Giancarlo Buzzi

Vita dalla morte“
Dentro le mie mani le tue” Tetralogia di Nightwater

L’inconscio non sembra, stando al suo comportamento, né benigno né garbato né ottimista né incoraggiante. Forse non privo di compassione. È persona – che non si può correttamente dire incarnatasi ma tutt’al più impsicheatasi, la psiche non essendo disgiungibile dalla carne e però altro da essa – non di una trinità ma di una binità infinitica e finitica che è il mistero. Persona partecipe e coamministratrice di una verità che saviamente fa balenare non nella sua – che sarebbe stroncatoria – interezza, ma in minima parte, e per giunta sbocconcellata, agli umani (solo agli umani, o a tutti i prodotti del fiat? alle bestie di sicuro). A quale scopo e da che cosa mosso? Irrispondibile domanda: perché attribuirgli la necessità scopica che condiziona tribolandoli i prodotti, appunto, del fiat? e la binità misterica ha bisogno d’essere mossa o è piuttosto immobilità movente? Procedendo in questa direzione si rischia il farnetico.

Accontentiamoci di meno. Limitiamoci a constatare che l’inconscio non rifiuta il compromesso, anzi lo pratica sistematicamente, e ha l’aria di operare secondo la massima pas toute vérité est bonne à dire. Ci adduce il bastevole a renderci avvertiti dell’esistenza di un vero molto di là di ciò che ci è parvente, a renderci curiosissimi e cupidissimi cercatori del medesimo in esperienza e consapevolezza dell’impossibilità di impadronircene. Perché non ce la dice tutta, quella verità? perché ce ne insinua servendosi dei teatrini del sogno solamente quel che serve a ingolosirci e a spaventarci, a stimolarci e a frustrarci, a fare di noi mega o micro Ulissi destinati al naufragio? Forse, viene da pensare, per non renderci impossibile o troppo arduo il tirare avanti sul frammento di stella che ci ospita. Appena fatta questa supposizione, ci rendiamo però conto della sua insufficienza. Rassegniamoci dunque a considerarci inetti a dare risposte soddisfacenti ai quesiti sopra proposti e ad altri del genere.

Della sostanza inconsciale fa parte, come il male, il bene (è la compresenza di bene e male, d’altronde, che fa, lo sanno anche i sassi ma non lo si rammenta mai abbastanza agli ottimisti e ai pessimisti, la tragedia dell’universo: tutto fosse bene o tutto male, tragedia non ci sarebbe, ed è su questa compresenza che si sono affaticati, spremendosi fino al prosciugamento le meningi, i più insigni pensatori e si sono tormentati spiriticamente e visceralmente gli artisti – è essa che intriga e affatica anche gli uomini culturalmente sprovveduti, o semplici di mente e cuore). L’inconscio non si preoccupa però gran che di parlarci del o di raffigurarci il – precipuamente con il linguaggio spettacolare dei sogni – bene, di cui, probabile sia questo il motivo, ci ritiene già abbastanza informati (sia di quello di cui siamo capaci e praticanti nei modi definiti, suggeriti, predicati, caldeggiati dalle varie filosofie, ideologie, morali, tradizioni, costumi, e consentiti dalle nostre attrezzature caratteriali e culturali, nonché dai variamente connotati contesti in cui viviamo e dalle circostanze; sia di quello, per così dire inerente alla cosiddetta realtà, termine irrimediabilmente approssimativo, vago e di comodo con il quale siamo comunque avvezzi a indicare tutto ciò che sta appunto nell’universo, umani e bestie, vegetali e sassi, e così via, e i rapporti tra queste entità, e tutti senza eccezione i fenomeni che direttamente e indirettamente ci concernono, terrestri ed extraterrestri). Ci raffigura invece senza risparmio il e ci parla del male. Privilegia insomma una faccia della realtà, con attenzione però alla nostra umana essenza, sia individuale sia generale (archetipica?). Il suo linguaggio è abbastanza ripetitivo e codificato: se ne scoprono ovviamente di continuo aspetti, inflessioni, figure, stilemi, ma basilarmente ci è noto, e gli riconosciamo la stessa universalità di quello dei gatti e dei cani, per dire di bestie presenti in tutte le parti del mondo. Sicuro: è del male, che insieme al bene ci essenzia ed esistenzia, che si occupa, senza spingersi mai a comportamenti grilloparlantici, ammonitori o esortatatori o addirittura condizionanti impositivi coartativi. “Ecco”, è più o meno quello che ci dice, “che cosa sta dietro i tuoi consci pensamenti e sentimenti. Eccoli, i tuoi veraci impulsi e desideri. Dico, e non per servare animam meam, o grullo! Questo è quanto: piglia e porta a casa. Registra, decripta, medita, rumina, rallegrati, rattristati, spera, dispera, confortati, terrorizzati. Se ti pare, beninteso: sono cavoli tuoi. Amen e adieu”.

