felice del romanziere nel coniare nomi che condensino semanticamente o fonosimbolicamente caratteri e destini del personaggio – sebbene anche questo abbia la sua importanza: può svelarsi qui una forma magari preconscia di condizionamento che procede a ritroso, fino a un punto d’origine (ne dice qualcosa, in chiave finissima, il capitoletto “Onomastica manzoniana” di Gianfranco Contini..)

Per chiarire un po’ cosa intendo, sfruttiamo Italo Svevo, prendiamo, nella Coscienza di Zeno, appunto il nome del protagonista, Zeno Cosini. “Cosini”, lo si avverte subito, è la marca di un soggetto oscillante, malato immaginario, sempre in ritardo, sembra, sui fatti, sostanzialmente fallimentare. Zeno, all’opposto, (o complementarmente) designa un’energia, una gioiosità istintiva, un’attitudine insospettabile a far virare l’insuccesso in successo. La congiunzione delle due denominazioni, è il compendio, l’icona della storia del romanzo – dovrei dire: della sua produzione di significato.

C’è un altro paradigma, ancora più lampante per ciò che attiene al compito come dire? demiurgico dei nomi: riguarda il nome Robinson Crusoe. Sotto il quale è andato a nascondersi l’antico nome di famiglia, Kreutznaer, suscettibile di una serie di segmentazioni ideogrammatiche che qui non posso che lasciare da parte. Ma è proprio nel passaggio onomastico fra Kreutznaer e Crusoe che si annida tutto il romanzo di Defoe, l’articolarsi dell’avventura con i suoi sensi (come quello capitale, e sotteso a tutto il libro, dell’espulsione dalla famiglia).

Quello che sta sotto a ciò che enuncio qui un po’ frettolosamente, è la coincidenza, per quanto riguarda il nome nel romanzo, fra lavoro narrativo e lavoro della lettera. Così può funzionare da nome proprio anche un sintagma. L’uomo–della-folla è il nome proprio, irriproducibile, che agita, articola il racconto ben noto di Poe. E la sequenza, domaine mystérieux, che designa la località fantastica ricercata da Meaulnes, nel bellissimo libro di Alain- Fournier, vale quanto nome proprio di un soggetto, non mero cartello di una proprietà di campagna – e costituisce causa e fine di tutto il racconto, forza motrice di esso, che non può venire separata dalla sequenza obbligata di lettere, con gli affetti e gli esiti che vi si incorporano.

In questa prospettiva direi che l’assoluto della nominazione si produce con la K, lettera inespiabile, che tatua sul personaggio di Kafka molto più di un nome, la cifra stessa di un destino.

Posso adesso liberarmi con maggiore rapidità delle due residue radici che mi proponevo di illustrare, e che sono appunto il tempo e l’avventura.

Quanto al tempo, ci si trova a ricalcare alcuni rispettabili, e non evitabili, luoghi comuni. La narrazione ha una peculiarità che salta proprio agli occhi, la sua durata, cioè il distendersi secondo una successione che peraltro non è affatto così lineare come pretenderebbero il calendario, mettiamo, e l’orologio.

Se volete, è una questione di liquidità, cioè di scorrere via: ma a differenza di un corso d’acqua, la temporalità romanzesca non ha un solo senso; e comunque in questo fiume, si potrebbe dire con Eraclito, entriamo e non entriamo, siamo e non siamo.

Un romanzo implica operazioni multiple: gestire il tempo finzionale, che è il tempo immaginario della storia raccontata ma anche il tempo, parallelo e non coincidente, della scrittura che la produce. Il problema non finisce qui: si tratta poi di integrare nel testo anche il tempo del lettore, che è un effetto del testo e che tuttavia entra a causarlo per una sorta di colpo di rimbalzo.

Nelle prime pagine della Montagna incantata, Thomas Mann ha accennato a una certa enigmatica qualità delle storie in quanto raccontate – o raccontabili: “debbono essere passate, e più sono passate, si potrebbe dire, tanto meglio per esse in quanto storie e per il narratore”. Dove, come è evidente, non si chiama in gioco una qualità che si esplichi attraverso la giusta posizione dei vari segmenti della narrazione o l’uso dei tempi grammaticali: romanziere e lettore hanno a che fare con un in-sé implicito alla domanda manniana: “Ma la natura remota di una storia non è tanto più profonda, perfetta, fiabesca, quanto più recente il suo passato?”