Perché si occupa eminentemente del male che essenzia ed esistenzia noialtri? Perché –altro motivo è difficile immaginare – ritiene che, per quello che l’universo ci ostende generosissimamente, dovrebbero bastare i nostri occhi fisici e spiritici. E invero, che bisogno c’è dell’inconscio per avere contezza di quegli aspetti del male di vivere apparentabili al cavallo stramazzato di Montale, innumerevoli e di mirabile varietà, andanti dalla mastectomia bilaterale senza anestesia praticata in non remota età preanestesiologica, al lento inghiottimento di un topo da parte di un serpente, ai campi di sterminio nazisti, al sadicamento e stupro di bambini, all’antico accecamento dei re vinti, allo spellamento delle piante dei piedi (arguta tortura argentina nell’era Videla: cfr. Nunca más. Informe de la comisión nacional sobre la desaparición de personas, Editorial Universitaria de Buenos Aires, 1985). L’inconscio dà questo – umano ed extraumano – per scontato e per coscienzialmente conoscibile (sapiente divisione di compiti), lo affida alle nostre capacità, volontà, fatica e coraggio di guardare fronteggiare penetrare, senza svicolamenti elusioni edulcorazioni, e dal canto suo ci dice di noi, della radice abissale, misterica della nostra esistenza e soprattutto essenza. In pratica dunque la meta parrebbe la stessa, del suo dire e del nostro guardare, e il suo dire è criptico come criptica è l’articolatissima tragedia che si svolge nell’universo: ma è dall’inconscio che noi possiamo apprendere – più o meno, non certo interamente – sia la peculiarità sia la generalità del nostro essere della tragedia partecipi, come al tempo stesso attori e spettatori, condizionatori e condizionati. La brama e il terrore di scrutare nell’abisso sono certamente di tutti gli uomini, in diversissima misura, e benché lo asseriamo dall’alto di una nostra non giustificata presunzione, non sappiamo se non siano e quanto di altri esseri dell’universo. Ciò che sappiamo è la nostra tensione conoscenziale (rinunciata spesso per paura o debolezza o incuria o distrazione) e l’impossibilità di un suo positivo sbocco. Siamo un po’ come i levrieri in un cinodromo: la lepre è a portata di denti? se ne aumenta la velocità e il trafelamento continua. Non si può entrare nell’abisso, che è anche il luogo della nostra essenziazione, il luogo di tutte le ambiguità e contraddizioni e del loro reciproco crearsi e inverarsi, della infinitezza e finitezza, dell’essere in sé e in alterità da sé, della necessità e della libertà, di ciò che diciamo bene e male, dello spazio e del non spazio, del tempo e del non tempo (gli sono stati dati e gli si danno molti nomi, fra cui Dio). Si può arrivare alla sua soglia, con l’aiuto dell’inconscio. Purché non ci vinca il terrore, volgarmente detto spaghetto, la cui intensità è tale per cui – si direbbe – l’inconscio stesso si fa scrupolo, si impietosisce, e per esempio dal sogno, quando il suo discorso si fa insostenibile per la nostra psiche, ci consente il risveglio.

Dall’ultimo romanzo, se così si può chiamare, di Marosia Castaldi, Dentro le mie mani le tue. Tetralogia di Nightwater (Feltrinelli, 2007, 721 pagine), itinerario fisico e spericolatamente metafisico, avventura spiritale sul filo dell’inconscio, non ci si può dunque attendere nulla di consolatorio in ordine alla vita. Sì invece in ordine all’arte, perché l’autrice mostra di rettamente intenderla per quello che è e deve essere, una delle forme appunto della tensione conoscenziale, all’insegna della non speranza di raggiungere la meta (penetrazione nell’abisso). La quale non speranza è qualcosa di diverso dalla speranza e dalla disperazione: la disperazione suppone infatti la speranza, come il silenzio suppone la parola. Lo si sa da sempre, del resto, che tra le forme della tensione conoscenziale l’arte, nelle sue varie manifestazioni, ha un ruolo primario, non negato, anzi riconosciuto da quel titanico sommozzatore dell’anima, che artista non era, rispondente al nome di Sigmund Freud.

I libri – tutti, e in misura maggiore i narrativi, i poetici, i filosofici – sono sempre, inevitabilmente (in parte), autobiografici, e lo è parecchio questo, sia per palese volontà dell’autrice di svelarsi a se stessa, di capirsi, sia perché non c’è possibilità di scatenacciare le porte dell’inconscio altrui e di buttarvi almeno un’occhiata senza esercitarsi con il proprio (facendone in qualche modo, quindi, oltre che un’esperienza, uno strumento). Naturalmente la Castaldi (mi perdonino i veterofemministi, che non si scandalizzano quando lo si fa con i cognomi maschili, il mio uso dell’articolo davanti a un cognome femminile) ha imparato quanto c’era e sempre ci sarà da imparare dai modelli scrittoriali dello stream of consciusness: ma l’ascolto dei discorsi dell’inconscio è qui così privilegiato e prepotente che verrebbe da parlare di stream of unconsciousness, se il termine inglese traducesse, il che non è, l’italiano “inconscio”.

Manufatto “mastodontico” è stato definito nella quarta di copertina, e monumentale nelle prime recensioni. Mastodontico, banalmente, lo è, senz’altro: monumentale è attributo di più dubbia pertinenza, perché monumenti ce ne sono d’ogni dimensione. La storia della letteratura ci offre molti esempi di mastodonticità narrativa, alla quale non badiamo più perché appartengono al passato e li abbiamo metabolizzati (esempi insigni fra i non troppo distanti Proust e Musil, meno insigne Bacchelli). Che uno scrittore contemporaneo mastodonteggi ci colpisce e turba alquanto, soprattutto se il suo mastodonte è situabile tra i prodotti intellettualmente impegnativi: siamo più disponibili al mastodonteggiare dell’autrice, degnissima e per la sua invenzione persino geniale, delle storie di Harry Potter, il cui ultimo volume di oltre seicento pagine non esitiamo a regalare a fanciulli di cui la salute fisica e mentale ci sta a cuore. Problema non rilevante: ma il sospetto nasce, che la definizione di mastodonticità entri in qualche modo, in positivo e in negativo, nella valutazione del libro (“Che respiro!” oppure “Che esagerazione!”). Il che non va. Conviene ricordare ciò che tutti sappiamo: che la giusta misura di un libro e la sua dismisura non dipendono dal numero di pagine ma dalla loro necessità. In libri di duecento pagine possono essercene cento non necessarie, e di duecento si può avvertire la mancanza in un libro di mille, e non importa che il primo caso sia più frequente. Non sono numerosi i libri di misura perfetta, ai quali nulla si potrebbe togliere o aggiungere: chi non ne riconoscerebbe uno in Madame Bovary?

Lasciamo dunque perdere la mole del bouquin castaldiano. Sento il bisogno di un’affermazione iniziale, che valga a dissipare ogni perplessità in ordine a ciò che in queste sommarie pagine di testimonianza dirò, riserve, dubbi e disaccordi compresi. Ritengo questo Dentro ecc un testo complessivamente valido importante fascinoso stimolante per contenuto e linguaggio, un’opera che si stacca decisamente e felicemente dalla media dei contemporanei prodotti narrativi, di successo e non. E che per alcuni aspetti e temi lo senta consonante con il mio lavoro narrativo, a parte il piacere che la cosa mi fa, non influenza la mia reazione, che è quella di un lettore prima che di uno scrittore, stanco di opere di cartapesta, magari pseudoinnovative, che non lasciano tracce nella memoria, esulandone appena se ne è letta l’ultima pagina. La favola di Marosia Castaldi nella memoria rimane.

Ciò premesso, con altrettanta nettezza, ravviso in questo manufatto una dismisura che non dipende dal numero di pagine, ma mi sembra spiegabile con una voglia ansiosa di dire e di dire tutto, primariamente di sé, ma anche della propria visione del mondo e del proprio rapporto con il mondo, dopo una lunga e coerente ricerca per individuare ciò che urgeva esprimere e comunicare. Si ha l’impressione di un abbattimento di paratie psichiche e di pudori intellettuali, di una acquisizione di maturità, di intensificazione della curiosità e della determinazione a guardare la realtà, di una cresciuta disponibilità a esporsi come anche modo per più e meglio capire, di un minore bisogno di certezze e rassicurazioni. Insomma, più apertura, meno bisogno di protezione, più accettazione e persino sollecitazione del rischio. Ma buttate giù certe pareti protettive e in quanto tali imprigionanti, il disciplinamento della propria urgenza, anzi ansia espressiva non è facile, e un tributo alla dismisura è pressoché inevitabile pagare. La nostra autrice lo paga, sotto le forme di insistenze tematiche, lungaggini, dilatazioni, ripetizioni, ribadimenti di fantasie pensieri allucinazioni deliri sentimenti sensazioni passioni visceralismi intuizioni scene immagini stilemi parole eventi fenomeni e così via. Voluti sembrano (ma non sempre) lo sdoppiarsi dei personaggi, il sovrapporsi e confondersi di identità, i repentini alternarsi (quasi scivolamenti l’uno nell’altro) di scene eventi tempi spazi.