Il tempo autentico di un romanzo è nell’intersezione dei suoi tempi, quelli, per intenderci, appena enumerati. Ancora Mann, nella Montagna incantata, insinua la provocazione del ben calcolato stupore che, mentre il rendiconto delle prime settimane del soggiorno di Castorp a Davos Platz ha occupato un buono spazio di pagine, la descrizione delle tre settimane successive venga liquidata in poche righe. È il paradosso, o l’aporia, del tempo nel romanzo, che poco più di centocinquant’anni prima, del resto, aveva sprizzato malizia e mistificazione nel Tristram Shandy, a proposito degli “strani rapporti fra autore e lettore”. Dopo un anno di scrittura, inoltratosi a metà del quarto volume, Sterne non è andato oltre il racconto della prima giornata della sua vita. Insomma si trova ad avere trecentosessantaquattro giorni in più da narrare che non quando incominciò: “così che invece di andare avanti nel mio lavoro come qualsiasi biografo, dopo tutto quello che ho scritto mi trovo rigettato indietro di un numero corrispondente di volumi..”

Ho detto un momento fa qualcosa circa “malizia e mistificazione”. In effetti qui Sterne, o vogliamo dire il romanzo, sta parlando il massimo possibile della sua verità, almeno per quanto riguarda la questione del tempo. Appunto il Tristram Shandy si offre come uno dei testi in cui è più inventiva e costante l’amministrazione degli effetti narrativi-lettoriali, per i quali il racconto tende a incorporarsi e ordinarsi anche i comportamenti del lettore.

Non solo l’incardinamento dei fatti o le prospettive dei tempi del verbo, come ho già detto, orchestrano questa terza radice del narrare: nel testo si dà una miriade di elementi figurali, semantici, grammaticali ai quali viene deferito il compito di significare la temporalità. Sono tratti che magari sfuggono a una prima indagine. Ma è poi davvero irrilevante che la t, la lettera t di temps, annidatasi nell’avverbio temporale che apre la Recherche (longtemps), si ritrovi, ma tramutata da minuscola in maiuscola, in quel Temps che sigilla, o apre a uno spazio ulteriore, l’ultima riga del romanzo?

È una traccia quasi subliminale, una lettera che ha volitato attraverso il corpo grandioso della Recherche, a disegnare con il suo semplice passaggio muto, per chi sappia leggere i microsegni, tutta la trasformazione occorsa al tempo, da quel primo sonno infantile al riconoscimento finale.

Però vorrei anche andare a riaprire con voi le pagine della Coscienza di Zeno che Svevo dedica al “sistema dell’ultima sigaretta”, mediante il quale il Narratore non solo regola ad infinitum il suo rapporto con il vizio del fumo, ma anche con il tempo. Le annotazioni di Zeno Cosini condensano un istante il tempo per meglio disperderlo: ogni “ultima sigaretta” è una fine e un principio.

Ma qual è il tempo che Zenoriesce a produrre, anzi: a ri­produrre all’interno di quella minima e insieme grandiosa formazione di compromesso? non è più il tempo raccontante (o dell’autore) né quello raccontato (o del personaggio e della sua storia): è una pulsazione che, attraverso le proprie figure ironiche (le date che tappezzano le pareti della stanza..), mette a contatto con qualcosa che riguarda l’inconscio. L’inconscio, lo sappiamo benissimo, non conosce il tempo: il “prima” e il “dopo” sono segmentazioni introdotte dalla coscienza.

Tuttavia potremmo ipotizzare che il tempo del romanzo, di là dagli strumenti linguistici, compositivi che mettono in prospettiva narrazione e narratore, si avvicini a quella pulsazione originaria – un aprirsi e un chiudersi – con la quale si manifesta l’inconscio. Allora l’ingegnoso, e assurdo, sistema dell’ultima sigaretta messo in piedi da Svevo/Zeno, non sarà altro che un modo di trascrivere tale pulsazione per farla accedere alla coscienza.

Lascio la cosa in sospeso, naturalmente – come un’ipotesi di lavoro, dato che non intendo dirvi le cose “come stanno” ma solo per proporne una curvatura possibile.

Per chiudere la questione del tempo: vi lascio anche la rilettura, con calma e godimento, di un libriccino di Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, dove troverete appunto una gestione originale dell’elemento tempo. Per quanto ne sappia, è l’unico libro che, attraverso il passato remoto, l’imperfetto e il presente, finisca raccontandosi al futuro: e dico “raccontandosi” a ragion veduta, perché il destinatario o narratario del romanzo, come ha osservato elegantemente Gérard Genette, è il romanzo stesso.