Il libro – che si propone come tetralogia – offre quattro quadri, che ci presentano una vicenda esistenziale articolata in sottovicende e vicende laterali svolgentisi in tempi e luoghi diversi (andirivieni tra questi tempi e luoghi, digressioni sempre però funzionali), con personaggi ricorrenti, molti dei quali svolgenti ruoli di primo piano, che non di rado peraltro si scambiano, e alcuni ruoli più che protagonistici precipui. Non sono d’accordo con chi nega la presenza qui di una storia e di una trama. La trama c’è, fitta, come l’ordito, e il tessuto che ne risulta è compatto, solido. Si può essere disorientati e dirottati in un primo momento, prima di entrare (ma non si fa fatica a entrare) nel ritmo del discorso, dalla compresenza continua di elementi astratti e concreti, spiritali e materici, cielari e terreni, e dall’apparente contrasto fra due “cure” e intenti dominanti: esplorazione minuziosa e resa di moti interni intellettuali e viscerali (viaggio “parlato” nelle sfere del conscio e dell’inconscio) e palese perseguimento, per esprimerne i0l risultato, di un linguaggio materico. Matericità da intendere non – semplicisticamente – come privilegiamento del concreto o carnale che dir si voglia, ma come rispondenza alla materia da esprimere, che va da un massimo di concretezza a un massimo di astrattezza (termini, ahimé, quanto imprecisi!). Per tentare d’essere più chiaro, e scusandomi per l’esemplificazione: intendo per materia sia la merda sia il profumo di una rosa, sia il mistico excessus mentis sia la razionale ricerca e illuminazione, sia il sentimento sia la sensazione. Un linguaggio materico è quello che sa (e non teme di, anzi vuole) farsi diverso per le diverse materie o forme o modi dell’universale materia o sostanza. Diverso su un’egualità di fondo. L’Alighieri delle tre cantiche, il Quevedo delle poesie e del Buscón – due altissimi esempi a caso – che altro fanno?

Nonostante la sua mole, il carattere non “tradizionale” o se si preferisce non lineare della trama, la scomposizione in sottovicende della vicenda, le digressioni apparenti e reali, i trapassi nell’àmbito addirittura delle singole pagine da un tema all’altro, il numero di personaggi e gli scambi di ruoli, le contraddizioni volute e non volute, ecc., Dentro… sarebbe riassumibile. Non mi ci metto, per non togliere al lettore il piacere della scoperta e dell’esplorazione di un ricco territorio, e per non oberare “Testuale”. Mi limito a qualche avara indicazione.

I temi cruciali del testo (nel quale, incidentalmente, non ravviso surrealismo – tranne in alcune pagine –, ma semmai un furioso espressionismo) mi paiono: l’arduo, tenero e straziante, in esilità di confine tra amore e odio, rapporto madre-figlia; l’indisgiungibilità fattuale e non solo nozionale di vita e morte (sia vita sia morte inverate, significativizzate e dunque “create” dalla propria alterità, vita come e da morte e morte come e da vita: “per trovarla bisogna perderla la vita”); volontà e rifiuto, nonché pena, di nascere; morte compagna assidua della vita (in bianca figura di donna con passeggino contenente solo il respiro di un carnalmente assente infante), così allucinatamente compagna da salire scale e sedersi in stanze, da partecipare a riunioni amicali e conviviali, da dialogare sia pure parsimoniosamente, da translarsi in corpo con cui una giovane fa l’amore (saffico o manual-vaginale, si capisce, in carenza di pene maschile); l’ingoiamento da parte del Cristo – un mangiare più che un bere – a fini riscattistici e salvifici dell’universo intero (da un calice: quindi, si suppone, sotto forma più che di solida terrestrità, di una sorta di haché di carne umana umorosa sanguinolenta putrida).