Mi resta da liquidare il quarto radicale, che richiederà meno tempo perché rientra in una nozione largamente accettata: quello che ho definito dell’avventura.

In effetti, sono stato un po’ in dubbio sull’etichetta. Con il termine di avventura intendo riferirmi a quell’incastro di eventi – arrivi, partenze, apparizioni, scomparse, incontri e scontri – ma anche di passioni, a quella gran macchina di cause e di effetti che articola un romanzo, ne ingarbuglia le fila per poi scioglierle, insomma lo fa procedere al proprio fine, che è pure la propria fine. Non mi riferisco dunque solo al materiale che Sklovskij denominava la fabula di un romanzo, ma alla sua trama, vale a dire alle forme attraverso le quali la fabula prende corpo nel testo.

Tale macchina è propriamente distintiva del romanzo, poco importa che vari da un estremo di complessità esterna e dirò così tutta agìta, a una riduzione quasi di meri movimenti mentali. L’avventura opera tanto nei Tre moschettieri quanto in Gita al faro.

Ma per l’appunto, il congegno o ruotismo in questione ha un propellente, una forza che lo mette, e lo conserva, in moto: insomma, ciò che macchina una storia fino a farne un romanzo, è il desiderio.

Per questo, avrei voluto battezzare desiderio il quarto elemento. Ne sono stato dissuaso dall’uso alquanto sconsiderato del termine in anni ancora vicini – troppo zeppi di oggetti e macchine desideranti. Continuo a pensare, tuttavia, che sia questo il punto in cui diventa più visibile l’applicazione del desiderio – desiderio doppio: dell’autore, di raccontare una storia; del lettore, di riceverla in consegna.

Credo di avere fatto capire che l’avventura qui chiamata in causa sia piuttosto che una sommatoria di fatti precisi, una costellazione di energie, un campo di forze che si compongono secondo leggi intrinseche. Hanno delle buone ragioni i narratologi, da Propp in poi, a far ricorso ai loro vettori, alle freccette e agli archi di connessione, alle linee punteggiate e ai vari simboli grafici, per rendere ragione, in modo soddisfacente, di ciò che avviene in un romanzo. Laurence Sterne, che ha scritto col Tristram Shandy uno dei capolavori della narrativa moderna, era anche un felice teorizzatore in atto delle norme romanzesche; difatti ha inventato tracciati inediti per manifestare il percorso dell’avventura nel suo libro. Potrete avere il piacere di andare a controllarlo da voi.

L’avventura è il campo per eccellenza del caso: ciò che cade come necessità, e insieme ciò che interferisce imprevedibilmente: tutto il campo di simultaneità fortuite e di asincronie fortuite, per dirla secondo Bachtin. Il romanzo, in qualche modo, è la messa alla prova del caso: fino a che punto esso possa resistere alla pressione della “necessità del racconto”. Non c’è zona di un buon romanzo che non sia un compromesso, o se si preferisce una composizione, di queste due forze: caso e ananke – che non si inscriva in tale tensione pulsionale.

Sono arrivato alla conclusione di quella che voleva poi essere una semplice descrittiva. I quattro elementi qui ritagliati: luogo, nome, tempo e avventura, finiscono per ricoprire abbastanza esaurientemente i punti nodali del territorio del romanzo, peraltro così largo.

S’intende che questa quadrupletta funziona in modo unitario. Voglio dire, che ciascuno dei suoi elementi è necessario e insufficiente: solo il concorso di tutti e quattro può portare all’identificazione dell’organismo-romanzo.

Virginia Woolf era convinta che non esistesse “una sostanza propria” del romanzo. È possibile che tutti gli sforzi, ingegnosi o capziosi, di fissarne delle strutture primarie, delle procedure – in una parola: dei metodi, possano apparire di scarsa, o di nessuna utilità. O forse l’utilità, la giustificazione sta qui: che ancora una volta, parlando sul romanzo entriamo nel raggio di potere del romanzo, in qualche modo ne diventiamo un prodotto. Prodotto non so se secondario, ma certo un prodotto romanzesco. Teorizzare sul Don Chisciotte o sul Circolo Pickwick può essere il modo per trasformarci, noi stessi, in fiction.