Difficile non avvertire affinità di questa tematica castaldiana con motivi dell’opera di Ingmar Bergman. Penso a: l’interesse per la fanciullezza e adolescenza, il rapporto tra madre e figlia, la storia, la memoria, la difficoltà della comunicazione e della comprensione, la complicatezza dei rapporti interpersonali in genere, la problematica religiosa, l’assenza (o inerzia o disinteresse o indifferenza o silenzio o impotenza – c’è qui anche qualcosa di vagamente spinoziano, per non parlare della ricca e dolente pubblicistica posteriore all’esperienza dello sterminio sulla dubitabile esistenza del padreterno) di Dio, il tormento psichico, la carne e lo spirito. Anche i personaggi bergmaniani sono vastamente deliranti. Con ciò non voglio affatto ipotizzare un’influenza di Bergman sulla Castaldi o da parte di costei un attingimento all’opera di Bergman. O meglio: penso ch’ella ne abbia tratto stimoli come ogni scrittore “culto” trae dai predecessori che hanno rappresentato momenti importanti dell’affronto con la realtà. La letteratura, quella alta perlomeno, non può non farsi anche con la letteratura. Semmai, se c’è una fonte precisa e appariscente del manufatto castaldiano è la Bibbia, sia il vecchio che il nuovo Testamento, e più marcatamente da un lato i testi profetici e l’Apocalisse (implicante tutta la teologia mistica di Giovanni), dall’altra l’incarnazione e segnatamente il suo momento culminante e conclusivo (Calvario, crocifissione, dialogo tra il figlio e il padre).

Ed è a questo punto che, fra toni tragici e angosciati e toni quasi comici, ci è dato cogliere il nucleo più fruttuoso e intrigante della favola castaldiana: l’urto evidenziato con l’inconoscibile, e non la rassegnazione alla inconoscibilità, ma l’accettazione della medesima e dunque la disponibilità al ripercorrimento dell’itinerario conoscenziale. Ci sono molte fatalità sulla crosta terracquea: oltre alla rimbaudiana fatalité de bonheur, ce n’è una di amore, una di odio, una di indifferenza, una di pace, una di guerra, una di sforzo conoscenziale, una di impossibilità di conoscenza, e chissà quante altre, chissà come lungo potrebbe essere l’elenco. Su tutto l’ambiguità, la contraddizione, l’essere dalla e nella alterità. E non si sa dove, l’abisso misterico. Ecco che il Cristo chiede al padre di risparmiargli l’ingoiamento dell’intruglio calicesco, e il padre alla reiterata richiesta tetragono nega. Qui l’ambiguità (sostanza abissale) esplode in perspicuità. Il Cristo chiede e nega a se stesso, perché egli è nell’unità trinitaria il padre, nonché lo spirito (in distinzione dal padre e dallo spirito). Così come è figlio e padre di Maria, e sorella di lei in quanto figlio del padre ch’egli è e di cui Maria è figlia. Un bel garbuglio parentale, da fare perdere la trebisonda a chi volesse chiosarlo esplicitandone la quidditate. La complicatezza provocatoria di questa quidditate, che peraltro è già nel corpus dei testi sacri, ci rende più disponibili ad accettare la reinvenzione castaldiana della passio Christi, che in estrema sintesi si potrebbe definire come constatazione da parte del Cristo della sua identità con il padre (nel calice c’è, insieme all’umana putrida maleolente carne, Dio, sicché il Cristo ingoia anche il padre, in altre parole si paterna – fra l’altro, flagrante rovesciamento, non so quanto consapevole e voluto, di temi mitologici greci). La fantasia dell’autrice reinventa anche, in parte, con libertà rispetto ai testi canonici, le presenze femminili e i loro gesti intorno a Gesù (sindone, unguentamenti, capigliature bionde asciuganti ecc.) stimolata, si direbbe, dalle confusioni dei lettori dei Vangeli fra: la peccatrice di Luca; la sorella di Lazzaro presentataci da Matteo, Marco e Giovanni; la Maria Maddalena (così chiamata perché proveniente dalla galileiana Magdala) liberata dai demoni. Ma conviene che lasciamo lì la quidditate, come simbolo appunto del mistero e giusta induzione a stare contenti al quia, perché se potessimo sapere tutto non sarebbe stato necessario che la Vergine partorisse, e la pretesa di giudicare di lungi mille miglia con la veduta corta di una spanna ci renderebbe solo ridicoli e a buon diritto ci attirerebbe il pernacchio di cui all’indimenticabile Oro di Napoli.

Soffermiamoci piuttosto un momento su Dio, partendo dalle parole dell’infermiera dell’ospedale di Nightwater: “È tutto una macchina dentro Nightwater – anche Dio non sa come non lo sapeva il ladro sulla croce. E il figlio gli diceva perdona loro perché non sanno quello che fanno ma forse che il padre lo sapeva? […] Tutto il creato apparve all’infermiera come l’immensa solitudine dell’orto […] È tutta una ripetizione ciclica infinita e in questa ripetizione senza senso la vita si conserva […] Il mondo ha bisogno di dimenticare per andare avanti […] anche Dio dimentica se stesso […] La vita va avanti incosciente di se stessa e la vita è Dio come un ventre di madre che non vede la creatura che si porta dentro il grembo. Noi siamo solamente”.

E altrove: “Forse è niente anche l’alito di Dio che non passa che non scorre che non cerca niente che non progetta che non ha domani che non ha paura della vita e della morte. Ci contiene tutti ma ha l’arte di svuotarsi di dimenticare la nostra morte e la nostra vita come una madre che non può vedere il figlio che porta nel suo grembo. Il vuoto di Dio è la sua cecità assoluta per questo può vivere e morire eternamente e il suo pensiero è tutto calma lusso e voluttà. A lui non manca niente”.

Dio è doppiamente figlio di un suo figlio: del Cristo, come abbiamo visto, e di Lucifero, che ha voluto portare agli uomini la luce dell’inferno rubata a Dio, e per ciò è stato segregato nel centro della terra (riscrittura in diversa chiave e prospettiva della vicenda prometeica).Dio gli chiede perdono per averlo esiliato e abbandonato, facendosi con ciò, appunto, figlio di un secondo suo figlio rispetto a Gesù, e lo mette in crisi, perché ci vuole una misericordia enorme “per accettare un padre che prima ti tradisce e poi si fa più piccolo di te chiedendoti perdono”.

Sono questi i temi della Castaldi che mi paiono, con qualche riserva per la loro trattazione un po’ troppo irruente e non vigilata, a tratti confusa e persino pasticciata, i più interessanti, obiettivamente, non solo perché mi ci sono lambiccato e mi ci lambicco anch’io: la maternazione e paternazione operate dal figlio, la nascita come volontà e decisione figliale, la non esistenza se non si è “con” (“non esiste Dio da solo”)

Altri ritengo non inutile richiamare, come quello, un po’ più scontato, della morte che è già nella nascita, e sia pure come trauma della separazione, in quel buio della luce del mondo dalla luce che è il buio uterino: “[…] quando esce [il bambino] da una carne morbida accogliente d’acqua di profumi e di escrementi dove cantano sirene strane che lo cullano verso chissà dove e poi all’improvviso luce contorni netti e ogni cosa al suo posto. Le sirene zittiscono, il mare diventa nero turbinoso”.

E quello – già accennato – della morte compagnevole dei singoli lungo tutta la loro traiettoria terrena, così compagnevole (unica cosa certa nella vita, unica che non ci abbandonerà mai, unica destinataria di una possibile lettera d’amore, creatura da partorire insieme alla propria vita) da personificarsi non nella carne ma nella figura di fantasie amorose ed erotiche: “Io sono la tua morte, senza di te non sono niente. Allora sono io che ti faccio stare in vita? […] Come sei bianca – dissi – nessuno ti ha sporcato non hai fatto l’amore con nessuno? Solo con te – disse timidamente – e continuò a sfilarsi le calze, il reggiseno e si sdraiò sul letto mettendo accanto a sé il passeggino […] Le mie domande la imbarazzavano soltanto distese le gambe. Si allargò. Si spampanava tutta piano piano per accogliere i baci e le carezze”. E ancora: “Ce ne andammo ognuna [madre e figlie] dentro il proprio letto. Feci entrare nel mio la morte col suo corpo bianco levigato. Il passeggino ci dormiva accanto col respiro placido placato […] La carezzai mentre lei mi penetrava con le mani. Sentivo le sue dita dentro la vagina cominciai a succhiarle il ventre poi mi addormentai sulla sua pancia […] Sentivo il respiro sempre più ossessivo dentro il passeggino. Mi ci chinai sopra. Respirai quel respiro lo feci entrare dentro mi sentivo incinta, il seno cominciò a gonfiarsi e la pancia a farsi dura […] Ogni vita è gravida della sua stessa morte”. Morte dunque non da esorcizzare, ma da abituarcisi.

Il luogo dove si svolgono le prime tre parti di questa favola è Nightwater: fosco quartiere periferico di una città di cui si può immaginare una ubicazione settentrionale, che non ci è però detta (probabilmente Milano, residenza dell’autrice che è nata a Napoli). La cosa peraltro non ha importanza. Brume, nebbie, luce avara lattescente, un canale, un traghettatore, un ospedale, una scuola con quattro alunni, una casa con un giardino pompeiano, uccelli “a mille” su pali e alberi (bersaglio di sassate ragazzesche: i ragazzi di Nightwater sono aggressivi come quelli d’ogni paese e crudeli tormentatori di animali), un magro cane randagio (figura trasparente del tempo) che “pascola” e “bruca” non si sa bene cosa a perenne insoddisfacimento della sua devastante fame e morde le caviglie di tutti, un cielo incombente come un “coperchio”. Torna insistentemente questa parola a sottolineare la chiusura del quartiere, oltre il quale non c’è nulla – o, aggravante, in cui c’è tutto nel tutto, sicché è inutile sognare di evaderne. Da non dimenticare, perché è elemento importante, una Nightwater sotterranea (esplicitazione estremistica e tombale del significato di Ade pertinente al quartiere), un labirintico intrico di cunicoli abitato da morti, e percorso da treni funerari carichi anch’essi di morti. Lì defunge, dopo un’agonia ospedaliera solcata da memorie incubistiche e da deliri, da digiuni e da vomiti, la “incatramata” Maria Berganza, una delle figure pincipali del libro, che tiene sotto il guanciale una pistola (di pistole veraci e giocattolo le pagine di Dentro… traboccano). Di lei ci viene narrata estesamente l’infanzia e la fanciullezza in un diverso paesaggio, meridionale, acceso di ulivi e mare, anch’esso però mortuario, dove forse anzi la mortuarietà è più feritoria, terribile e allucinante, come può esserlo la tenebra delle profondità marine avvertita sotto la violenta luminosità e brillantezza della superficie acquea nei giorni assolati. Muoiono la madre, la nonna, il fratello di Maria: particolarmente lenta e orrorosa la morte della madre, la cui giovanile bellezza e allegria si consuma in un cancro che la bimba delirantemente vede in un’aggressione di granchi che si insinuano dappertutto, e di cui ella si sforza di fare strage spiaccicandoli e colpendoli con i turaccioli di una pistola giocattolo. Nel contempo si sfacela la casa di Maria e si fiacca nella depressione il padre (non senza avere fugacemente concupito la figlioletta, dopo averla presa addormentata fra le braccia e portata a letto (“ebbe il desiderio di sfiorarla di baciarla. Non era più sua figlia. Sentì il pene che si irrigidiva”). La decenne Maria fa l’amore con un tredicenne che diventerà suo marito e che poi l’abbandonerà per un’altra donna, finendo suicida. C’è qualcosa, nella rovina di queste esistenze (di “vivi più morti dei morti”) in una buia terra di fitta luce, che richiama la Yoknapatawpha County di Faulkner. Trovano posto in questo non ancora turgido avvio dell’opera oggetti dalla non difficilmente decifrabile simbologia, che torneranno a più riprese. Per esempio, ad esprimere un vitalismo positivo o se si vuole resistenziale (sogno e aspirazione): collana di corallo di Rosa e geranio sulla fronte di Maria Berganza, scarpette rosse. Nonché episodi a incastro, non propriamente parentetici, anzi essenziali nell’economia del racconto, quali un viaggio lavorativo di Maria su una nave che finisce, ingovernato guscio deprivato di passeggeri, fra i ghiacci, mentre vi si svolge un incontro carnale fra un mozzo e Maria (non c’è parentela fra le due vicende, ma un po’ dell’aria del melvilliano Benito Cereno si avverte).

Nella seconda parte del volume campeggia la vicenda di una affannata famiglia di estrazione italiana, con maschi che cercano nella prevaricazione un compenso alla loro nullità e infelicità, con una madre massacrata dai parti e dalle sciatte ripetitive fatiche domestiche che affida alla promozione culturale del figlio minore (andrà a scuola) la speranza di riscatto di una vita squallida e del crollo dei suoi sogni (tornano le scarpette rosse). Ma quella che si impone nel contesto è la presenza al tempo stesso orrorosa, lancinante e sacrale di Amelie, ultimo frutto del ventre materno, sorta di agnello sacrificale, nata idiota e dopo la morte della madre reclusa dai fratelli o autoreclusasi in una stanza presto ridotta a qualcosa di simile a uno stabulario laido, fetido, infetto, in compagnia del fantasma di un gatto morto e sepolto, prostituita per pochi soldi dai fratelli (se ne giova, gratuitamente, anche il prete del quartiere), ridotta a miagolare, a gemere, a grattare le pareti, a camminare a quattro zampe, a colloquiare con uno specchio che è, come peraltro la stanza, figura di un ventre materno che si vorrebbe recuperare come unico rifugio e usbergo (anche qui, la vicenda è altra, e così il suo significato, ma è impossibile non ricordare la gidiana Séquestrée de Poitiers).

Primeggiano nella terza parte la folle reazione di una donna che non è riuscita a metabolizzare la morte efferata del marito, a cui un giovane soldato nazista ha sfracellato la testa con un calcio, e quella della figlia ragazzina che si getta da un balcone uccidendosi (anche lei per dolore sconquassante e insormontabile, ma si apprenderà che questo dolore è più che per la fine del padre, per l’avvertita lontananza della madre, assorta nella sua sciagura vedovile: aspetto del difficile rapporto tra madre e figlia, che l’autrice esamina con grande finezza psicologica). È l’incapacità a metabolizzare il proprio duplice lutto (di cui una delle componenti tuttavia è dominante), che la madre passa il tempo a costruire e a gestire una bambola di pezza e gesso, ad aggiustarla e a fingere di nutrirla e di dialogarci. Bambola su sedia a ruote, frequentatrice e disturbatrice dei sotterranei mortuari di Nightwater, dove una folla inferocita finirà per violentarla e straziarla. Perché anche qui paesaggi diversi si accostano sovrappongono integrano oppongono: una Pompei visitata da madre e figlia, fervida di vita multicolore e poi sommersa da polvere e lava, una casa colma di folla vedovile, i sotterranei cunicolati e funerari (che qui finalmente guardiamo da vicino).

Con la terza parte, dove la dismisura sotto forma di insistenze di cui ho parlato all’inizio, si fa più difficile da reggere, finisce per me il libro. Non che vengano meno nella quarta parte la maestria dell’autrice, il suo calore, l’intensità del suo linguaggio, la sua penetrazione. Anzi, vi si trovano alcune pagine fra le più felici del testo. Ma c’è la sua autobiografia, non necessaria, perché già tutta evidente nelle sezioni precedenti, e poco importa che qui sia esplicitata e scandita in una successione di tappe realistiche: più puntualmente storicizzata, insomma. Si può persino rincrescersi del venir meno degli urti, dei soprassalti, dell’intersecarsi di percorsi, del sovrapporsi fondersi reciproco inverarsi scostarsi negarsi di figure e motivi. Ci si riposa, senza dubbio, nella quarta parte, ma è un indesiderato riposo. La virtù del libro sta proprio nell’averci durante il suo mosso, nervoso e non di rado tortuoso itinerario tolto la voglia e il bisogno di riposare. Quanto al dialogo tra l’autrice e un suo ipotizzato lettore, la non necessità è clamorosa, fino alla disturbanza, per non parlare della contestabilità della tesi, che non è qui il luogo di discutere (personalmente non sono propenso a credere che uno scrittore senza lettore non sia nessuno).

L’originalità e il fascino del linguaggio della Castaldi stanno parecchio nella ricchezza di un lessico che si mantiene tuttavia nell’àmbito della koinè. Solo una lettura miratissima potrebbe rintracciarvi, per esempio, neologismi, del tipo di “poltigliato”(ridotto in poltiglia); non c’è nemmeno grande copia di parole insolite, del tipo di “graspare” (che dà qualcosa di diverso e di più di “raspare”), o del francesismo “buatta” (barattolo) o di “borracciare” (riferito a una nave); in numero modesto le figure retoriche del tipo di “il senza suono” o “il senza luce” o “il nessun dove”. Ma il ricorso preminente, direi quasi totalitario, è a una rottura dello schema sintattico e grammaticale basato eminentemente sul trattamento della punteggiatura, frequentissimamente soppressa anche nei dialoghi in vista di una forte fluidificazione (e di una continua drammatizzazione) del dettato, e della riduzione delle pause ai luoghi e tempi di una realmente irrinunciabile evidenziazione. Entrano nel gioco, ovviamente, anche le maiuscole. E il gioco, non nuovo – abusato nella poesia, non peregrino nella prosa – riesce, al punto di ottenere un intenso coinvolgimento, un trascinamento del lettore, soprattutto nelle prime due sezioni del libro. Le cadute non mancano (sarebbe mostruoso se mancassero e corrispondono a scivolamenti in arbitri non persuasivi. Il pericolo maggiore si annida nei turgori espressivi, nelle ridondanze e nell’ansia di dir tutto di cui ho parlato: ne sono, più che spie, esplosive manifestazioni le ripetizioni, qualche volta chiaramente volute, e le dissonanze linguistiche nelle quali lo slancio espressionistico si risolve. Addito come esemplari sotto questo profilo (tengo a ribadire: episodico) le pagine 452-3, in cui fra l’altro si trova ripetuta ventidue volte la parola dentro, in funzione per lo più preposizionale ma anche avverbiale (dentro Nightwater, dentro la sua pancia, dentro la battaglia, dentro il corridoio, e così via). Questa voluta, parossistica accentuazione (molto materica nell’intento) dell’intimissima ubicazione di cose e accadimenti, non raggiunge lo scopo: qui la troika corre nella steppa con troppi campanelli.